giovedì 15 ottobre 2015

Coraggio, tutti insieme appassionatamente verso i primi del 900 ( A. Robecchi - MicroMega )

E’ passato un annetto giusto giusto da quando il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi emetteva il suo sfumato giudizio: “Il governo Renzi realizza tutti i nostri sogni”. Il problema è che da allora l’attività onirica di Squinzi, Confindustria e imprenditori italiani è stata frenetica: la logica prevalente è quella che se si aiutano i padroni (uh, parolaccia), si aiutano anche i loro dipendenti, un sillogismo piuttosto bislacco, a dire il vero, ma accettato come un dogma. Così, per fare un esempio, mentre si mascherano i tagli alla sanità con una variante del Comma 22 (non ti pago gli esami se non sei grave, ma per sapere se sei grave devi fare gli esami), si annunciano tagli alle tasse sui profitti d’impresa. I famosi vasi comunicanti, solo che comunicano in un verso solo: dal pubblico al privato, dal welfare al profitto, dai tanti ai pochi, dal basso all’alto della piramide sociale.
Chissà se prende qualcosa, pillole, gocce, per sognare tanto, ma insomma, sta di fatto: il padronato italiano ha ora un nuovo sogno e il governo si accinge a realizzarlo. Per la verità non è un sogno nuovissimo ma un vecchio pallino: “superare” il contratto collettivo di lavoro e lasciare che ogni azienda se la veda da sé nelle vertenze sui rinnovi contrattuali. Contestualmente, si dovrebbe varare il salario minimo, cioè una linea di semigalleggiamento sotto cui non sarà possibile andare (né campare). Ora, per tradurre in italiano: l’operaio metalmeccanico (poniamo) della piccola media azienda non potrà più contare sulle lotte comuni e condivise di tutti i metalmeccanici, e quindi su una forza poderosa per sostenere le trattative, ma dovrà vedersela col singolo consiglio di amministrazione. Non è difficile immaginare, dunque, che il potere contrattuale penderà clamorosamente dalla parte degli imprenditori ed è piuttosto fantascientifico immaginare che l’operaio di una piccola azienda di Crotone avrà un domani gli stessi diritti (e lo stesso stipendio) di un collega che lavora in una grande fabbrica del Nord. Dal punto di vista tecnico-economico si tratta di una nuova rapina ai danni del mondo del lavoro, dal punto di vista storico-culturale è invece il definitivo omicidio di concetti come unità dei lavoratori, l’unione fa la forza, uniti si vince eccetera, eccetera, tutte cosucce che ingombrano il disegno thatcheriano in corso.
I narratori delle gesta renziste si affanneranno a dire che – wow! – arriva il salario minimo, e lo venderanno come progresso e cambiaverso in una selva di hashtag osannanti, il che rappresenta, ovviamente una fregatura parallela. Perché tra poco, per essere in regola, basterà offrire ai lavoratori un salario minimo appena sufficiente a campare, e tutto il resto (il salario accessorio) dipenderà dai risultati, dalla disponibilità (straordinari, festivi, notti, doppi turni, obbedienza). Insomma, a farla breve, dalla discrezionalità di chi guida le aziende, con le ovvie e prevedibili ricadute in termini di ricatto economico: fai così o prendi due lire, ubbidisci o ripiombi in un lumpenproletariat da inizio secolo.
Riassumendo: sei demansionabile (Jobs act), licenziabile a costi risibili (sempre Jobs act), i tuoi diritti sono determinati dall’umore del datore di lavoro, il tuo salario è variabile a seconda di come ti comporti, e tra poco si metterà mano a una restrizione del diritto di sciopero. Niente male, per un governo – destra e sinistra Pd, Ncd, sor Verdini e compari – che si affanna a dire a tutti che è “di sinistra”.

Alessandro Robecchi

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