sabato 26 gennaio 2013

Per un Paese più Giusto
Da trent’anni la condizione del lavoro peggiora e il suo valore sociale svanisce

L’ANALISI  di  RINALDOGIANOLA

Il senso di ingiustizia, di abbandono che provano i lavoratori, chi cerca un’occupazione, l’afasia crescente di chi non ce la più nemmeno a lottare, a volte anche la perdita di speranza, sono i segnali preoccupanti che la storia di questi anni di crisi ci ha raccontato e ci rappresenta quotidianamente.
Di cosa parliamo quando parliamo di lavoro e di ingiustizie? Il tasso di disoccupazione reale è ormai prossimo al 12%, considerati i lavoratori in mobilità. Oltre il 30% dei giovani non trova lavoro, le donne non si iscrivono nemmeno più alle liste di disoccupazione tanto è impossibile trovare un posto. È stato calcolato che l'amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne, ha uno stipendio che è 430 volte quello medio di un suo operaio. Il manager ha incassato nel 2011 una retribuzione complessiva annua di 17milioni di euro, mentre un cassintegrato di Mirafiori prende 850 euro al mese. Nel 2009 il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi aveva un reddito 11.490 volte superiore a quello di un lavoratore di Pomigliano d'Arco. Il rapporto tra le retribuzioni medie dei manager e dei lavoratori dipendenti era di 45 a 1 nel 1980, è salito a 500 a 1 nel 2000. Secondo il Sole24Ore (non la Pravda...) nel 2011 la Borsa di Milano ha perso il 25%, ma la retribuzione media annua dei top manager italiani è cresciuta da 3 a 3,5 milioni di euro. Questo è il mondo in cui viviamo, si potrebbe osservare, e non si può fare troppa demagogia, non ci si può sempre scandalizzare. L'ingiustizia che patisce il lavoro in Italia è testimoniata dalla dinamica della distribuzione della ricchezza nazionale: la quota di pil destinata a rendite e profitti continua a crescere mentre quella per i salari precipita. La percentuale di pil indirizzata ai profitti è salita dal 23% del 1983 al 31% nel 2005, per i salari invece si è partiti dal 76% per scendere al 68% e oggi è ancora inferiore. Il sociologo Luciano Gallino ha stimato in 250 miliardi di euro all'anno la ricchezza uscita dai salari a favore dei profitti. Ancora: secondo la Banca d’Italia circa il 10% della popolazione italiana controlla oltre il 50% della ricchezza nazionale. Ecco come siamo messi, oggi gennaio 2013, a un mese dalle elezioni politiche. Possiamo andare avanti così?
La crisi finanziaria esplosa negli Stati Uniti nel 2008 è diventata una prolungata scossa sistemica dell'intera economia
mondiale, in cui è stata coinvolta direttamente e drammaticamente l'Italia.
La nostra economia è stata travolta da una profonda recessione che, alimentata anche da speculazioni e manomissioni
finanziarie, si è rivelata non più una semplice crisi momentanea, che arriva e dopo un anno o due se ne va, ma una
tempesta continua, imprevedibile nella sua durata e nella sua estensione. Questo terremoto nasce dal fallimento delle politiche neoliberiste che da trent'anni ci opprimono e che proprio nel momento più drammatico del disastro riescono a trovare freschi predicatori, nuovi sostenitori, fedelissimi adepti i quali, anziché finire sul banco degli imputati come meriterebbero, "scoprono" nei debiti sovrani, nell'insufficiente produttività e nella rigidità del lavoro, nell'eccessiva protezione sociale dei sistemi di Welfare, negli sprechi dello Stato o delle eventuali "caste" le vere cause della crisi. A fronte di questo ribaltamento della verità, la politica, la società, la cultura si adeguano, quasi tutti, tristemente all'elogio dei tecnocrati che, come conoscitori della tecnica, sono in grado di sostituirsi alle classi di governo, quelle politiche ma anche quelle imprenditoriali ormai poco affidabili, riducendo la democrazia, comprese le elezioni, a un semplice inutile esercizio.
Viviamo, dunque, non una banale recessione economica, con la chiusura delle imprese e la crescita della disoccupazione, ma un cambiamento del capitalismo, del suo modo di pensare e di agire, sempre più individualistico, manageriale, socialmente irresponsabile, dotato di privilegi e retribuzioni impensabili, condizionato solo dall'andamento dei corsi di Borsa e dai capricci dei grandi azionisti, dei fondi e delle banche di investimento.
Viviamo, anche in Italia, un passaggio dominato dall’allargamento delle ingiustizie, dall'alterazione intollerabile delle capacità di reddito tra chi sta sopra e chi sta sotto, con la cancellazione di diritti, contratti, interessi, regole di convivenza in fabbrica, in ufficio, a scuola. In questo sistema, che nemmeno il fenomenale Obama è riuscito a ostacolare nonostante già la sua prima vittoria del 2008 fosse basata sull'impegno a tagliare le unghie ai nuovi predatori, il lavoro è stato ridotto a una semplice, secondaria, componente del processo economico. Il lavoro vale poco, sempre meno. Stiamo vivendo una regressione culturale, una deriva di cui il Paese non pare accorgersi nella sua drammatica gravità, siamo investiti da
una bufera che cambia i termini della nostra democrazia, ma andiamo avanti, applaudiamo come dei cretini il bocconiano di turno o il manager campione di stock options come prototipi del sicuro successo. È in questa situazione che oggi e domani la Cgil, il più grande sindacato italiano, presenta il suo piano per il lavoro.
Una proposta che evoca fin dal titolo altre emergenze sociali in altri periodi storici. Che Susanna Camusso e la sua organizzazione abbiano deciso di chiamare i leader del centrosinistra a confrontarsi su questa priorità assoluta è un segno di consapevolezza e di responsabilità verso il Paese. Anche se Mario Monti non riesce a comprenderlo. È proprio il caso di augurare buon lavoro.

Giorno della Memoria 2013

 

Giorno della Memoria 2013

In ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti, 27 gennaio 2013.

Domenica 27 gennaio 2013
“ Capire è impossibile, ricordare è un dovere. Tutti coloro che dimenticano il loro passato, sono condannati a riviverlo.” ci ammoniva Primo Levi.

La dedica, se così si può dire, è alla rivolta del Ghetto di Varsavia. Gli ebrei rimasti in vita decisero di resistere ai nazisti e ci riuscirono, senza aiuti e armi, dal 19 aprile al 16 maggio, poi morirono quasi tutti. Così come morirono quasi tutti i deportati dall’Italia lo stesso anno, consegnati al boia nazista dagli “italiani brava gente. Due sono le ragioni principali di questo impegno ormai pluridecennale, oltre, ovviamente, alla volontà di ottemperare a quanto previsto dalla Legge 211/2000, che istituisce il giorno della memoria.
La prima riguarda chi perse la vita nell’inferno dei lager nazisti.
È bene ricordare ancora una volta che nei campi di concentramento e di sterminio nazisti sono morti 13 milioni di esseri umani, di questi 6 milioni erano ebrei e di questi circa 1,5 milioni erano bambini, circa 700mila era rom e sinti, e poi decine di migliaia di omosessuali, oppositori politici soprattutto comunisti, anarchici e socialisti ma anche cattolici, malati di mente o così dichiarati, semplici cittadini dei paesi occupati. E ricordiamo ancora che i bambini finivano con le loro mamme nelle camere a gas per essere poi bruciati nei forni crematori talvolta ancora vivi. Ma non mancano neanche episodi che vedono i bambini più piccoli utilizzati per il “tiro al piccione”.
Se anche per un attimo cerchiamo di immaginare scene di questo tipo, appare giusto ricordare quelle vittime perché non siano sole, almeno nella storia. Senza retorica, ma con tanta partecipazione e comprensione anche in presenza di eventi che appaiono assurdi e razionalmente indecifrabili. Capire è impossibile, ricordare è doveroso, infatti ci ammoniva Primo Levi.
Ma c’è una seconda ragione, se vogliamo più “egoistica”: cercare di capire almeno i meccanismi che possono condurre un uomo o una donna del XX secolo (quello chiamato breve, in realtà fin troppo lungo) ad eseguire crimini così efferati fino a considerare l’altro come un non-essere vivente o meglio non degno di vivere, al punto di utilizzare parti del suo corpo come i capelli (stoffe, pantofole), le ossa (saponi) e la pelle (paralumi). Una sorta di economia infernale.
E tutto questo era conosciuto in particolare dalle forze alleate, ma non si ritenne opportuno intervenire sia perché ad esempio bombardare le linee ferroviarie che portavano ad Auschwitz distraeva l’aviazione da obbiettivi militari, sia perché, ed è ufficiale, negli Stati Uniti non si voleva dare l’idea che si andavano a salvare gli ebrei, sacrificando così i soldati americani, suscitando le ire dei tanti antisemiti che in quel paese contavano elettoralmente abbastanza, e così via.
Non è vero quindi, come per decenni ci hanno detto, che nessuno sapeva! Ma poi sapere, anche diffusamente, serve? Quando oggi, quotidianamente, ascoltiamo le notizie alla radio o guardiamo la televisione, magari mentre siamo a tavola, ammesso che ci colpisca una strage di studenti o di bambini nel terzo mondo, oppure si abbiano i particolari di attentati terroristici, o infine ci venga comunicato che in un paese come la Siria vengono uccisi almeno 100 persone al giorno, cambia qualcosa nella nostra vita? Si interrompe il pranzo o il resoconto della giornata? E i nostri governi, al di là delle dichiarazioni riguardanti l’argomento di moda sui giornali in alcuni giorni, cosa fanno?
L’Europa ha avuto il premio Nobel per la pace perché non fa la guerra da 70 anni. Dopo i 65 milioni di morti della seconda guerra mondiale (per non parlare delle prove fatte con i 20 milioni di morti della prima) forse ci è passata un po’ la voglia! E poi ci pensa il resto del mondo a non perdere l’abitudine.
Sapere quindi non è sufficiente. Ma  sapere almeno ciò che è avvenuto nel passato e capire come è andata a finire può aprire una finestra di comprensione sul presente e aiutarci a difenderci da conseguenze disastrose anche per il futuro immediato.
 Si dice che senza memoria non c’è futuro, dimenticandoci il presente, forse perché questo impegna i comportamenti?

LASSOCIAZIONE DEI DEMOCRATICI DI BUSSERO