domenica 28 dicembre 2014

Lavoro zero Pubblicato il 24 dicembre 2014 · in alfapiù, società G.B. Zorzoli

Lavoro zero

Pubblicato il 24 dicembre 2014 · in alfapiù, società 

G.B. Zorzoli
La rivoluzione digitale ha già comportato la distruzione di milioni di posti di lavoro, ma ce n’est qu’un debut: ad esempio le banche europee hanno digitalizzato fra il 20% e il 40% delle loro procedure, con la piena digitalizzazione ridurranno del 20-25% il numero di impiegati. Nei prossimi vent’anni, quasi metà di chi lavora nelle libere professioni potrebbe essere sostituito da tecnologie digitali. Anche la maggior parte degli analisti che considerano positiva la metamorfosi in corso, ammettono che per un periodo relativamente lungo avremo più distruzione che creazione di posti di lavoro.
«Growth without jobs» è il titolo dell’editoriale della direzione del “New York Times”, pubblicato l’1 agosto 2014. Malgrado l’eccezionale crescita del PIL nel secondo trimestre dell’anno (+4%), «per il quinto mese consecutivo la settimana lavorativa media è rimasta ferma a 33,7 ore. Gli straordinari, che una volta rappresentavano un sostegno sicuro per i lavoratori americani, in luglio è crollato per il secondo mese consecutivo. Nella migliore delle ipotesi, il salario orario medio nell’ultimo anno ha tenuto il passo con l’inflazione… Fra i giovani che riescono a trovare lavoro, molti hanno impieghi part-time o nella fascia retributiva bassa, nei quali non utilizzano le competenze acquisite negli studi o nelle precedenti esperienze professionali».
Concorda il presidente della Federal Reserve Janet Yellen, che il 22 agosto 2014, al summit fra i responsabili delle banchi centrali, ha definito «fragile» il mercato del lavoro americano: eccesso di disoccupati di lunga durata, troppi posti di lavoro part-time imposti da ragioni economiche e non da scelte volontarie. Queste valutazioni sono confermate dall’OCSE: l’indice Gini (se vale zero indica la massima uguaglianza, se vale uno la massima disuguaglianza) negli Stati Uniti è pari a 0,38, contro 0,34 in Italia, 0,30 in Germania, 0,29 in Francia e Olanda. E, sempre negli Stati Uniti, il 10% più ricco della popolazione ha un reddito 5,9 volte quello del 10% più povero (4,3 in Italia, 3,5 in Germania, 3,4 in Francia, 3,3 in Olanda).
Il denaro affluisce infatti sempre di più verso il capitale e sempre meno verso il lavoro, ricreando una polarizzazione sociale, dove al vertice stanno gli happy few del potere reale, soprattutto finanziario. La quota di ricchezza in mano all’1% che sta al vertice, è cresciuta in USA dal 9% degli anni ’70 del secolo scorso all’attuale 22%. Ed è l’1% ai vertici della scala sociale a orientare gli investimenti, quindi lo sviluppo di una società sempre più disarticolata in termini professionali e umani. Secondo la cruda definizione del sociologo David Graeber, i posti di lavoro si dividono ormai in due categorie: i pochi possessori delle competenze richieste dal mercato e l’enorme massa dei bullshit jobs.
Non stiamo dunque assistendo alla fine del lavoro, ma all’abolizione crescente di quelli che richiedono competenze specifiche, sostenute da buona manualità o da una normale capacità intellettuale. Si sta configurando un sistema economico dove, accanto a un numero limitato di creativi altamente qualificati, che nei settori high tech svolgeranno attività a loro volta minacciate da repentina obsolescenza, serviranno sempre di più soltanto persone da impiegare in lavori che non richiedono particolari professionalità. Potendo pescare in una platea molto più vasta di donne e uomini in cerca di occupazione, precarietà e bassa retribuzione saranno le caratteristiche dominanti.

Poiché alla lunga una situazione del genere rischia di far saltare il banco, in assenza di cambiamenti radicali si andrà necessariamente verso l’adozione di strumenti come il reddito di cittadinanza; ovviamente di entità contenuta e condizionato dall’accettazione, quando serve, di lavori occasionali. Cambiamenti radicali hanno però come prerequisito proposte alternative credibili, cioè in grado di fare i conti, concretamente, con la complessità dell’odierno assetto sociale., di cui oggi si avverte drammaticamente l’assenza.

The Opinion Pages | EDITORIAL from NEW YORK TIMES

Growth Without Jobs

In a statement last Wednesday — just hours after the government reported headline-grabbing economic growth of 4 percent in the second quarter — the Federal Reserve said it would continue to stimulate the economy because, despite overall growth, the labor market remained weak. In a speech the same day in Kansas City, Mo., President Obama echoed the Fed. “I’m glad that G.D.P. is growing, and I’m glad that corporate profits are high, and I’m glad that the stock market is booming,” he said, (which it was before profit-taking at week’s end dented its performance). “But what I really want to see is a guy working 9 to 5, and then working some overtime.”
Those cautionary views were validated on Friday, when the employment report for July showed slower job growth, flat earnings, stagnant hours and stubbornly high long-term unemployment. The challenge now, as always, is to translate official concern over the job market into change for the better.
The economy added 209,000 jobs last month, a decent enough figure in and of itself, but a slow start to the third quarter compared with the average monthly gain of 277,000 last quarter. Worse, July’s relatively slow pace of growth may not be sustainable. Many of last month’s job gains were in automobile manufacturing, which could reflect a statistical blip from shorter-than-usual factory shutdowns in July rather than new positions added.
Moreover, the upswing in the auto industry is tied to a surge in high-cost auto loans to uncreditworthy borrowers, an unstable foundation for future growth. In addition, the sectors that generally add the most jobs each month all slowed in July from their pace in June, including bars and restaurants, retail, health care and temporary services. As for the president’s vision of a 40-hour week plus overtime — well, if only. For the fifth straight month, the average workweek for most of the labor force was stuck at 33.7 hours. Factory overtime, once a mainstay in the lives of working-class Americans, dropped in July for the second straight month. Average hourly wages have, at best, kept pace with inflation over the past year. Pay is languishing, but working longer hours is not an option.
In its statement, the Fed said it was basically a tossup whether the economy would speed up or slow down. Faster growth, however, generally requires a healthy real estate market and that requires a healthy job market, especially for younger workers.
But in July, the jobless rate for workers ages 25 to 34 was 6.6 percent, compared with 6.2 percent over all. Among young people who are working, many are in low-wage or part-time jobs, or jobs that otherwise do not make use of their education or experience. So it is not surprising that the sale of new homes plummeted recently at the fastest pace in nearly a year. Sales of existing homes have risen, a positive sign but a questionable trend given the still-ailing job market.

L’invenzione dei lavori inutili di Christian Marazzi

L’invenzione dei lavori inutili

di Christian Marazzi

Il più grande economista del secolo scorso, John Maynard Keynes, in un suo scritto del 1930 prevedeva che entro la fine del secolo lo sviluppo della tecnologia avrebbe permesso la riduzione della settimana lavorativa a sole quindici ore. Keynes basava la sua previsione sulla base della limitatezza dei bisogni materiali.
Non solo questa sua previsione non si è avverata (la crescita dei bisogni si è rivelata inesauribile), ma la tecnologia stessa è stata utilizzata per inventare nuovi modi per farci lavorare tutti sempre di più. Un vero paradosso che viene di solito attribuito al consumismo, responsabile della creazione di un’infinità di nuovi lavori e industrie per soddisfare il desiderio di nuovi giocattoli e i piaceri più diversi.
Eppure, se si guarda all’evoluzione dell’occupazione dell’ultimo secolo si nota che tanto è crollata (come previsto) l’occupazione industriale e agricola come effetto dell’automazione, e tanto, anzi tantissimo sono aumentate le libere professioni, i lavori dirigenziali, d’ufficio, di vendita e di servizio, passando da un terzo degli impieghi complessivi a tre quarti.
I lavori che veramente sono esplosi sono quelli amministrativi, con la creazione di intere nuove industrie come quella dei servizi finanziari o del telemarketing, di settori come quello giuridico-aziendale, dell’amministrazione accademica e sanitaria, delle risorse umane e delle pubbliche relazioni. Ai quali andrebbero aggiunti gli impieghi che forniscono a queste industrie assistenza amministrativa, tecnica o relativa alla sicurezza come pure l’esercito di attività secondarie, dai toelettatori di cani ai fattorini che consegnano pizze a chi lavora tanto tempo in altri settori.
I tagli all’occupazione, i licenziamenti e i pre-pensionamenti il più delle volte riguardano lavori socialmente utili, mentre aumentano le attività amministrative e il tempo di lavoro da dedicare a seminari motivazionali, ad aggiornamenti dei profili
Facebook o a scaricare roba. Per non parlare di un altro paradosso, quello che vede i lavori che veramente giovano ad altre persone, come quello di infermieri, spazzini, badanti o meccanici, pagati una miseria.
È difficile dare una spiegazione economica a questo aumento delle attività amministrative e di controllo di lavori altrui.
Come ricorda l’antropologo David Graeber, nell’economia di mercato “questo è esattamente quel che non dovrebbe succedere”, quello che la concorrenza di mercato dovrebbe correggere. Di fatto, l’ultima cosa che deve fare un’azienda desiderosa di profitti è sborsare soldi a lavoratori di cui non ha davvero bisogno.
Forse la spiegazione c’è, non è economica ma politica e morale: liberare tempo per sé, lavorare meno per lavorare tutti e meglio, è visto con sospetto, come se comportasse la perdita di potere sulla vita degli altri. Meglio quindi inventare lavori inutili, ma utili per piegare tutti all’etica del lavoro.

Christian Marazzi: L’invenzione dei lavori inutili

Christian Marazzi: L’invenzione dei lavori inutili

mercoledì 17 dicembre 2014

Il conflitto redistributivo del capitale scatenato

altro bel contributo dal sito Eddyburg.it:

Il conflitto redistributivo del capitale scatenato

di ALDO CARRA   13 Dicembre 2014
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Uno sciopero generale che contribuisca ad arrestare la politica distruttiva del "capitalismo scatenato", necessaria premessa per la faticosa costruzione di un sistema economico sociale alternativo. Il manifesto, 12 dicembre 2014


Lo scio­pero gene­rale con­tro il Jobs Act e più in gene­rale con­tro la legge di sta­bi­lità, mette in luce la fal­li­men­tare poli­tica eco­no­mica del governo che asse­conda la deriva libe­ri­sta del “capi­ta­li­smo sca­te­nato”, come, una die­cina di anni fa, l’economista inglese Andrew Glynn defi­niva la nuova fase del capi­ta­li­smo. Una rispo­sta allo spo­sta­mento nella distri­bu­zione dei red­diti a favore del lavoro regi­strato negli anni sessanta-settanta.

Da allora ripri­stino della disci­plina macroe­co­no­mica, pri­va­tiz­za­zioni, inco­rag­gia­mento delle forze di mer­cato, foca­liz­za­zione delle imprese sul “valore per l’azionista” sono stati i pila­stri di una feroce con­trof­fen­siva: il con­flitto distri­bu­tivo ha cam­biato segno, e, per l’effetto con­giunto di minore e peg­giore occu­pa­zione e di più bassi salari reali, la quota di red­dito che va al lavoro è costan­te­mente diminuita.

Quell’offensiva del capi­tale, che oggi tocca livelli prima impen­sa­bili in Ita­lia, non si limita a ripor­tare indie­tro le lan­cette della sto­ria per tor­nare alla situa­zione pre­e­si­stente. Se così pro­ce­des­sero i pro­cessi sto­rici tro­ve­rebbe legit­ti­mità la teo­ria del pen­dolo: uno spo­sta­mento dei rap­porti di potere ecces­sivo ad un certo punto si ferma e si met­tono in moto le forze che spin­gono in dire­zione con­tra­ria. Così si potreb­bero leg­gere, in que­sto caso, la rispo­sta del capi­tale di cui abbiamo par­lato e quella che oggi cerca di dare il sin­da­cato anche con lo scio­pero. Ma la situa­zione reale è molto più com­plessa per­ché negli ultimi decenni è cam­biato il mondo ed è cam­biato lo stesso capitalismo.

La glo­ba­liz­za­zione, la con­nessa Ascesa della finanza — titolo que­sto di un bel­lis­simo e pre­veg­gente libro del caro Sil­vano Andriani recen­te­mente scom­parso — e, più di recente, la rivo­lu­zione digi­tale hanno deli­neato un capi­ta­li­smo che ha fatto un enorme salto di qua­lità. In que­sta nuova fase di un capi­ta­li­smo per il quale non tro­viamo ancora una deno­mi­na­zione con­di­visa – oscil­lando dal finan­z­ca­pi­ta­li­smo di Gal­lino al capi­ta­li­smo patri­mo­niale di Piketty – gli ele­menti che emer­gono sono due.

Il primo è costi­tuito dalla glo­ba­liz­za­zione del mer­cato del lavoro che mette in com­pe­ti­zione, in ter­mini di costo, il lavoro delle eco­no­mie svi­lup­pate con quello delle eco­no­mie emer­genti. Gli effetti di que­sta nuova com­pe­ti­zione sono bidi­re­zio­nali: da un lato si spo­sta la pro­du­zione dai paesi ad ele­vato costo del lavoro verso quelli a costo più basso, dall’altro i lavo­ra­tori delle aree più arre­trate emi­grano nelle aree svi­lup­pate per fare i lavori più pesanti ed a con­di­zioni rifiu­tate dai resi­denti. L’effetto di que­sti pro­cessi sul con­flitto distri­bu­tivo è, per i paesi svi­lup­pati, quello di un abbas­sa­mento dei salari e di una ridu­zione dei diritti. Il secondo ele­mento che carat­te­rizza que­sta fase è la rivo­lu­zione digi­tale che ha già inve­stito pesan­te­mente la pro­du­zione mani­fat­tu­riera e che inve­stirà sem­pre di più i set­tori del com­mer­cio e dei ser­vizi, pub­blici e pri­vati, ridu­cendo la quan­tità di lavoro neces­sa­ria e modi­fi­cando pro­fon­da­mente, con­te­nuti e moda­lità della pre­sta­zione lavorativa.

I due ele­menti segna­lati si intrec­ciano tra di loro, e con­tri­bui­scono allo stesso pro­cesso: una sva­lu­ta­zione del lavoro impen­sa­bile fino a pochi anni fa che si mani­fe­sta a livello sovra­na­zio­nale ed agi­sce su un ter­reno senza regole come quello finan­zia­rio nel quale il capi­ta­li­smo sca­te­nato è diven­tato sfug­gente ed inaf­fer­ra­bile. I pro­cessi di cui stiamo par­lando non sono ancora com­piuti, ma in pieno svol­gi­mento e, quindi, le situa­zioni che si vivono nei vari paesi sono dif­fe­ren­ziate secondo le loro sto­rie e secondo le moda­lità con le quali si stanno affron­tando i pro­cessi stessi.

Non è un caso che l’area dei paesi svi­lup­pati si arti­coli in tre gruppi: eco­no­mie che si affac­ciano verso una pos­si­bile nuova fase di cre­scita come gli Usa, eco­no­mie che hanno supe­rato la crisi anche se non hanno ritro­vato il sen­tiero della cre­scita come Ger­ma­nia e Nord Europa, eco­no­mie che rista­gnano ed indie­treg­giano. Que­sto signi­fica che, pur di fronte ad una comune con­trof­fen­siva del capi­tale, non è ine­lut­ta­bile che i paesi più svi­lup­pati subi­scano con­tem­po­ra­nea­mente ridu­zioni del lavoro, ridu­zioni dei diritti ed inde­bo­li­mento e declino delle strut­ture pro­dut­tive. Un mix que­sto che può essere vera­mente esplo­sivo. L’Italia si col­loca nel terzo gruppo ed è sulla soglia di un’esplosione sociale.

Lo scon­tro che la agita oggi, pro­ta­go­ni­sti Cgil, Uil e governo si col­loca in que­sto con­te­sto e la par­tita appare deci­siva per il nostro futuro. Se è vero che siamo in mezzo ad una muta­zione che supera i con­fini nazio­nali è anche vero che le moda­lità scelte dal nostro governo sono di ras­se­gna­zione, al di la delle chiac­chiere su spe­ranze e futuro, ad un ridi­men­sio­na­mento di lavoro, diritti e futuro produttivo.

Aver fatto della subor­di­na­zione alle logi­che con­fin­du­striali e dello scon­tro col sin­da­cato il perno delle poli­ti­che del governo ci sta cac­ciando in un vicolo cieco. In Ita­lia non dob­biamo dimen­ti­care che, a parte alcune isole felici di una parte dell’imprenditoria che ha saputo inve­stire, inno­vare ed espor­tare, le ricette del pas­sato (con­te­ni­mento del costo del lavoro e sva­lu­ta­zioni com­pe­ti­tive), non hanno aiu­tato il capi­ta­li­smo ita­liano a cre­scere pun­tando sull’innovazione, sulla ricerca e sull’aumento della dimen­sione di impresa. Anche per que­sto, quello che abbiamo oggi di fronte è un capi­ta­li­smo indu­striale che sa solo chie­dere più libertà di licen­ziare, meno tasse, pri­va­tiz­za­zioni per fare inve­sti­menti sicuri e grandi opere nelle quali lucrare; un capi­ta­li­smo inca­pace di pro­get­tare una pos­si­bile poli­tica indu­striale di inve­sti­menti, di ricerca, di nuovi rap­porti pro­du­zione – uni­ver­sità — ricerca…

Que­sto capi­ta­li­smo non andrebbe coc­co­lato con un po’ di spic­cioli elar­giti a piog­gia accon­ten­tan­dolo e facendo copia/incolla delle sue ricette, ma sti­mo­lato e sfi­dato a fare un salto di qua­lità. Certo que­sto richie­de­rebbe un governo con una capa­cità pro­get­tuale, con un piano dei tra­sporti e della mobi­lità, con un piano di risa­na­mento ambien­tale e del ter­ri­to­rio, con un piano indu­striale ed una visione dei set­tori del futuro.

Ed invece noi abbiamo di fronte una classe indu­striale ed un governo asso­lu­ta­mente ina­de­guati alle sfide del nostro tempo. E’ in que­sto qua­dro che si col­loca lo scio­pero del 12. Per la com­ples­sità dei pro­blemi di cui abbiamo par­lato, non pos­siamo e non dob­biamo illu­derci che con esso si possa fare il mira­colo di capo­vol­gere que­sta situa­zione. Ma la “poli­tica” di que­sto governo e la sua “non poli­tica” vanno con­tra­state e fer­mate. Fare que­sto sarebbe già tanto ed una buona riu­scita delle mobi­li­ta­zioni di oggi è per que­sto essen­ziale. Impor­tante sarà, però, soprat­tutto il dopo.

Sarà quello che acca­drà nel Pd e quello che acca­drà a sini­stra. Un futuro vicino, ad oggi impre­ve­di­bile, la cui dire­zione più o meno a sini­stra dipen­derà sì dall’esito dello scio­pero, ma soprat­tutto da come sapremo rico­struire un pen­siero di sini­stra volto al futuro più che al pas­sato. Ma que­sto, in tempi di cor­ru­zioni – dege­ne­ra­zione — eva­po­ra­zione dei par­titi — asten­sio­ni­smo dila­gante, è pro­prio un altro capitolo

sabato 13 dicembre 2014

La questione morale è politica

Sul tema di Mafiacapitale e cultura dell'illegalità diffusa Vi invio un bell'articolo pubblicato dal sito Eddyburg.it e da "il manifesto" :
La questione morale è politica
di PIERO BEVILACQUA 13 Dicembre 2014
Il paesaggio di corruttela e intreccio criminale che domina da anni la vita politica e amministrativa di Roma, a essere onesti, non dovrebbe stupirci...>>>
Il paesaggio di corruttela e intreccio criminale che domina da anni la vita politica e amministrativa di Roma, a essere onesti, non dovrebbe stupirci più di tanto. E' sufficiente avere buona memoria delle cronache politico-affaristiche degli ultimi 20 anni per capire una verità elementare: la corruzione, nella vita del nostro paese, non è l'eccezione, ma la norma. Lo dicono, peraltro, le statistiche internazionali. Essa emerge ogni qualvolta la magistratura scoperchia la crosta della legalità formale e mostra il corso reale degli affari. E' sufficiente affondare un po' l'unghia su qualunque superficie e zampilla l'umore purulento.
Costituirebbe tuttavia un errore interpretare il problema grave ed enorme nella sua normalità ricorrendo a categorie morali di interpretazione. Perché, come dovrebbe essere ovvio, la corruzione e la predazione sistematica del bene pubblico, sono un problema eminentemente politico. Possiamo chiederci perché tutti gli scandali esplosi negli ultimi anni vedono coinvolti uomini politici, rappresentati di partiti, eletti nelle amministrazioni locali? Perché nell'affare fraudolento, direttamente o indirettamente, è protagonista o ha comunque un ruolo di rilievo la figura del partito politico? Dovremmo ricordarci che per oltre tre decenni, nella seconda metà del '900, in quasi tutte le democrazie occidentali, i partiti politici sono stati, come diceva Gramsci, gli «organizzatori della volontà collettiva». Essi fornivano coesione sociale, rappresentanza, voce alle masse dentro lo stato. Erano dei grandi collettori d'istanze sociali e per ciò stesso educatori di legalità, insegnavano il valore del conflitto sociale come strumento collettivo di espressione e di emancipazione. La lotta sociale educa gli individui a pensarsi come corpo sociale e a trovare in essa, e non nelle scorciatoie personali, o nelle pratiche truffaldine, la via per far valere le proprie ragioni e i propri diritti. Com'è noto, da tempo, questa realtà ha fatto naufragio.
I partiti di massa sono stati divorati al loro interno dai poteri economico-finanziari. In Italia – ha scritto Luigi Ferrajoli nel II vol. dei suoi Principia juris (Laterza, 2007), un testo ricchissimo di indicazioni riformatrici – la perdita della dimensione di massa dei partiti, deriva anche «dalla crescente separazione dei partiti dalle loro basi sociali: per la loro progressiva integrazione nelle istituzioni pubbliche fino a confondersi con esse e a svuotarle e a spodestarle; per la loro trasformazione da associazioni diffuse sul territorio e radicate nella società in vaghi e generici partiti d'opinione, per la loro perdita di progettualità politica e di capacità di coinvolgimento ideale e di aggregazione sociale; per la loro sordità, il loro disinteresse e talora la loro ostilità ai movimenti sociali e alle sollecitazioni esterne». Si comprende, dunque, perché sono sempre di meno i cittadini che credono di poter far valere i propri diritti (lavoro, studio, casa, salute) attraverso le vie legali della pressione sulle proprie rappresentanze politiche: la diserzione crescente dall'esercizio del voto lo prova a sufficienza. Mentre aumenta il numero di chi cerca soluzioni informali e private ai propri crescenti problemi. Questa è da tempo la realtà di gran parte del Mezzogiorno, ma ormai costituisce l'humus ideale su cui prospera e si estende, in tutta Italia, un clientelismo di nuovo tipo, talora con propaggini criminali più o meno ampie.
Si potrebbe obiettare che nelle altre grandi democrazie al declino dei partiti di massa non ha corrisposto un pari tracollo delle strutture della legalità. L'obiezione, fondata, rinvia a specificità di lungo periodo della nostra storia nazionale, che qui non si possono neppure sfiorare. Ma si possono fornire spiegazioni sufficienti pur rimanendo nell'ambito della storia recente. Ebbene, come possiamo separare il quadro di devastazione civile e morale di Roma, offertoci dalla inchiesta giudiziaria in corso, da quanto è accaduto in Italia negli ultimi 20 anni? Come si possono separare i nomi di Carminati e Buzzi dalla cultura del sopruso e della illegalità profusa a piene mani per oltre vent'anni dal potere politico e di governo di Silvio Berlusconi? L'Italia, unico paese in Occidente, è stata lacerata da un conflitto di interessi senza precedenti e senza paragoni con altri stati civili del mondo. L'esecutivo della Repubblica è stato ripetutamente messo al servizio dei problemi giudiziari del presidente del Consiglio e degli interessi delle sue aziende, il parlamento è stato ripetutamente umiliato, gli interessi personali e quelli pubblici resi indistinguibili. E messaggi di impunità sono stati lanciati per anni agli imprenditori, con l'abolizione del reato di falso in bilancio, l'esortazione e la pratica dell'evasione fiscale, agli speculatori edilizi con i condoni e la libertà di saccheggiare il territorio, agli evasori fiscali con condoni benevoli per il rientro dei loro capitali. Quale altro incitamento alla frode dovevano ricevere gli italiani, addirittura dai vertici del potere politico, per perdere ogni fede – già scarsa per antica debolezza di disciplinamento civile – nelle regole comuni della nazione? Quale altro lasciapassare dovevano ricevere i gruppi affaristici e criminali per intraprendere le loro pratiche, in cooperazione con gli elementi più spregiudicati dei partiti?
Rammentare brevemente questo devastante passato consente di guardare con altri occhi alla reazione di Renzi di fronte ai fatti di Roma. Egli ha detto che è stanco di indignazione e che vuole i fatti. Siamo stanchi anche noi, ma innalzare le pene per chi corrompe e sequestrare i beni di chi delinque, non è sufficiente. E' certo apprezzabile in sé, ma ancora una volta mostra l'abilità del presidente del Consiglio di trasformare qualunque problema in occasione di pubblicità elettorale. La trovata, che placa un po' l'ira delle moltitudini e seda il moralismo dozzinale dei nostri media, nasconde una ben più grave realtà sostanziale. Renzi, emerso alla ribalta come un novatore, capace di riscattare la nazione dai suoi vecchi vizi è in realtà un continuatore.
E' anche lui un uomo della palude. La “rottamazione”, ottima trovata di innovazione propagandistica, gli è servita da strumento per regolare i conti nel suo partito e prenderne il comando. Non certo per innovare le vecchie regole della politica. Gli avversari utili, anche quelli con la fedina penale sporca, anche i corruttori della nazione, non andavano toccati. Forse che Renzi, diventato segretario del PD, ha spinto il partito verso un maggior radicamento sociale e territoriale? Ha portato un'etica nuova, una ventata di democrazia e trasparenza tra dirigenti, militanti, elettori? Una volta al governo ha forse messo mano alla situazione di illegalità in cui vive il paese da oltre 20 anni, con il conflitto di interessi di Berlusconi? Ha ripristinato il reato di falso in bilancio? Al contrario, ha compiuto l'operazione più vecchia e consunta della storia politica italiana: accordarsi con l'avversario. Ha siglato un patto segreto con un criminale, condannato in via definitiva nei tribunali della Repubblica. Ha continuato a tenere contatti con il plurinquisito Denis Verdini, ha messo mano alla struttura della costituzione, pur non essendo egli stato eletto, forzando un Parlamento che è espressione di una legge elettorale dichiarata incostituzionale dalla Corte.
E allora quale messaggio di legalità viene al Paese da tali scelte? Quale incitamento a continuare come prima arriva a tutti i faccendieri d'Italia ? Non dovrebbe essere evidente che Renzi, proprio lui, il grande novatore , a dispetto del suo banale nuovismo parolaio, è l'anello di congiunzione che tiene in vita la “vecchia Italia”, autorizza la conservazione del fondo limaccioso della vita nazionale? Non dovrebbe esser chiaro che la politica incarnata dal presidente del Consiglio si fonda su una immoralità costitutiva e irrimediabile, che guasta lo spirito pubblico Egli infatti non solo rimette in mare aperto l'iceberg dell'illegalità italiana, Berlusconi e i suoi, ma conduce una politica fondata sulla menzogna. Finge una politica popolare continuando di fatto la strategia ispirata dai poteri finanziari internazionali. Quella politica che ha generato la Grande Stagnazione, che continua a distruggere il nostro tessuto industriale, soffoca la vita delle amministrazioni comunali, fa dilagare disoccupazione e povertà in tante aree del paese, mette in un angolo Università e ricerca. Renzi finge opposizione ai vertici di Bruxelles, ma lo fa con le parole, perché, da vecchio esponente del ceto politico, bada prima di ogni cosa alla conservazione del suo personale potere. Non va allo scontro con i forti, picchia chi ha a portata di mano, sindacati e lavoratori, accusandoli di essere vecchi, per renderli docili agli investimenti finanziari. E'allora, quale fiducia può rinascere nei cittadini, quale valore viene ridato a legalità e trasparenza in un paese in cui lo stato, prima ancora dei cittadini, parla il linguaggio della menzogna?

SULLE REGOLE

"Esiste un paese dove trionfano il sotterfugio, la furbizia, la forza, la disonestà sotto l'apparenza delle leggi uguali per tutti, del rispetto per ogni diritto di base? Quello dove coloro i quali si attengono alle leggi formali ( che non é detto siano pochi ) sono scavalcati ogni giorno da chi non le osserva?
Si può concepire un sistema per capovolgere la situazione che non consista nel rovesciamento di quella cultura? E si può pensare che la cultura cambi " per ordine del'autorità", autorità. d'altra parte,  espressione di quella stessa cittadinanza che si promuove violando le legge? La strada non é  forse quella di maturarne una opposta nella propria intimità, e poi proporla agli altri, e mostrare che si può praticare, e dimostrare nello stesso tempo quali sono gli svantaggi che anche ai più furbi, ai più raccomandati, ai più forti e ai più potenti procura la società verticale?
C'é bisogno, per mostrare questi svantaggi, di richiamare la necessità di forme sempre più ghettizzate di difesa del proprio spazio e dei propri beni, la diffusione delle guerre, la progressiva distruzione delle risorse, l'esclusione continua di numeri enormi di persone dal riconoscimento e dall'armonia per il trionfo della divisione e dell'odio?
Certo un'osservanza assoluta di regole giuste non sarà mai universale.
Ognuno di noi é un essere umano, che si porta dietro ogni giorno tutte le sue imperfezioni, e che non potrà mai architettare e praticare forme di convivenza perfetta.
Certo,  il male non può essere estirpato del tutto dalla storia; e la natura umana, la sua finitezza mortale é essa stessa fonte frequente di angoscia e sofferenza. A tutto questo non possono porre rimedio le regole e la loro osservanza.
In questi confini, la scelta consapevole, e la sua applicazione coerente, di tendere al modello sociale basato sul riconoscimento dell'essere umano stabilisce la direzione del percorso e qualifica ogni sua tappa. Più si procede, più si allargano le possibilità di vedere se stessi e ognuno degli altri come soggetti e non come oggetti; di essere liberi e non sottomessi, cittadini e non sudditi. Si tratta di un percorso infinito, nel quale, prima e più della meta, conta il modo di essere sulla strada, la coerenza di ogni gesto e di ogni parola rispetto al risultato finale. E' il percorso, non il traguardo, a riempire la persona del proprio valore e della propria dignità.
Tutti noi siamo sul percorso, dipende da ognuno di noi dove questo ci porterà."

tratto dalle conclusioni del libro di Gherardo Colombo " Sulle regole" Serie Bianca Feltrinelli ( 2008 ) 

Nel pieno della grave crisi che attraversiamo e di fronte a fatti di corruttela e criminalità come quelli che oggi, come ieri, si manifestano nel nostro Paese, credo si debba affermare che senza il rispetto delle regole non si può vivere in società. Ma occorre che le persone, i cittadini, debbono comprendere la ragioni di queste regole.
E' per questo che la discussione sulle regole, e sul modo con cui esse si costruiscono nelle sedi a ciò deputate, non può non coinvolgere anche i modelli di società a cui le regole si ispirano. Modelli verticali, basati sulla gerarchia e sulla competizione. E modelli orizzontali, più rispettosi della persona e orientati al riconoscimento dell'altro da sé. Una strada, quest'ultima, tracciata proprio oltre 60 anni fa dalla Dichiarazione universale dei diritti dell'umanità e dalla Costituzione italiana.
Credo che stiano qui le ragioni e i principi che possono guidarci nella nostra azione quotidiana, facendo la nostra parte sino in fondo e per quello che ne saremo capaci.

Fraterni saluti, Vitaliano Serra