domenica 28 dicembre 2014

Lavoro zero Pubblicato il 24 dicembre 2014 · in alfapiù, società G.B. Zorzoli

Lavoro zero

Pubblicato il 24 dicembre 2014 · in alfapiù, società 

G.B. Zorzoli
La rivoluzione digitale ha già comportato la distruzione di milioni di posti di lavoro, ma ce n’est qu’un debut: ad esempio le banche europee hanno digitalizzato fra il 20% e il 40% delle loro procedure, con la piena digitalizzazione ridurranno del 20-25% il numero di impiegati. Nei prossimi vent’anni, quasi metà di chi lavora nelle libere professioni potrebbe essere sostituito da tecnologie digitali. Anche la maggior parte degli analisti che considerano positiva la metamorfosi in corso, ammettono che per un periodo relativamente lungo avremo più distruzione che creazione di posti di lavoro.
«Growth without jobs» è il titolo dell’editoriale della direzione del “New York Times”, pubblicato l’1 agosto 2014. Malgrado l’eccezionale crescita del PIL nel secondo trimestre dell’anno (+4%), «per il quinto mese consecutivo la settimana lavorativa media è rimasta ferma a 33,7 ore. Gli straordinari, che una volta rappresentavano un sostegno sicuro per i lavoratori americani, in luglio è crollato per il secondo mese consecutivo. Nella migliore delle ipotesi, il salario orario medio nell’ultimo anno ha tenuto il passo con l’inflazione… Fra i giovani che riescono a trovare lavoro, molti hanno impieghi part-time o nella fascia retributiva bassa, nei quali non utilizzano le competenze acquisite negli studi o nelle precedenti esperienze professionali».
Concorda il presidente della Federal Reserve Janet Yellen, che il 22 agosto 2014, al summit fra i responsabili delle banchi centrali, ha definito «fragile» il mercato del lavoro americano: eccesso di disoccupati di lunga durata, troppi posti di lavoro part-time imposti da ragioni economiche e non da scelte volontarie. Queste valutazioni sono confermate dall’OCSE: l’indice Gini (se vale zero indica la massima uguaglianza, se vale uno la massima disuguaglianza) negli Stati Uniti è pari a 0,38, contro 0,34 in Italia, 0,30 in Germania, 0,29 in Francia e Olanda. E, sempre negli Stati Uniti, il 10% più ricco della popolazione ha un reddito 5,9 volte quello del 10% più povero (4,3 in Italia, 3,5 in Germania, 3,4 in Francia, 3,3 in Olanda).
Il denaro affluisce infatti sempre di più verso il capitale e sempre meno verso il lavoro, ricreando una polarizzazione sociale, dove al vertice stanno gli happy few del potere reale, soprattutto finanziario. La quota di ricchezza in mano all’1% che sta al vertice, è cresciuta in USA dal 9% degli anni ’70 del secolo scorso all’attuale 22%. Ed è l’1% ai vertici della scala sociale a orientare gli investimenti, quindi lo sviluppo di una società sempre più disarticolata in termini professionali e umani. Secondo la cruda definizione del sociologo David Graeber, i posti di lavoro si dividono ormai in due categorie: i pochi possessori delle competenze richieste dal mercato e l’enorme massa dei bullshit jobs.
Non stiamo dunque assistendo alla fine del lavoro, ma all’abolizione crescente di quelli che richiedono competenze specifiche, sostenute da buona manualità o da una normale capacità intellettuale. Si sta configurando un sistema economico dove, accanto a un numero limitato di creativi altamente qualificati, che nei settori high tech svolgeranno attività a loro volta minacciate da repentina obsolescenza, serviranno sempre di più soltanto persone da impiegare in lavori che non richiedono particolari professionalità. Potendo pescare in una platea molto più vasta di donne e uomini in cerca di occupazione, precarietà e bassa retribuzione saranno le caratteristiche dominanti.

Poiché alla lunga una situazione del genere rischia di far saltare il banco, in assenza di cambiamenti radicali si andrà necessariamente verso l’adozione di strumenti come il reddito di cittadinanza; ovviamente di entità contenuta e condizionato dall’accettazione, quando serve, di lavori occasionali. Cambiamenti radicali hanno però come prerequisito proposte alternative credibili, cioè in grado di fare i conti, concretamente, con la complessità dell’odierno assetto sociale., di cui oggi si avverte drammaticamente l’assenza.

The Opinion Pages | EDITORIAL from NEW YORK TIMES

Growth Without Jobs

In a statement last Wednesday — just hours after the government reported headline-grabbing economic growth of 4 percent in the second quarter — the Federal Reserve said it would continue to stimulate the economy because, despite overall growth, the labor market remained weak. In a speech the same day in Kansas City, Mo., President Obama echoed the Fed. “I’m glad that G.D.P. is growing, and I’m glad that corporate profits are high, and I’m glad that the stock market is booming,” he said, (which it was before profit-taking at week’s end dented its performance). “But what I really want to see is a guy working 9 to 5, and then working some overtime.”
Those cautionary views were validated on Friday, when the employment report for July showed slower job growth, flat earnings, stagnant hours and stubbornly high long-term unemployment. The challenge now, as always, is to translate official concern over the job market into change for the better.
The economy added 209,000 jobs last month, a decent enough figure in and of itself, but a slow start to the third quarter compared with the average monthly gain of 277,000 last quarter. Worse, July’s relatively slow pace of growth may not be sustainable. Many of last month’s job gains were in automobile manufacturing, which could reflect a statistical blip from shorter-than-usual factory shutdowns in July rather than new positions added.
Moreover, the upswing in the auto industry is tied to a surge in high-cost auto loans to uncreditworthy borrowers, an unstable foundation for future growth. In addition, the sectors that generally add the most jobs each month all slowed in July from their pace in June, including bars and restaurants, retail, health care and temporary services. As for the president’s vision of a 40-hour week plus overtime — well, if only. For the fifth straight month, the average workweek for most of the labor force was stuck at 33.7 hours. Factory overtime, once a mainstay in the lives of working-class Americans, dropped in July for the second straight month. Average hourly wages have, at best, kept pace with inflation over the past year. Pay is languishing, but working longer hours is not an option.
In its statement, the Fed said it was basically a tossup whether the economy would speed up or slow down. Faster growth, however, generally requires a healthy real estate market and that requires a healthy job market, especially for younger workers.
But in July, the jobless rate for workers ages 25 to 34 was 6.6 percent, compared with 6.2 percent over all. Among young people who are working, many are in low-wage or part-time jobs, or jobs that otherwise do not make use of their education or experience. So it is not surprising that the sale of new homes plummeted recently at the fastest pace in nearly a year. Sales of existing homes have risen, a positive sign but a questionable trend given the still-ailing job market.

L’invenzione dei lavori inutili di Christian Marazzi

L’invenzione dei lavori inutili

di Christian Marazzi

Il più grande economista del secolo scorso, John Maynard Keynes, in un suo scritto del 1930 prevedeva che entro la fine del secolo lo sviluppo della tecnologia avrebbe permesso la riduzione della settimana lavorativa a sole quindici ore. Keynes basava la sua previsione sulla base della limitatezza dei bisogni materiali.
Non solo questa sua previsione non si è avverata (la crescita dei bisogni si è rivelata inesauribile), ma la tecnologia stessa è stata utilizzata per inventare nuovi modi per farci lavorare tutti sempre di più. Un vero paradosso che viene di solito attribuito al consumismo, responsabile della creazione di un’infinità di nuovi lavori e industrie per soddisfare il desiderio di nuovi giocattoli e i piaceri più diversi.
Eppure, se si guarda all’evoluzione dell’occupazione dell’ultimo secolo si nota che tanto è crollata (come previsto) l’occupazione industriale e agricola come effetto dell’automazione, e tanto, anzi tantissimo sono aumentate le libere professioni, i lavori dirigenziali, d’ufficio, di vendita e di servizio, passando da un terzo degli impieghi complessivi a tre quarti.
I lavori che veramente sono esplosi sono quelli amministrativi, con la creazione di intere nuove industrie come quella dei servizi finanziari o del telemarketing, di settori come quello giuridico-aziendale, dell’amministrazione accademica e sanitaria, delle risorse umane e delle pubbliche relazioni. Ai quali andrebbero aggiunti gli impieghi che forniscono a queste industrie assistenza amministrativa, tecnica o relativa alla sicurezza come pure l’esercito di attività secondarie, dai toelettatori di cani ai fattorini che consegnano pizze a chi lavora tanto tempo in altri settori.
I tagli all’occupazione, i licenziamenti e i pre-pensionamenti il più delle volte riguardano lavori socialmente utili, mentre aumentano le attività amministrative e il tempo di lavoro da dedicare a seminari motivazionali, ad aggiornamenti dei profili
Facebook o a scaricare roba. Per non parlare di un altro paradosso, quello che vede i lavori che veramente giovano ad altre persone, come quello di infermieri, spazzini, badanti o meccanici, pagati una miseria.
È difficile dare una spiegazione economica a questo aumento delle attività amministrative e di controllo di lavori altrui.
Come ricorda l’antropologo David Graeber, nell’economia di mercato “questo è esattamente quel che non dovrebbe succedere”, quello che la concorrenza di mercato dovrebbe correggere. Di fatto, l’ultima cosa che deve fare un’azienda desiderosa di profitti è sborsare soldi a lavoratori di cui non ha davvero bisogno.
Forse la spiegazione c’è, non è economica ma politica e morale: liberare tempo per sé, lavorare meno per lavorare tutti e meglio, è visto con sospetto, come se comportasse la perdita di potere sulla vita degli altri. Meglio quindi inventare lavori inutili, ma utili per piegare tutti all’etica del lavoro.

Christian Marazzi: L’invenzione dei lavori inutili

Christian Marazzi: L’invenzione dei lavori inutili

mercoledì 17 dicembre 2014

Il conflitto redistributivo del capitale scatenato

altro bel contributo dal sito Eddyburg.it:

Il conflitto redistributivo del capitale scatenato

di ALDO CARRA   13 Dicembre 2014
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Uno sciopero generale che contribuisca ad arrestare la politica distruttiva del "capitalismo scatenato", necessaria premessa per la faticosa costruzione di un sistema economico sociale alternativo. Il manifesto, 12 dicembre 2014


Lo scio­pero gene­rale con­tro il Jobs Act e più in gene­rale con­tro la legge di sta­bi­lità, mette in luce la fal­li­men­tare poli­tica eco­no­mica del governo che asse­conda la deriva libe­ri­sta del “capi­ta­li­smo sca­te­nato”, come, una die­cina di anni fa, l’economista inglese Andrew Glynn defi­niva la nuova fase del capi­ta­li­smo. Una rispo­sta allo spo­sta­mento nella distri­bu­zione dei red­diti a favore del lavoro regi­strato negli anni sessanta-settanta.

Da allora ripri­stino della disci­plina macroe­co­no­mica, pri­va­tiz­za­zioni, inco­rag­gia­mento delle forze di mer­cato, foca­liz­za­zione delle imprese sul “valore per l’azionista” sono stati i pila­stri di una feroce con­trof­fen­siva: il con­flitto distri­bu­tivo ha cam­biato segno, e, per l’effetto con­giunto di minore e peg­giore occu­pa­zione e di più bassi salari reali, la quota di red­dito che va al lavoro è costan­te­mente diminuita.

Quell’offensiva del capi­tale, che oggi tocca livelli prima impen­sa­bili in Ita­lia, non si limita a ripor­tare indie­tro le lan­cette della sto­ria per tor­nare alla situa­zione pre­e­si­stente. Se così pro­ce­des­sero i pro­cessi sto­rici tro­ve­rebbe legit­ti­mità la teo­ria del pen­dolo: uno spo­sta­mento dei rap­porti di potere ecces­sivo ad un certo punto si ferma e si met­tono in moto le forze che spin­gono in dire­zione con­tra­ria. Così si potreb­bero leg­gere, in que­sto caso, la rispo­sta del capi­tale di cui abbiamo par­lato e quella che oggi cerca di dare il sin­da­cato anche con lo scio­pero. Ma la situa­zione reale è molto più com­plessa per­ché negli ultimi decenni è cam­biato il mondo ed è cam­biato lo stesso capitalismo.

La glo­ba­liz­za­zione, la con­nessa Ascesa della finanza — titolo que­sto di un bel­lis­simo e pre­veg­gente libro del caro Sil­vano Andriani recen­te­mente scom­parso — e, più di recente, la rivo­lu­zione digi­tale hanno deli­neato un capi­ta­li­smo che ha fatto un enorme salto di qua­lità. In que­sta nuova fase di un capi­ta­li­smo per il quale non tro­viamo ancora una deno­mi­na­zione con­di­visa – oscil­lando dal finan­z­ca­pi­ta­li­smo di Gal­lino al capi­ta­li­smo patri­mo­niale di Piketty – gli ele­menti che emer­gono sono due.

Il primo è costi­tuito dalla glo­ba­liz­za­zione del mer­cato del lavoro che mette in com­pe­ti­zione, in ter­mini di costo, il lavoro delle eco­no­mie svi­lup­pate con quello delle eco­no­mie emer­genti. Gli effetti di que­sta nuova com­pe­ti­zione sono bidi­re­zio­nali: da un lato si spo­sta la pro­du­zione dai paesi ad ele­vato costo del lavoro verso quelli a costo più basso, dall’altro i lavo­ra­tori delle aree più arre­trate emi­grano nelle aree svi­lup­pate per fare i lavori più pesanti ed a con­di­zioni rifiu­tate dai resi­denti. L’effetto di que­sti pro­cessi sul con­flitto distri­bu­tivo è, per i paesi svi­lup­pati, quello di un abbas­sa­mento dei salari e di una ridu­zione dei diritti. Il secondo ele­mento che carat­te­rizza que­sta fase è la rivo­lu­zione digi­tale che ha già inve­stito pesan­te­mente la pro­du­zione mani­fat­tu­riera e che inve­stirà sem­pre di più i set­tori del com­mer­cio e dei ser­vizi, pub­blici e pri­vati, ridu­cendo la quan­tità di lavoro neces­sa­ria e modi­fi­cando pro­fon­da­mente, con­te­nuti e moda­lità della pre­sta­zione lavorativa.

I due ele­menti segna­lati si intrec­ciano tra di loro, e con­tri­bui­scono allo stesso pro­cesso: una sva­lu­ta­zione del lavoro impen­sa­bile fino a pochi anni fa che si mani­fe­sta a livello sovra­na­zio­nale ed agi­sce su un ter­reno senza regole come quello finan­zia­rio nel quale il capi­ta­li­smo sca­te­nato è diven­tato sfug­gente ed inaf­fer­ra­bile. I pro­cessi di cui stiamo par­lando non sono ancora com­piuti, ma in pieno svol­gi­mento e, quindi, le situa­zioni che si vivono nei vari paesi sono dif­fe­ren­ziate secondo le loro sto­rie e secondo le moda­lità con le quali si stanno affron­tando i pro­cessi stessi.

Non è un caso che l’area dei paesi svi­lup­pati si arti­coli in tre gruppi: eco­no­mie che si affac­ciano verso una pos­si­bile nuova fase di cre­scita come gli Usa, eco­no­mie che hanno supe­rato la crisi anche se non hanno ritro­vato il sen­tiero della cre­scita come Ger­ma­nia e Nord Europa, eco­no­mie che rista­gnano ed indie­treg­giano. Que­sto signi­fica che, pur di fronte ad una comune con­trof­fen­siva del capi­tale, non è ine­lut­ta­bile che i paesi più svi­lup­pati subi­scano con­tem­po­ra­nea­mente ridu­zioni del lavoro, ridu­zioni dei diritti ed inde­bo­li­mento e declino delle strut­ture pro­dut­tive. Un mix que­sto che può essere vera­mente esplo­sivo. L’Italia si col­loca nel terzo gruppo ed è sulla soglia di un’esplosione sociale.

Lo scon­tro che la agita oggi, pro­ta­go­ni­sti Cgil, Uil e governo si col­loca in que­sto con­te­sto e la par­tita appare deci­siva per il nostro futuro. Se è vero che siamo in mezzo ad una muta­zione che supera i con­fini nazio­nali è anche vero che le moda­lità scelte dal nostro governo sono di ras­se­gna­zione, al di la delle chiac­chiere su spe­ranze e futuro, ad un ridi­men­sio­na­mento di lavoro, diritti e futuro produttivo.

Aver fatto della subor­di­na­zione alle logi­che con­fin­du­striali e dello scon­tro col sin­da­cato il perno delle poli­ti­che del governo ci sta cac­ciando in un vicolo cieco. In Ita­lia non dob­biamo dimen­ti­care che, a parte alcune isole felici di una parte dell’imprenditoria che ha saputo inve­stire, inno­vare ed espor­tare, le ricette del pas­sato (con­te­ni­mento del costo del lavoro e sva­lu­ta­zioni com­pe­ti­tive), non hanno aiu­tato il capi­ta­li­smo ita­liano a cre­scere pun­tando sull’innovazione, sulla ricerca e sull’aumento della dimen­sione di impresa. Anche per que­sto, quello che abbiamo oggi di fronte è un capi­ta­li­smo indu­striale che sa solo chie­dere più libertà di licen­ziare, meno tasse, pri­va­tiz­za­zioni per fare inve­sti­menti sicuri e grandi opere nelle quali lucrare; un capi­ta­li­smo inca­pace di pro­get­tare una pos­si­bile poli­tica indu­striale di inve­sti­menti, di ricerca, di nuovi rap­porti pro­du­zione – uni­ver­sità — ricerca…

Que­sto capi­ta­li­smo non andrebbe coc­co­lato con un po’ di spic­cioli elar­giti a piog­gia accon­ten­tan­dolo e facendo copia/incolla delle sue ricette, ma sti­mo­lato e sfi­dato a fare un salto di qua­lità. Certo que­sto richie­de­rebbe un governo con una capa­cità pro­get­tuale, con un piano dei tra­sporti e della mobi­lità, con un piano di risa­na­mento ambien­tale e del ter­ri­to­rio, con un piano indu­striale ed una visione dei set­tori del futuro.

Ed invece noi abbiamo di fronte una classe indu­striale ed un governo asso­lu­ta­mente ina­de­guati alle sfide del nostro tempo. E’ in que­sto qua­dro che si col­loca lo scio­pero del 12. Per la com­ples­sità dei pro­blemi di cui abbiamo par­lato, non pos­siamo e non dob­biamo illu­derci che con esso si possa fare il mira­colo di capo­vol­gere que­sta situa­zione. Ma la “poli­tica” di que­sto governo e la sua “non poli­tica” vanno con­tra­state e fer­mate. Fare que­sto sarebbe già tanto ed una buona riu­scita delle mobi­li­ta­zioni di oggi è per que­sto essen­ziale. Impor­tante sarà, però, soprat­tutto il dopo.

Sarà quello che acca­drà nel Pd e quello che acca­drà a sini­stra. Un futuro vicino, ad oggi impre­ve­di­bile, la cui dire­zione più o meno a sini­stra dipen­derà sì dall’esito dello scio­pero, ma soprat­tutto da come sapremo rico­struire un pen­siero di sini­stra volto al futuro più che al pas­sato. Ma que­sto, in tempi di cor­ru­zioni – dege­ne­ra­zione — eva­po­ra­zione dei par­titi — asten­sio­ni­smo dila­gante, è pro­prio un altro capitolo

sabato 13 dicembre 2014

La questione morale è politica

Sul tema di Mafiacapitale e cultura dell'illegalità diffusa Vi invio un bell'articolo pubblicato dal sito Eddyburg.it e da "il manifesto" :
La questione morale è politica
di PIERO BEVILACQUA 13 Dicembre 2014
Il paesaggio di corruttela e intreccio criminale che domina da anni la vita politica e amministrativa di Roma, a essere onesti, non dovrebbe stupirci...>>>
Il paesaggio di corruttela e intreccio criminale che domina da anni la vita politica e amministrativa di Roma, a essere onesti, non dovrebbe stupirci più di tanto. E' sufficiente avere buona memoria delle cronache politico-affaristiche degli ultimi 20 anni per capire una verità elementare: la corruzione, nella vita del nostro paese, non è l'eccezione, ma la norma. Lo dicono, peraltro, le statistiche internazionali. Essa emerge ogni qualvolta la magistratura scoperchia la crosta della legalità formale e mostra il corso reale degli affari. E' sufficiente affondare un po' l'unghia su qualunque superficie e zampilla l'umore purulento.
Costituirebbe tuttavia un errore interpretare il problema grave ed enorme nella sua normalità ricorrendo a categorie morali di interpretazione. Perché, come dovrebbe essere ovvio, la corruzione e la predazione sistematica del bene pubblico, sono un problema eminentemente politico. Possiamo chiederci perché tutti gli scandali esplosi negli ultimi anni vedono coinvolti uomini politici, rappresentati di partiti, eletti nelle amministrazioni locali? Perché nell'affare fraudolento, direttamente o indirettamente, è protagonista o ha comunque un ruolo di rilievo la figura del partito politico? Dovremmo ricordarci che per oltre tre decenni, nella seconda metà del '900, in quasi tutte le democrazie occidentali, i partiti politici sono stati, come diceva Gramsci, gli «organizzatori della volontà collettiva». Essi fornivano coesione sociale, rappresentanza, voce alle masse dentro lo stato. Erano dei grandi collettori d'istanze sociali e per ciò stesso educatori di legalità, insegnavano il valore del conflitto sociale come strumento collettivo di espressione e di emancipazione. La lotta sociale educa gli individui a pensarsi come corpo sociale e a trovare in essa, e non nelle scorciatoie personali, o nelle pratiche truffaldine, la via per far valere le proprie ragioni e i propri diritti. Com'è noto, da tempo, questa realtà ha fatto naufragio.
I partiti di massa sono stati divorati al loro interno dai poteri economico-finanziari. In Italia – ha scritto Luigi Ferrajoli nel II vol. dei suoi Principia juris (Laterza, 2007), un testo ricchissimo di indicazioni riformatrici – la perdita della dimensione di massa dei partiti, deriva anche «dalla crescente separazione dei partiti dalle loro basi sociali: per la loro progressiva integrazione nelle istituzioni pubbliche fino a confondersi con esse e a svuotarle e a spodestarle; per la loro trasformazione da associazioni diffuse sul territorio e radicate nella società in vaghi e generici partiti d'opinione, per la loro perdita di progettualità politica e di capacità di coinvolgimento ideale e di aggregazione sociale; per la loro sordità, il loro disinteresse e talora la loro ostilità ai movimenti sociali e alle sollecitazioni esterne». Si comprende, dunque, perché sono sempre di meno i cittadini che credono di poter far valere i propri diritti (lavoro, studio, casa, salute) attraverso le vie legali della pressione sulle proprie rappresentanze politiche: la diserzione crescente dall'esercizio del voto lo prova a sufficienza. Mentre aumenta il numero di chi cerca soluzioni informali e private ai propri crescenti problemi. Questa è da tempo la realtà di gran parte del Mezzogiorno, ma ormai costituisce l'humus ideale su cui prospera e si estende, in tutta Italia, un clientelismo di nuovo tipo, talora con propaggini criminali più o meno ampie.
Si potrebbe obiettare che nelle altre grandi democrazie al declino dei partiti di massa non ha corrisposto un pari tracollo delle strutture della legalità. L'obiezione, fondata, rinvia a specificità di lungo periodo della nostra storia nazionale, che qui non si possono neppure sfiorare. Ma si possono fornire spiegazioni sufficienti pur rimanendo nell'ambito della storia recente. Ebbene, come possiamo separare il quadro di devastazione civile e morale di Roma, offertoci dalla inchiesta giudiziaria in corso, da quanto è accaduto in Italia negli ultimi 20 anni? Come si possono separare i nomi di Carminati e Buzzi dalla cultura del sopruso e della illegalità profusa a piene mani per oltre vent'anni dal potere politico e di governo di Silvio Berlusconi? L'Italia, unico paese in Occidente, è stata lacerata da un conflitto di interessi senza precedenti e senza paragoni con altri stati civili del mondo. L'esecutivo della Repubblica è stato ripetutamente messo al servizio dei problemi giudiziari del presidente del Consiglio e degli interessi delle sue aziende, il parlamento è stato ripetutamente umiliato, gli interessi personali e quelli pubblici resi indistinguibili. E messaggi di impunità sono stati lanciati per anni agli imprenditori, con l'abolizione del reato di falso in bilancio, l'esortazione e la pratica dell'evasione fiscale, agli speculatori edilizi con i condoni e la libertà di saccheggiare il territorio, agli evasori fiscali con condoni benevoli per il rientro dei loro capitali. Quale altro incitamento alla frode dovevano ricevere gli italiani, addirittura dai vertici del potere politico, per perdere ogni fede – già scarsa per antica debolezza di disciplinamento civile – nelle regole comuni della nazione? Quale altro lasciapassare dovevano ricevere i gruppi affaristici e criminali per intraprendere le loro pratiche, in cooperazione con gli elementi più spregiudicati dei partiti?
Rammentare brevemente questo devastante passato consente di guardare con altri occhi alla reazione di Renzi di fronte ai fatti di Roma. Egli ha detto che è stanco di indignazione e che vuole i fatti. Siamo stanchi anche noi, ma innalzare le pene per chi corrompe e sequestrare i beni di chi delinque, non è sufficiente. E' certo apprezzabile in sé, ma ancora una volta mostra l'abilità del presidente del Consiglio di trasformare qualunque problema in occasione di pubblicità elettorale. La trovata, che placa un po' l'ira delle moltitudini e seda il moralismo dozzinale dei nostri media, nasconde una ben più grave realtà sostanziale. Renzi, emerso alla ribalta come un novatore, capace di riscattare la nazione dai suoi vecchi vizi è in realtà un continuatore.
E' anche lui un uomo della palude. La “rottamazione”, ottima trovata di innovazione propagandistica, gli è servita da strumento per regolare i conti nel suo partito e prenderne il comando. Non certo per innovare le vecchie regole della politica. Gli avversari utili, anche quelli con la fedina penale sporca, anche i corruttori della nazione, non andavano toccati. Forse che Renzi, diventato segretario del PD, ha spinto il partito verso un maggior radicamento sociale e territoriale? Ha portato un'etica nuova, una ventata di democrazia e trasparenza tra dirigenti, militanti, elettori? Una volta al governo ha forse messo mano alla situazione di illegalità in cui vive il paese da oltre 20 anni, con il conflitto di interessi di Berlusconi? Ha ripristinato il reato di falso in bilancio? Al contrario, ha compiuto l'operazione più vecchia e consunta della storia politica italiana: accordarsi con l'avversario. Ha siglato un patto segreto con un criminale, condannato in via definitiva nei tribunali della Repubblica. Ha continuato a tenere contatti con il plurinquisito Denis Verdini, ha messo mano alla struttura della costituzione, pur non essendo egli stato eletto, forzando un Parlamento che è espressione di una legge elettorale dichiarata incostituzionale dalla Corte.
E allora quale messaggio di legalità viene al Paese da tali scelte? Quale incitamento a continuare come prima arriva a tutti i faccendieri d'Italia ? Non dovrebbe essere evidente che Renzi, proprio lui, il grande novatore , a dispetto del suo banale nuovismo parolaio, è l'anello di congiunzione che tiene in vita la “vecchia Italia”, autorizza la conservazione del fondo limaccioso della vita nazionale? Non dovrebbe esser chiaro che la politica incarnata dal presidente del Consiglio si fonda su una immoralità costitutiva e irrimediabile, che guasta lo spirito pubblico Egli infatti non solo rimette in mare aperto l'iceberg dell'illegalità italiana, Berlusconi e i suoi, ma conduce una politica fondata sulla menzogna. Finge una politica popolare continuando di fatto la strategia ispirata dai poteri finanziari internazionali. Quella politica che ha generato la Grande Stagnazione, che continua a distruggere il nostro tessuto industriale, soffoca la vita delle amministrazioni comunali, fa dilagare disoccupazione e povertà in tante aree del paese, mette in un angolo Università e ricerca. Renzi finge opposizione ai vertici di Bruxelles, ma lo fa con le parole, perché, da vecchio esponente del ceto politico, bada prima di ogni cosa alla conservazione del suo personale potere. Non va allo scontro con i forti, picchia chi ha a portata di mano, sindacati e lavoratori, accusandoli di essere vecchi, per renderli docili agli investimenti finanziari. E'allora, quale fiducia può rinascere nei cittadini, quale valore viene ridato a legalità e trasparenza in un paese in cui lo stato, prima ancora dei cittadini, parla il linguaggio della menzogna?

SULLE REGOLE

"Esiste un paese dove trionfano il sotterfugio, la furbizia, la forza, la disonestà sotto l'apparenza delle leggi uguali per tutti, del rispetto per ogni diritto di base? Quello dove coloro i quali si attengono alle leggi formali ( che non é detto siano pochi ) sono scavalcati ogni giorno da chi non le osserva?
Si può concepire un sistema per capovolgere la situazione che non consista nel rovesciamento di quella cultura? E si può pensare che la cultura cambi " per ordine del'autorità", autorità. d'altra parte,  espressione di quella stessa cittadinanza che si promuove violando le legge? La strada non é  forse quella di maturarne una opposta nella propria intimità, e poi proporla agli altri, e mostrare che si può praticare, e dimostrare nello stesso tempo quali sono gli svantaggi che anche ai più furbi, ai più raccomandati, ai più forti e ai più potenti procura la società verticale?
C'é bisogno, per mostrare questi svantaggi, di richiamare la necessità di forme sempre più ghettizzate di difesa del proprio spazio e dei propri beni, la diffusione delle guerre, la progressiva distruzione delle risorse, l'esclusione continua di numeri enormi di persone dal riconoscimento e dall'armonia per il trionfo della divisione e dell'odio?
Certo un'osservanza assoluta di regole giuste non sarà mai universale.
Ognuno di noi é un essere umano, che si porta dietro ogni giorno tutte le sue imperfezioni, e che non potrà mai architettare e praticare forme di convivenza perfetta.
Certo,  il male non può essere estirpato del tutto dalla storia; e la natura umana, la sua finitezza mortale é essa stessa fonte frequente di angoscia e sofferenza. A tutto questo non possono porre rimedio le regole e la loro osservanza.
In questi confini, la scelta consapevole, e la sua applicazione coerente, di tendere al modello sociale basato sul riconoscimento dell'essere umano stabilisce la direzione del percorso e qualifica ogni sua tappa. Più si procede, più si allargano le possibilità di vedere se stessi e ognuno degli altri come soggetti e non come oggetti; di essere liberi e non sottomessi, cittadini e non sudditi. Si tratta di un percorso infinito, nel quale, prima e più della meta, conta il modo di essere sulla strada, la coerenza di ogni gesto e di ogni parola rispetto al risultato finale. E' il percorso, non il traguardo, a riempire la persona del proprio valore e della propria dignità.
Tutti noi siamo sul percorso, dipende da ognuno di noi dove questo ci porterà."

tratto dalle conclusioni del libro di Gherardo Colombo " Sulle regole" Serie Bianca Feltrinelli ( 2008 ) 

Nel pieno della grave crisi che attraversiamo e di fronte a fatti di corruttela e criminalità come quelli che oggi, come ieri, si manifestano nel nostro Paese, credo si debba affermare che senza il rispetto delle regole non si può vivere in società. Ma occorre che le persone, i cittadini, debbono comprendere la ragioni di queste regole.
E' per questo che la discussione sulle regole, e sul modo con cui esse si costruiscono nelle sedi a ciò deputate, non può non coinvolgere anche i modelli di società a cui le regole si ispirano. Modelli verticali, basati sulla gerarchia e sulla competizione. E modelli orizzontali, più rispettosi della persona e orientati al riconoscimento dell'altro da sé. Una strada, quest'ultima, tracciata proprio oltre 60 anni fa dalla Dichiarazione universale dei diritti dell'umanità e dalla Costituzione italiana.
Credo che stiano qui le ragioni e i principi che possono guidarci nella nostra azione quotidiana, facendo la nostra parte sino in fondo e per quello che ne saremo capaci.

Fraterni saluti, Vitaliano Serra

domenica 23 novembre 2014

SEMPRE A PROPOSITO DI JOBS ACT E ASSEMBLEA PD BUSSERO DEL 14.11.2014

Ho riflettuto molto prima di intervenire in questo scambio di mail avviato dall’amico Rinaldi presente all’assemblea del PD sul Jobs Act del 14.11 ed  ho ritenuto opportuno farlo per cercare, se possibile, di fornire una interpretazione meno superficiale alle ragioni che hanno prodotto “l’incidente dialettico” tra Rosati e il senatore Cociancich.

La serata era titolata “Jobs Act: prospettive, valutazioni e futuro”  dopo una breve presentazione di Zullo c’è stata l’introduzione molto articolata di Rosati centrata sul tema, ha fatto seguito l’intervento di Cociancich che  ha invece spaziato sulle cose buone fatte  e quelle contenute nella legge di Stabilità dal Governo, e che ha posto molti argomenti interessanti, ma ha evitato palesemente di  entrare nel merito delle norme oggetto della legge delega sul lavoro appunto denominata Jobs Act, di fatto evitando di fornire risposte alle domande venute fuori dal dibattito e dai contributi degli astanti.

Tutte questioni e domande venute dai contributi degli astanti e a cui si chiedevano risposte o almeno spunti di ulteriore riflessione.

A tutto ciò il nostro senatore ha risposto proponendo e riproponendo un vero e proprio “ atto di fede e di speranza” verso le “ progressive e meravigliose sorti del mercato e degli investimenti privati” che sdoganati definitivamente i lacci e lacciuoli dell’art. 18, la famosa “libertà di licenziare” in forma pressoché assoluta e senza quei noiosi vincoli del reintegro, esclusivamente monetizzando la perdita del posto di lavoro e di unico reddito per chi vive solo del suo lavoro, perfino parlando ( francamente a sproposito di quanto avviene in Polonia, Paese che non ha l’Euro e come si faceva una volta in Italia adotta il trucco della svalutazione della sua moneta nazionale.

      Quando poi Rosati che è consigliere regionale del PD  e Segretario  "IV Commissione - Attività produttive e occupazione Regione Lombardia " e  "V Commissione - Territorio e infrastrutture", oltre che ex. Segretario Generale della Camera del Lavoro Metropolitana milanese, rientrando nel tema  specifico della serata e delle “ prospettive, valutazioni e futuro del Jobs Act” ha cercato di evidenziare per informare gli intervenuti dei LIMITI OGGETTIVI contenuti nel provvedimento di delega del Governo, il senatore Cociancich è sbottato accusando  di “faziosità” e di “falsità” Rosati, di lì la scintilla e l’angusto battibecco tra i due.

Quindi ricapitolando:

1)      il Jobs Act NON ha coperture finanziarie sufficienti a fornire garanzia di reddito a chi non ha lavoro, a chi lo perderà intervallando periodi di lavoro precario a periodi di disoccupazione, e a chi l’ha già perso e non riesce a trovarne un altro, anzi le scarse risorse disponibili ridurranno pesantemente le attuali forme di garanzia  al reddito ai cassintegrati e licenziati in mobilità;
2)      il Jobs Act  nel concreto prevede:
ART. 18 E STATUTO DEI LAVORATORI
1 “previsione per le nuove assunzioni del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all'anzianità di servizio”. Con questa misura – che non sarebbe in via sperimentale ma a regime da subito -il Jobs Act distrugge quel che resta dell’art. 18, già ampiamente manomesso dalla legge Fornero. Oggi l’art. 18 prevede il reintegro del lavoratore licenziato soltanto nel caso di licenziamento discriminatorio e laddove il giudice verifichi che di un licenziamento disciplinare non sussista il fatto (caso assai difficile da dimostrare). Nei licenziamenti economici (soppressione della mansione) e in gran parte di quelli disciplinari al lavoratore già oggi non resta che il risarcimento economico. Il Jobs act vuole eliminare del tutto il reintegro. Con il contratto a tutele crescenti, anche nel caso di assunzione a tempo indeterminato, entro i primi anni potrai essere licenziato in qualsiasi momento con un indennizzo proporzionato all’anzianità di servizio, senza quindi il reintegro. E la tutela del reintegro sembra essere esclusa anche alla fine del periodo, visto che il testo -non a caso -non ne parla in modo esplicito;
2 “individuare e analizzare tutte le forme contrattuali esistenti, anche in funzione di eventuali interventi di semplificazione delle medesime”. Scritto così, non è affatto scontato, come si vuole invece far credere, che il contratto a tutele crescenti sostituisca tutte le altre forme di lavoro precario e a termine. E' già difficile che vengano cancellate quelle di fatto meno utilizzate. Del tutto illusorio pensare che venga abrogato il tempo determinato, il contratto di somministrazione e la para-subordinazione, soltanto per citare quelli di fatto più utilizzati;
3 “revisione della disciplina dei controlli a distanza” (art. 4 dello Statuto). Oggi il controllo dei lavoratori a distanza tramite videocamere o altri sistemi elettronici è vietato. Il Jobs act vuole abolire o comunque indebolire questa norma, sarà così possibile ai datori di lavoro di spiare a distanza i lavoratori, con evidenti ricadute disciplinari;
4 “revisione della disciplina delle mansioni” (art. 13 dello Statuto). Con questa norma si vuole permettere al datore di lavoro di demansionare un lavoratore -con la relativa riduzione di salario -in caso di riorganizzazione, ristrutturazione o conversione aziendale. Ti diranno che se non vuoi perdere il posto di lavoro, devi essere disponibile a ridurre il tuo salario e la tua professionalità;
5 introduzione in via sperimentale del “compenso orario minimo per il lavoro subordinato e le collaborazioni coordinate e continuative”. Questa potrebbe in linea teorica essere una misura positiva, se non fosse che si chiarisce subito che sarà soltanto per quei settori dove non ci sono contratti nazionali e quindi di fatto del tutto scollegato da questi. Anzi, rischia di essere uno strumento per scardinare definitivamente i contratti nazionali;
6 “possibilità di estendere il ricorso a prestazioni di lavoro accessorio” (tramite i voucher, che oggi sono previsti per colf, baby sitter etc) “per le attività lavorative discontinue e occasionali in tutti i settori”, ampliando quindi la possibilità di lavorare senza diritti né pagamento dei contributi.

AMMORTIZZATORI SOCIALI
cassa integrazione:
1 “impossibilità di autorizzare le integrazioni salariali in caso di cessazione di attività aziendale o di un ramo di essa”. Già ora, dopo la riforma Fornero, è molto complicato ottenere la cassa integrazione nei casi in cui l'azienda sia cessata o fallita. Con il Jobs act sarà semplicemente impossibile e a quei lavoratori non resterà che l'indennità di disoccupazione;
2 “semplificazione delle procedure burocratiche, considerando anche la possibilità di introdurre meccanismi standardizzati di concessione”: significa, per esempio, possibilità di superare le procedure obbigatorie di consultazione sindacale quando l'azienda debba far ricorso agli ammortizzatori sociali;
3 “necessità di regolare l’accesso alla cassa integrazione solo a seguito di esaurimento delle possibilità contrattuali di riduzione dell’orario di lavoro”: significa che prima di attivare la cassa integrazione, l'azienda può utilizzare tutte le ferie, i permessi, la banca ore che dovrebbero essere invece a disposizione del lavoratore e della lavoratrice;
4 “revisione dei limiti di durata, rapportati ai singoli lavoratori ed alle ore complessivamente lavorabili in un periodo di tempo prolungato”: significa che la cassa integrazione, così come l'aspi (la nuova indennità di disoccupazione introdotta dalla Fornero), avranno durata variabile, dipendente dall'anzianità di servizio dei singoli lavoratori. Si passa da una logica di tutela collettiva e universale a una tutele sempre più individuale;
5 “riduzione degli oneri contributivi ordinari e rimodulazione degli stessi tra i settori in funzione dell’utilizzo effettivo”: significa che l'indennità sarà diversa -non soltanto a seconda di ogni lavoratore -ma anche per ogni settore, con il rischio che siano penalizzati proprio quei settori che hanno avuto più bisogno di cassa integrazione;
indennità di disoccupazione:
1 “rimodulazione dell'aspi con omogeneizzazione della disciplina ai trattamenti brevi, rapportando la durata alla pregressa storia contributiva del lavoratore”: significa che la aspi sarà diversa per ogni lavoratore a seconda dei contributi versati;
2 “incremento della durata massima per i lavoratori con carriere contributive più rilevanti”: è un prolungamento dell'aspi ma soltanto per quelli che hanno una lunga anzianità di servizio... forse gli esodati!

3 “estensione dell'aspi ai lavoratori con contratto di collaborazione coordinata e continuativa (…) con un periodo almeno biennale di sperimentazione a risorse definite”: significa che la possibilità di estendere l'indennità di disoccupazione ai para-subordinati, tanto propagandata, è in realtà vincolata alle risorse che verranno stanziate, quindi tutta da verificare!
4 “introduzione di massimali in relazione alla contribuzione figurativa”: l'importo dell'aspi varierà a seconda della contribuzione figurativa, quindi sarà minore per quei lavoratori e quelle lavoratrici che hanno periodi più lunghi di ammortizzatori sociali alle spalle. Se non verrà specificato diversamente, questa norma sarà penalizzante anche per i periodi di maternità e congedo parentale, quindi in larga misura per le donne;
5 “eventuale introduzione, dopo la fruizione dell'aspi, di una prestazione, eventualmente priva di copertura figurativa, limitata ai lavoratori, in disoccupazione involontaria, che presentino valori ridotti dell’indicatore della situazione economica equivalente, con previsione di obblighi di partecipazione alle iniziative di attivazione proposte dai servizi competenti”. Non è un reddito minimo di cittadinanza, perchè spetterebbe soltanto a chi ha perso il lavoro e in ogni modo viene chiarito che questa norma verrà sperimentatasoltanto se ci saranno risorse sufficienti;
6 “eliminazione dello stato di disoccupazione come requisito per l’accesso a servizi di carattere assistenziale”;

QUANTO ALLA LEGGE DI STABILITA’  ( di cui il senatore Cociancich  snocciola soloalcuni dati  va  come sotto meglio evidenziato  l’insieme dei provvedimenti più importanti e “pesanti” )

- PERICOLO TASSE LOCALI. Le coperture? Ci sono, ha assicurato il ministro dell'Economia Pier Carlo Padoan. Che però non ha potuto escludere la controindicazione dell'aumento delle tasse regionali («Può darsi»).
- TFR IN BUSTA PAGA? TASSE ORDINARIE. Nessuna riduzione fiscale per il Tfr che verrà liquidato in busta paga. Potrà essere dato mensilmente dal primo gennaio e la richiesta, se fatta, sarà irrevocabile fino al 2018. L'importo sarà assoggettato a tassazione ordinaria.
- La norma si matura nel corso dell'anno e scatterà per le retribuzioni dal primo marzo 2015 al 30 giugno 2018.
- Esclusi dalla possibilità i lavoratori pubblici, i lavoratori domestici e quelli del settore agricolo. Bisogna lavorare da almeno 6 mesi.
- STATALI, BLOCCO DEL CONTRATTO PER TUTTO IL 2015. Il blocco del contratto degli statali viene prorogato per un altro anno, fino al 31 dicembre 2015.
- Rinviato di un anno, fino al 2018, anche il pagamento dell'indennità di vacanza contrattuale e il blocco degli automatismi stipendiali per il personale non contrattualizzato.
- Magistrati, avvocati e procuratori dello Stato, personale militare e delle Forze di polizia e diplomatici sono esclusi dal blocco.
- TASSE SULLE RENDITE DEI FONDI PENSIONE DALL'11 AL 20%. Passa dall'11 al 20% la tassazione sui rendimenti dei fondi pensione «dal periodo d'imposta 2015».
- Sui redditi derivanti dalle rivalutazioni dei fondi per il trattamento di fine rapporto la tassazione passa dall'11 al 17%.
- DAL 2016 POSSONO AUMENTARE IVA E BENZINA. La legge di Stabilità sterilizza, togliendoli, i tagli per 3 miliardi previsti alle agevolazioni fiscali già dal 2015, ma - come sorta di clausola di salvaguardia - prevede che dal 2016 possano aumentare l'Iva e le accise della benzina.
- Coinvolta anche la Pubblica amministrazione se dovesse arrivare l'ok dell'Ue.
- STOP AGLI INCENTIVI PER L'ACQUISTO DI AUTO 'VERDI'. Niente più incentivi nel 2015 per l'acquisto di auto a basse emissioni con la rottamazione di veicoli usati.
- Annullati gli stanziamenti da 45 milioni per il 2015 costituiti in un apposito fondo presso il Mise.

CLAUSOLA TAGLIA SANITÀ. Clausola 'taglia-sanità' se le Regioni non troveranno un accordo per ripartire i 4 miliardi di spending review a loro carico. La prevede la bozza della legge di Stabilità, che precisa che senza intesa, interverrà il governo «considerando anche le risorse destinate al finanziamento corrente del Servizio sanitario nazionale».
A proposito di tagli alla sanità, visto che l’amico Rinaldi ne accenna nella sua domanda iniziale, va detto che a proposito della “obbligatorietà”  di ridurre la spesa pubblica, ciò si rivela ormai un luogo comune, anche se è dimostrato da tanti studi che gli effetti recessivi che ne conseguono sono molto più gravi di quelli derivanti da aumenti delle entrate. Tuttavia tagliare la spesa sanitaria è ancora una scelta poco popolare. Così il governo Renzi con la legge di stabilità per il 2015 si è limitato a levare 4 miliardi alle regioni (art. 35), scaricando su queste ultime la responsabilità di decidere dove tagliare. Che importa poi se la sanità rappresenta più del 70% delle uscite delle regioni, e dunque dovrà essere colpita per forza. Infatti l’art. 39 della stessa legge di stabilità, che pure recepisce le cifre di finanziamento della sanità sulle quali era stato raggiunto l’accordo tra Governo e Regioni il 10 luglio scorso (Patto per la salute 2014-2016), segnala sommessamente che tali cifre potranno essere riviste a seguito dei tagli. In questo modo viene sostanzialmente calpestato un Patto che era stato il frutto di mesi di negoziati intergovernativi, ed era stato raggiunto dopo più di un anno e mezzo dalla scadenza del precedente. Del resto, da parte centrale era stata già inserita nell’accordo, subito dopo l’indicazione dell’importo del finanziamento previsto per la sanità (112,1 miliardi per il 2015 e 115, 4 per il 2016), l’inquietante condizione “salvo ulteriori modifiche che si rendessero necessarie in relazione al conseguimento degli obiettivi di finanza pubblica e a variazioni del quadro macroeconomico”, condizione sufficiente a mettere a repentaglio la principale conquista delle regioni, ovvero l’impostazione per cui, dopo anni di tagli, “I risparmi derivanti dall’applicazione delle misure contenute nel Patto rimangono nella disponibilità delle singole regioni per finalità sanitarie” (decisione peraltro un po’ beffardamente ribadita dalla legge di stabilità).
È stato più volte sottolineato che la spesa sanitaria pubblica in Italia è più bassa di quella degli altri grandi paesi europei: solo durante la crisi la quota ha superato il 7% del PIL, collocandosi al 7,1% nel 2012, contro il 9% della Francia, l’8,6% della Germania, il 7,8% del Regno Unito; anche gli Stati Uniti - un Paese con un sistema sanitario privato costosissimo -, arrivavano all’8%, secondo dati OCSE


La Legge di Stabilità prefigura una manovra da 36 mld, come impieghi aggiuntivi. Le risorse risparmiate, assieme al maggiore deficit, saranno destinate per metà, 18 mld, a minori tasse per imprese e lavoro (Irap e decontribuzione assunzioni per le imprese, copertura 80 euro e sostegno a partite iva per i lavoratori), ed un poco alle famiglie. Viene previsto l’impiego del TFR su base volontaria, sperimentale e da metà 2015, fatto salvo l’impegno delle banche ad anticipare le cifre a fronte di certificati di garanzia dello Stato per 100 milioni. In questo caso si pone un problema costituzionale. Infatti, lo Stato non finanzierà questa misura per i dipendenti pubblici. Per finanziare l’estensione di ammortizzatori sociali sono destinati 1,5 mld, quelli annunciati nel job act. Quasi 7 mld son previsti per coprire spese prevista a legislazione vigente e 3 per eliminare le clausole di salvaguardia del governo Letta. La ricerca, la scuola e la giustizia si dovranno accontentare di poco più di 1 mld di risorse aggiuntive, cosicché si evince che la stabilizzazione dei precari (2,5 mld) avverrà in gran parte con recupero di risorse nella scuola stessa. Interventi per le aree metropolitane, Roma e Milano, e risorse per cofinanziamenti europei sommano 1,35 mld. Il residuo di 3,4 mld è il tesoretto previsto ed accantonato nel caso, presumibile, la Commissione Europea contesti la manovra e richieda almeno di ridurre il rapporto deficit/Pil di circa 0,2 punti percentuali.


La manovra economica sembra più una azzardo che il programma economico di governo. Tutto ciò comporta un rischio. Non solo si effettua una redistribuzione della domanda tra componente pubblica e componenti private, senza assicurare una domanda aggiuntiva, ma più rilevante è che si ha una sostituzione di domanda certa con domanda incerta. Il governo pubblicizza una grande azione di fiducia collettiva su famiglie e soprattutto imprese, perché ora non vi sono più scuse: “consumate ed investite a più non posso, che dal pantano usciremo solo grazie a voi”. Neppure si fa leva sulla domanda estera. Infatti, anche il modello bavarese è in crisi profonda. Tutto si gioca sul terreno della ripresa degli spiriti animali degli imprenditori affrancati da un governo che intende delegiferare su tutto e di più, dallo Sblocca Italia al Jobs Act. Dovrebbero consumare ed investire tutto ciò che hanno risparmiato e guadagnato negli anni della crisi, magari indebitandosi se necessario, banche permettendo. E le imprese dovrebbero assumere flotte di lavoratori con il discount, grazie a contributi sociali zero e licenziamento facile entro i tre anni allo scadere della promozione, garantirà il contratto a tutele progressive previsto dal jobs act.

Il governo è consapevole che la crisi che percorre il paese è profonda, lambendo la depressione. Per essere onesti l’Italia è in depressione dal 2008, gli italiani pure son depressi. Nonostante lo scenario economico accertato da tutti gli istituti internazionali, il governo rimane però fiducioso su alcune misure, e non potrebbe essere diversamente. Il pilastro delle politiche del governo è quello di stimolare gli investimenti. Senza investimenti (è il refrain di Filippo Taddei) il paese non può uscire dalla crisi. Come non essere d’accordo. Ma la domanda è: chi deve fare gli investimenti e perché investire?
Il governo non ha solo sottolineato che la spesa pubblica è inefficiente, sulla qual cosa ci si potrebbe anche lavorare, ma è pure inefficace, quindi più che inutile è dannosa perché drena risorse che il privato userebbe al meglio. Quindi se non si ri-avviano gli investimenti privati non si uscirà dalla crisi. Il punto di arrivo sono gli investimenti privati da stimolare, in quanto quelli pubblici non producono nessun effetto significativo, e se lo producono rischia di essere pure negativo.

Ma gli investimenti privati sono pesantemente condizionati dalle aspettative. Renzi parla di fiducia, che non è proprio un sinonimo, che il governo intende alimentare via riduzione del costo del lavoro, delle tasse e un incremento dei consumi; financo l’ipotesi di utilizzare il TFR rientra in questa logica. Il taglio delle spese e delle tasse produce un effetto limitato? Vero. La carta canta, soprattutto per le tasse, gli effetti espansivi son modesti; un poco più effetti elevati sono quelli per la spesa a dir il vero che è domanda certa, ma in tal caso son negativi, dato i tagli.
Ma non è questo il punto. Se lo scenario di riduzione delle tasse e del costo del lavoro è credibile, l’austerità espansiva assieme alla precarietà espansiva nel tempo darà i suoi frutti. Come interpretare, diversamente, le mirabolanti proiezioni di crescita di lungo periodo della riduzione delle tasse e delle privatizzazioni di partecipate pubbliche? Un bel problema.

Il punto della politica economica del governo, così come della Commissione Europea, è la sfiducia nel ruolo pubblico e più precisamente al pubblico come soggetto istituzionale capace di tenere in tensione la domanda effettiva. Keynes è in soffitta. La sua idea era che lo Stato intervenga per fare cose che il privato non fa, e nella crisi sono molte le cose che il privato non fa, investire ad esempio. Ma per Renzi lo Stato si deve ritirare, anche nella crisi, e lasciar fare al privato.

Nel frattempo sono sprecate risorse pubbliche che potrebbero avere ben altra destinazione, magari favorendo quei piccoli interventi di ripristino ambientale che sarebbero essenziali dato lo stato di salute del nostro territorio. Si potrebbero usare le risorse per industrializzare la ricerca pubblica e privata per aumentare la produttività del capitale investito, cioè intervenire sul punto più debole dell’industria italiana. Poi investire in conoscenza, anche nei luoghi di lavoro perché l’innovazione non è solo tecnologica ma anche organizzativa e riguarda qualità e condizioni di lavoro, flessibilità funzionale che sostiene la produttività. Ma il governo non si cura affatto di ciò; il lavoro è declinato solo in flessibilità di mercato, quella dei rapporti di lavoro “usa e getta”.

Il problema è la filosofia di fondo che guida l’azione del governo. Lo stesso jobs act è lo specchio fedele delle policy governative. Noi creiamo le condizioni per la crescita, voi dateci una mano con gli investimenti. Ma lasciare oggi la soluzione dei problemi ai cosiddetti “capitani coraggiosi” è un azzardo. Avrebbe anche un senso se avessimo un capitalismo dallo “sguardo lungo”, ma l’industria italiana da anni ha dato prova di “sguardo molto corto”.

La fiducia del governo è immensa rispetto al mercato, ma il mercato è purtroppo abitato da troppi capitani coraggiosi ben poco lungimiranti.

Non basta ridurre le tasse ed essere anche certi che queste misure siano adottate. Occorre perseguire l’obiettivo della piena occupazione, e non assumere il lavoro come mero residuo del processo di ristrutturazione per rilanciare l’offerta.

Occorre quindi un tessuto produttivo, forse anche uno civile-morale, capace di affrontare le sfide del XXI secolo e uscire dalla più grave crisi capitalistica senza demolire del tutto quel che di buono è stato costruito in questa parte del mondo nell’ultimo secolo grazie alle battaglie e e lotte democratiche del movimento dei lavoratori e della sinistra organizzata.



23 novembre 2014

Vitaliano Serra

domenica 16 novembre 2014

Considerazioni sul Jobs Act

 Considerazioni a margine della riunione PD di Bussero di ieri sera 14 novembre 2014:
- al di là del finalino un po' fuori dalle righe tra i due relatori, peraltro abbastanza giustificato dalle intemperanze prima di Carlo Lotta verso Leo Tancredi, e poi dello stesso senatore PD Roberto Cociancich, nei confronti di Onorio Rosati, consigliere regionale lombardo del PD, trascinato anch'egli dalla tensione e forse dalla stanchezza dopo una giornata molto piena e faticosa ( manifestazione FIOM/CGIL, Assemblea di solidarietà al SUNIA e al PD  per l'assalto in zona Corvetto );
 penso che:
- la serata é stata nel complesso utile ed interessante, ha fatto comprendere la vera situazione e le vere ragioni della contrapposizione in corso tra le due anime del PD;
- si é ben compreso quale é il problema centrale  irrisolto ( e a mio parere irrisolvibile in un contesto di politica economica liberista qual'é quella perseguita dall'attuale Governo a guida PD ) della proposta di Jobs Act e cioé la assoluta mancanza di risorse finanziarie a copertura del fabbisogno reale che necessiterà nel momento in cui ( cosa sulla quale siamo penso tutti d'accordo ) occorre dare un reddito minimo garantito a tutta quella massa di persone ( giovani precari in particolare ma anche a tutti gli espulsi dal ciclo produttivo, compresi gli esodati, i licenziati e i futuri licenziandi - breve nota : ci vorrebbero almeno 30 miliardi di € annui per coprire davvero tutto il fabbisogno a copertura situazioni precarie fino a crescita avvenuta del PIL  e relativa ripartenza della situazione economica e produttiva - ma qui non ci sono in campo messi dal Governo con la Legge di Stabilità che solo le risorse dell'attuale copertura di CIG 1,5 miliardi annui  + altri 2 miliardi  ( che   sono già esauriti dalla copertura della  CIG in deroga che solo per il 2013 ammonta a 1,7 miliardi di €  );
- inoltre come hanno ben evidenziato i contributi di Vito Caruso, Pietro Di Leo e Giuseppe Novello, qui si parla anche di principi e di democrazia citando a proposito sia la Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Umanità dell'ONU del 1948, la Costituzione Italiana e gli esempi di gran parte dei Paesi a civiltà democratica europea, e i principi non possono essere ritenuti "roba da rottamare", perché a furia di rottamazioni ( di cui si giustifica la necessità adducendo la irragionevole "ragione" che "il mondo é cambiato e quindi dobbiamo cambiare anche il nostro approccio alla realtà " , ovviamente da costoro non viene assolutamente presa in considerazione l'idea che si possa anche mettere un freno ad una idea di mondo puramente dominata dal denaro e dal profitto - fa nulla se poi oggi a dire queste cose sia il Papa in persona -  ripensando ad un diverso approccio alla realtà per frenarne gli eccessi e ad esempio per mettere in discussione gli stessi parametri che impongono scelleratamente una logica legata alla crescita infinita del PIL  ) si rischia di rottamare la Democrazia stessa ( in quanto non consona ad un mondo sempre più veloce, e in cui le lungaggini imposte dalla partecipazione democratica e dall'informazione critica  vengano considerate troppo lunghe e contraddittorie  quindi inefficienti ) , oltre che procedere verso una catastrofe planetaria che lasceremmo, questa si in eredità, ai nostri figli e nipoti.
- quanto agli interventi dei renziani di casa nostra ( a parte Enzo Marino che ha fornito una sua lettura "blairiana" dell'azione di Governo, in cui la sinistra e i suoi principi fondanti si stemperano nella logica di poter "temperare"  il liberismo ( non il capitalismo di cui ce ne sono molte varianti  comprese  quelle di tradizione socialdemocratica ), cosa a mio parere francamente ardua se non proprio impossibile ), gli interventi di Massini e Zerbini ( stendo un velo pietoso sulle elucubrazioni di Valzasina  ), sono stati la semplice e banale espressione di un "atto di fede" nel nuovo " conducator fiorentino ", l'ennesimo uomo della  provvidenza e l'ennesima illusione ottica ( per loro che sono stati "comunisti" nel PCI del  centralismo democratico, e della sudditanza culturale alla "real politik" sovietica, a differenza del sottoscritto che invece non c'era in quel PCI e lo criticava , da sinistra, anche per quegli aspetti degenerativi e regressivi incompatibili per la democrazia ), e politica.

A chi vorrà approfondire e ne avrà la voglia ed il tempo, invio in allegati una serie di documenti  sui temi oggetto della riunione di ieri sera compresi i pdf della Legge di stabilità, e del decreto Legge sul Jobs Act.

Come sempre disponibile a confrontarmi nel merito di tutto ciò. 

Spero di farvi cosa gradita.

Fraterni saluti 
Vitaliano Serra