giovedì 27 settembre 2012

UNA "GRANDE REDISTRIBUZIONE DI REDDITO" PER USCIRE DALLA CRISI

Una «grande redistribuzione» per uscire dalla crisi
di Mario Pianta
( Mario Pianta, docente di Politica economica all'Università di Urbino, fa parte del Centro Linceo Interdisciplinare "Beniamino Segre" dell'Accademia Nazionale dei Lincei. È stato fellow all'European University Institute, alla London School of Economics, all'Université de Paris 1 Panthéon-Sorbonne e alla Columbia University ed è tra i fondatori della campagna "Sbilanciamoci!" sulle alternative di politica economica.)
Ogni ricco ha il reddito di cento poveri.
Non è l'Inghilterra di Dickens, è l'Italia di oggi. Redditi e ricchezza si sono concentrati nelle mani di una persona su dieci. Le altre nove – quasi tutti noi – stanno peggio di dieci anni fa, sono i 'perdenti', divisi in mille modi – tra uomini e donne, tra vecchi e giovani, tra Nord e Sud – ma uniti dal declino.
Com'è potuto succedere? Togliere ai poveri per dare ai ricchi, rendere il lavoro più debole e il capitale più forte è da trent'anni l'orizzonte del liberismo. Da qui ha origine la crisi attuale, in Europa e in Italia. 
In Nove su dieci. Perché stiamo (quasi) tutti peggio di 10 anni fa Mario Pianta traccia il declino di un’economia italiana con sempre meno produzione, lavoro e salari. Spiega l’illusoria ascesa della finanza internazionale – che ha portato al crollo del 2008 – e le ragioni della crisi europea scoppiata intorno al debito pubblico, che non accenna a finire. Mostra come è cambiata la distribuzione del reddito, con profitti e rendite finanziarie che crescono e redditi da lavoro in picchiata.
Ma ci sono anche le politiche che si potrebbero realizzare per cambiare strada: evitare una grande depressione, costruire un benessere sostenibile, avere un’economia più giusta.
Ecco qualche esempio.
Come fare una «grande redistribuzione» 
La quantità e qualità dell’occupazione, e il livello dei salari stabiliscono la parte del reddito nazionale guadagnato dal lavoro. Le altre due quote sono quelle che vanno alle imprese come profitti e alla finanza come interessi e rendite; queste dipendono dalle dimensioni e caratteristiche della ricchezza. Ma tra i redditi guadagnati e quelli che si spendono ci sono [...] tre passaggi: l’effetto dell’inflazione, che trasforma i redditi nominali in redditi reali; l’effetto delle imposte, che trasforma i redditi lordi in redditi netti; l’effetto delle famiglie, in cui si combinano redditi di diversa natura. Nella distribuzione del reddito c’è stata negli ultimi vent’anni una «grande redistribuzione», da nove italiani su dieci, al 10% dei più ricchi.
Questa crescente disuguaglianza è il risultato di cambiamenti nei meccanismi di mercato e rapporti di potere che decidono le tre grandi «fette» – lavoro, profitti e rendite – della «torta» del reddito nazionale; dipende dai diversi effetti dell’inflazione sui diversi tipi di reddito; ma è soprattutto il risultato dell’azione dello Stato attraverso il prelievo fiscale da un lato, i trasferimenti di risorse e la fornitura di servizi pubblici dall’altro. Nella maggior parte dei paesi europei l’azione pubblica ha un grande ruolo nel ridurre le disuguaglianze che emergono dal mercato e il dibattito sulla redistribuzione è già cominciato; in Francia il responsabile economico del Partito socialista e un dirigente sindacale hanno scritto un libro dal titolo Bisogna far pagare i ricchi (Drezet e Hoang Ngoc, 2010).
Che cosa può fare la politica in Italia per evitare una deriva che rende più ricchi pochi ricchi e rende più poveri tutti gli altri italiani?
Limitare gli eccessi nel divario tra le remunerazioni Si può pensare a limitare gli eccessi nel divario tra i superstipendi di manager (e personaggi dello spettacolo) e quelli dei lavoratori; si potrebbe individuare l’obiettivo che il rapporto tra il dipendente più pagato e quello meno pagato di un’impresa o di un’amministrazione pubblica sia di 25 a 1. Tale rapporto dovrebbe essere vincolante per le istituzioni pubbliche. Per le imprese private, potrebbero essere introdotte misure che favoriscano scelte coerenti con una tale convergenza dei redditi; ad esempio, le imprese che superino tale rapporto potrebbero essere escluse dall’accesso ad agevolazioni fiscali, incentivi o appalti pubblici. Tale proposta è di particolare attualità negli Stati Uniti, dove il Presidente guadagna circa 25 volte lo stipendio del lavoratore del governo federale peggio pagato; anche il «guru» aziendale Peter Drucker ha suggerito che un rapporto di 25 a 1 tra i redditi più alti e più bassi assicura un equilibrato sistema di incentivi e una maggior efficienza produttiva.
Cambiare la struttura dell’imposizione fiscale 
In Italia la tassazione pesa in modo del tutto anomalo sul lavoro dipendente. [...] Le entrate fiscali dovrebbero venire molto di più dalla ricchezza [...], dal lavoro autonomo, e da tasse ambientali. Queste ultime comprendono la tassazione sulle emissioni inquinanti (anidride carbonica e altri gas serra), sull’uso di risorse non rinnovabili e sulle risorse naturali pubbliche (acqua, ecc.) e possono essere introdotte con varie modalità (carbon tax, aliquote Iva differenziate, maggiori oneri per l’uso di risorse pubbliche). È stato stimato che, a regime, le tasse ambientali potrebbero generare entrate di 50 miliardi di euro l’anno.
Tassare la ricchezza 
[...] Secondo l’Istat, la ricchezza finanziaria netta delle famiglie italiane è la più alta d’Europa. Ed è anche molto concentrata. La proprietà immobiliare è più distribuita, con la diffusione della proprietà della casa di abitazione, ma anche qui esistono grandi patrimoni che sono stati gonfiati dal boom dei valori immobiliari degli ultimi dieci anni.
La tassazione sui redditi dai patrimoni finanziari è sempre stata tra le più basse in Europa ed è stata innalzata solo negli ultimi mesi. La tassazione sugli immobili è stata drasticamente ridotta con l’abolizione dell’Ici sulla prima casa da parte del governo Berlusconi, ripristinata ora in nuove forme dal governo Monti.
Le possibilità più concrete riguardano l’introduzione di un’imposizione regolare sui patrimoni che sostituisca l’inefficace imposizione sui redditi che ne derivano. Da molti anni questa proposta viene avanzata dalla campagna Sbilanciamoci! che, nel suo Rapporto 2012, propone una tassa del 5 per mille su tutti i patrimoni superiori a 500 mila euro, da cui potrebbero essere ricavati oltre 10 miliardi di euro. La stessa aliquota per un’imposta patrimoniale annuale è stata proposta da Guido Tabellini, rettore della Bocconi, in contrasto con le proposte di una patrimoniale «una tantum» destinata a ridurre il debito. Nell’estate 2011 Confindustria ha annunciato, tra i «cinque punti» del suo programma, la proposta di una tassa dell’1,5 per mille sui patrimoni che dovrebbe sostituire il gettito di imposte sul reddito e Irap sulle imprese.
Il consenso per una tassazione dei patrimoni sembra così molto ampio, e tuttavia la manovra di Mario Monti che ha reintrodotto la tassazione degli immobili non ha previsto nulla sulla ricchezza finanziaria. Pur tenendo conto della complessità dei problemi e della ricerca delle modalità più efficaci, un intervento che introduca la tassazione regolare dei patrimoni è essenziale sia per affrontare l’emergenza dei conti pubblici italiani, sia per alleggerire il carico fiscale del lavoro dipendente e iniziare a ridurre le disuguaglianze.
Un’altra strada che è stata proposta è la tassazione «una tantum» dei patrimoni per arrivare a una drastica riduzione del debito pubblico. La proposta del banchiere Pietro Modiano è di tassare i patrimoni del 20% più ricco degli italiani, che dispongono di un valore imponibile (case escluse) di 2200 miliardi circa; se si escludono anche i titoli di Stato e si applicasse un’aliquota del 10%, le entrate sarebbero di circa 200 miliardi e il rapporto debito pubblico/Pil si avvicinerebbe al 100%. Gli effetti positivi di questa riduzione del debito sugli interessi pagati con la spesa pubblica potrebbero essere vicini ai 30 miliardi di euro.
Reintrodurre l’imposta di successione 
L’ossessione di tutelare i privilegi ha fatto sì che nel decennio passato l’imposta che da sempre colpisce la trasmissione di ricchezza agli eredi sia stata attenuata dai governi Prodi e cancellata dai governi Berlusconi. Ora la chiedono gli stessi miliardari – negli Stati Uniti perfino con inserzioni a pagamento sui maggiori quotidiani – sulla base del principio che i loro figli devono essere capaci di arricchirsi, non spendere semplicemente le eredità ricevute. Anche da un punto di vista «liberale», l’imposta di successione rappresenta un meccanismo importante di redistribuzione che contribuisce a ridurre le disuguaglianze di opportunità. In un paese come l’Italia, con mobilità sociale assai più bassa degli altri, un ritorno dell’imposta di successione – con aliquote più elevate che in passato – sarebbe un elemento di equità che contribuirebbe a nuove fonti di entrate per lo Stato, da utilizzare anche per alleggerire l’imposizione fiscale sul lavoro dipendente.
Ridurre l’evasione fiscale 
È un problema «storico» dei comportamenti di imprese, professionisti, lavoratori autonomi e della politica italiana. È stato aggravato negli anni dei governi Berlusconi da una successione di condoni di ogni tipo – su irregolarità fiscali, abusi edilizi, ecc. – e da riduzioni dei vincoli e dei controlli. Sono moltissime le analisi (Santoro, L'evasione fiscale, 2010) e le proposte per intervenire sui diversi fronti rilevanti: l’emersione delle attività economiche, i vincoli ai pagamenti in contanti, i controlli incrociati tra dichiarazioni dei redditi e consumi opulenti, le valutazioni di redditi presunti su cui basare la tassazione, ecc. Su questi temi è necessaria una strategia d’insieme che riduca gli spazi e la tolleranza per l’evasione e che porti a risultati significativi in termini di entrate fiscali. In questo modo sarebbe possibile ridurre il carico fiscale sui lavoratori dipendenti e si potrebbe riequilibrare la distribuzione del reddito.
Progressività, tasse di scopo, imposte indirette differenziate 
In materia fiscale sono possibili infine una serie di altri interventi correttivi complementari alle politiche sopra delineate. I criteri di equità e la riduzione delle disuguaglianze richiedono un ritorno a una più forte progressività dell’imposizione. L’idea che chi più ha più deve contribuire alle attività pubbliche, con aliquote fiscali crescenti all’aumentare del reddito, è da sempre al centro dei sistemi fiscali «liberali», ma si è largamente perduta negli ultimi decenni, con la riduzione del numero di aliquote e della tassazione sui più ricchi. La giustificazione abitualmente offerta è che, vista l’elevata evasione da parte di professionisti e lavoratori autonomi, il numero di contribuenti con alti redditi da lavoro dipendente – manager, dirigenti, ecc. – è limitato, e aliquote più alte non fornirebbero un gettito significativo. Al di là delle dimensioni del gettito, tuttavia, la progressività è una questione di principio che va riaffermata. Inoltre, in una prospettiva di alleggerimento dell’imposizione sui redditi da lavoro, è necessario che gli sgravi si concentrino esclusivamente sulle fasce di reddito più basse, ripristinando significativi differenziali di imposizione.
Un secondo strumento fiscale che si può considerare è l’introduzione di tasse di scopo, cioè di imposte – a livello nazionale o locale – che colpiscono attività particolari da scoraggiare, il cui gettito viene vincolato al finanziamento di attività pubbliche connesse che migliorano il benessere collettivo.
Un analogo strumento per incoraggiare alcune attività economiche e scoraggiarne altre è la modifica delle aliquote Iva e altri strumenti di imposizione indiretta. Nella prospettiva di favorire lo sviluppo di un’«economia verde», di attività ad alto contenuto di conoscenza, di servizi per la salute e il benessere, può essere opportuno differenziare l’imposizione indiretta tra beni e attività che fanno parte dei problemi da superare e quelli che, dall’altro lato, rappresentano soluzioni da sostenere.
L’elenco delle misure possibili potrebbe essere ancora lungo e sono naturalmente necessarie valutazioni approfondite degli effetti economici, sociali e redistributivi che le proposte qui avanzate possono avere. Tuttavia, di fronte ai problemi italiani – il declino economico, l’aggravarsi del divario tra ricchi e poveri, l’emergenza del debito pubblico – soltanto una «grande redistribuzione» può trovare le risposte (e le risorse) adeguate. Va colpito in primo luogo lo stock di ricchezza accumulata negli ultimi vent’anni, che non ha sostenuto gli investimenti e lo sviluppo del paese, e va riorganizzato il sistema fiscale in modo da colpire meno il lavoro dipendente e di più profitti e rendite, spostando l’imposizione sulle attività che hanno effetti negativi sull’ambiente.
Una strategia di questo tipo potrebbe trasformare le entrate pubbliche con effetti concreti sui redditi dei cittadini. Una valutazione indicativa è che ogni anno circa 30 miliardi di euro potrebbero essere ricavati dalle misure qui proposte; nell’ipotesi di mantenere invariato il gettito fiscale complessivo, queste risorse potrebbero essere utilizzate per ridurre le imposte dirette sui lavoratori dipendenti con redditi medio-bassi, che versano allo Stato ogni anno circa 150 miliardi di euro. Questi otterrebbero una riduzione media di circa il 20% delle imposte pagate, con un significativo aumento dei redditi disponibili; gli effetti sulla domanda, sulla riduzione della povertà e del disagio sociale sarebbero immediati e la ripresa dell’economia alimenterebbe nuove entrate fiscali che aumenterebbero i margini di manovra delle politiche. A essere colpito sarebbe soprattutto il 10% degli italiani più ricchi. A beneficiarne direttamente sarebbero quasi tutti gli altri. E la ripresa dell’economia farebbe poi bene anche ai più ricchi.
Naturalmente, la realizzazione della «grande redistribuzione» dev’essere attenta alle situazioni specifiche delle persone e dei gruppi sociali: giovani che non lavorano né studiano, giovani lavoratori precari, donne, immigrati, lavoratori messi fuori dal mercato del lavoro, anziani con pensioni minime, soggetti svantaggiati, residenti nel Mezzogiorno, ecc. La distribuzione delle risorse deve andare ai salari di chi lavora, ai redditi di chi il lavoro l’ha perso o non lo trova, alle situazioni di povertà. Ricordiamoci che due terzi delle famiglie italiane (quattro quinti al Sud) dichiaravano all’Istat che nel 2007 (prima della crisi) non erano riuscite a risparmiare nulla del proprio reddito e un terzo delle famiglie (quasi la metà al Sud) dichiarava all’Istat di non riuscire ad affrontare una spesa imprevista di 700 euro (Istat, 2010).
La politica, anche quella fiscale, potrebbe insomma ritrovare un ruolo che sembrava perduto, con i governi schiacciati dal «pensiero unico» liberista sul ritiro dello Stato, la riduzione delle imposte e il lasciar fare ai mercati. Ma, per far funzionare l’azione pubblica in questa direzione, è necessario che molti,  tra quei «nove su dieci» degli italiani, decidano di «riprendersi» la politica.

mercoledì 26 settembre 2012

QUESTIONI DI METODO: SULLE PRIMARIE

     
 Le primarie sono uno degli strumenti della partecipazione democratica, ma da sole non possono essere considerate la panacea dei tanti mali di cui soffre la politica, questo strumento è la conseguenza  della chiusura e dell’autoreferenzialità delle classi dirigenti, all’incapacità dei partiti di essere presenti nella società e di rappresentarne la sintesi  della società civile nelle sue varie articolazioni.
Ora, l’idea che un partito si fondi su una procedura e non su delle idee, una storia, un legame con una parte della popolazione, è piuttosto triste e il fatto che venga sostenuta da così tanti esponenti la dice lunga su quanto la cultura politica del nostro tempo sia decaduta.
E’ proprio perchè i partiti non sono in grado di selezionare la propria classe dirigente che essi devono indire una sorta di lotteria pubblica per scegliere i propri candidati. E’ proprio perchè i partiti non sono in grado di sviluppare al suo interno un soddisfacente dibattito ideologico e/o di mantenere un dialogo con gli intellettuali e il mondo della cultura, che deve ridursi ad essere struttura organizzativa, oggetto di scalata da parte di chi (in genere) ammanta per l’occasione di una patina ideal-pubblicitaria determinatissimi interessi.
E’ proprio perchè il partito non riesce a essere luogo di partecipazione, che si improvvisa organizzatore di “eventi” che possono essere venduti come grandi occasioni di democrazia.
E’ per questo che le primarie sono, da parte del partito, un’ammissione di impotenza. Certo, in quanto tali segnalano carenze reali e problemi gravi, ma proprio per questo non si può pensare che siano la soluzione.
La soluzione sarebbe che il partito ritornasse a fare il partito, che sviluppasse di nuovo un’organizzazione degna di questo nome, una presenza capillare nel territorio non soltanto in funzione del candidato sindaco o parlamentare di turno, che coinvolgesse nuovamente gli intellettuali, che ricostituisse delle strutture di formazione dei quadri. Certo questo dovrebbe essere accompagnato da un’opera di rinnovamento ideologico e di adeguamento delle forme di partecipazione ai tempi mutati. Ma richiederebbe ancora prima un’inversione radicale del clima di sfiducia nei confronti della politica che abbiamo vissuto negli ultimi vent’anni.
La politica e la partecipazione non sono cose che si fanno andando a happening colorati un giorno ogni tre anni. La politica è una cosa difficile. Se non si può lasciarla in mano ai “tecnici” e ai “professionisti della politica” da un lato e neppure alle  folle indistinte ( e interclassiste )  plaudenti o urlanti dei vari populismi dall’altro, bisogna riscoprire quella figura intermedia che era espressione dello sforzo concreto della persona comune di essere un cittadino consapevole, di partecipare realmente alla democrazia: la figura del militante, cutile non soltanto per friggere le salsicce agli eventi ( le vecchie feste hanno perso la loro connotazione di popolarità attiva per divenire appunto eventi di polarità passiva ).

Ciò premesso per venire sul punto concreto penso che anzitutto  si dovrebbe pensare alle elezioni quelle vere tra sei sette mesi, e non tanto  ai candidati, ma ai contenuti e ai programmi che essi propongono di portare al voto.  Siamo appena in tempo per costruire un programma che fermi la depressione italiana, crei nuovo lavoro, rilanci l’intervento pubblico, difenda il welfare e inizi una grande redistribuzione, tassando la ricchezza finanziaria e immobiliare invece del lavoro. Siamo appena in tempo per cambiare rotta. Di questo si dovrebbe parlare, ben più che di età delle persone che si candidano.
Inoltre queste primarie devono essere di coalizione e non del singolo partito, ancorché maggioritario. Quindi bisognerebbe che prima si determinasse quale coalizione, composta da quali forze politiche, quali movimenti e quali candidati che dovrebbero altresì proporre quale idea di società viene proposta per il prossimo futuro, quale linea economica, quale lavoro, su come uscire dalla crisi, quale progetto di welfare ( se c’è ancora un progetto ) quali proposte sull’ambiente, sull’uso del territorio, sulla legalità e la giustizia, sul pubblico e sul privato, sui temi etici e dei diritti civili e sociali.
Non di meno occorre che chi si candida a guidare il Paese si ponga nei confronti della coalizione con uno spirito profondamente unitario, che sappia avere  la capacità di coagulare consenso intorno a un progetto e di governarne gli esiti. Tale caratteristica  è molto meno legata al carisma personale di quanto non si creda comunemente. E’ piuttosto, in larga parte, il risultato di un esercizio quotidiano di ascolto delle diverse posizioni, di mediazione tra legittimi interessi, di paziente limatura degli inevitabili contrasti. La propensione allo scontro frontale e alla delegittimazione di chi incarna percorsi differenti dal proprio rischia non solo di rendere eccessivamente complicati eventuali accordi di governo con altre forze politiche nella e della coalizione stessa, ma anche di trasformare le primarie in un redde rationem  tra ipotetici “vecchi” e e ipotetici “nuovi”, tra chi è considerato più o meno a ragione,  burocrate o innovatore. Il che potrebbe compromettere la tenuta del partito e, soprattutto, pregiudicare il risultato elettorale.
Ecco perché ritengo personalmente molto pericoloso e francamente incoerente con l’idea stessa di democrazia responsabile e partecipata ciò che sta avvenendo nel PD.

PIETA' di Lawrence Ferlinghetti

Pietà per la nazione i cui uomini sono pecore
E i cui pastori sono guide cattive
Pietà per la nazione i cui leader sono bugiardi
I cui saggi sono messi a tacere
E i cui fanatici infestano le onde radio
Pietà per la nazione che non alza la propria voce
Tranne che per lodare i conquistatori
e acclamare i violenti come eroi
E che aspira a governare il mondo
Con la forza e la tortura
Pietà per la nazione il cui fiato è denaro
E che dorme il sonno di quelli
con la pancia troppo piena
Pietà per la nazione Oh pietà per gli uomini
Che permettono che i propri diritti vengano erosi
e le proprie libertà spazzate via
Patria mia, lacrime di te
Dolce terra di libertà !

lunedì 24 settembre 2012


KRITON ATHANASULIS
poeta greco (Tripoli, Arcadia, 1917-Atene 1979). Abbandonati gli studi di legge per la poesia, dal 1940 ha pubblicato numerose raccolte, il cui fiore è confluito nel volume Poesie (1966). Sensibile ai problemi civili e sociali, è ben noto in Italia per il Testamento (da Due uomini dentro di me, 1957), austera e commossa meditazione sugli orrori della guerra e sui valori della libertà. Altre raccolte significative: Il mio piccolo universo (1969); Un poeta per la strada e le satire per Leonora (1974); Agathangelo, l'incubo e gli eventi (1974), contro la dittatura dei colonnelli; La questione umana (1977). La sua produzione letteraria comprende inoltre alcuni saggi e un'opera teatrale.

UNA POESIA DI KRITON ATHANASULIS
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Testamento-----------------
Non voglio che tu sia lo zimbello del  mondo.
Ti lascio il sole che lasciò mio padre a me. 
Le stelle  brilleranno uguali, e uguali
t'indurranno le notti a dolce sonno,
il mare t'empirà di sogni. 
Ti lascio il mio sorriso amareggiato:
fanne scialo, ma non tradirmi.
Il mondo è povero oggi.
S'è tanto  insanguinato questo mondo
ed è rimasto povero.
Diventa ricco tu guadagnando l'amore del mondo.
Ti lascio la mia lotta incompiuta
 l'arma con la canna arroventata.
Non l'appendere al muro. Il mondo ne  ha bisogno.
Ti lascio il mio cordoglio. 
Tanta pena vinta nelle  battaglie del mio tempo.
E ricorda.  Quest'ordine ti lascio.
Ricordare vuol dire non morire.
Non dire mai che sono stato indegno,
 che disperazione m'ha portato avanti 
e son rimasto indietro, al di qua della trincea.
Ho gridato, gridato mille e mille volte no,
ma  soffiava un gran vento, e pioggia, e grandine:
hanno sepolto la mia  voce. 
Ti lascio la mia storia vergata con la mano
d'una qualche  speranza.     A te finirla.
Ti lascio i simulacri degli eroi con le
 mani mozzate, ragazzi che non fecero a tempo
ad assumere austera  forma d'uomo,
madri vestite di bruno, fanciulle violentate.
Ti  lascio la memoria di Belsen e di Auschwitz.
Fa
' presto a farti  grande.
Nutri bene il tuo gracile cuore con la carne
della pace del  mondo, ragazzo, ragazzo.
Impara che milioni di fratelli innocenti
svanirono d'un tratto nelle nevi gelate
in una tomba comune e  spregiata.
Si chiamano nemici:   già!  i nemici dell'
'odio.
Ti lascio l' indirizzo della tomba
perché tu vada a leggere l'epigrafe.
Ti  lascio accampamenti
d
'una città con tanti prigionieri:
dicono  sempre sì, ma dentro loro mugghia
l'imprigionato no dell'uomo  libero.
Anch'
'io sono di quelli che dicono, di fuori,
il sì della  necessità, ma nutro, dentro, il no.
Così è stato il mio tempo. Gira l' occhio
dolce al nostro crepuscolo amaro.
Il pane è fatto pietra, l' acqua fango,
la verità un uccello che non canta.
È questo che ti  lascio.  Io conquistai il coraggio
d'essere fiero. Sforzati di  vivere.
Salta il fosso da solo e fatti libero.
Attendo nuove.
È  questo che ti lascio.


DEDICATO AI RAGAZZI E ALLE RAGAZZE DEL GRUPPO APERTO
( e con questo scritto voglio ricordare, in modo particolare, coloro, tra questi ragazzi che volevano cambiare il mondo ed hanno cambiato la realtà in cui viveva noma che oggi che non sono più tra noi, ma restano impressi indelebilmente nella nostra memoria: Stefano Mattavelli, Flavio Pirola, Giuseppe Villa, Raffaele Cariglia )

Sono uno di quei ragazzi  di Bussero che più di 40 anni fa iniziarono insieme un percorso di vita dedicata all’ impegno civile. Bussero era poco più che un borgo, duemila anime, iniziava all’Oratorio e finiva al Circolo. Null’altro, e tanta tanta nebbia. Per chi come me veniva da Milano, una vera sofferenza. Eppure ci trovammo, prima in pochi e via via sempre di più a voler “cambiare la nostra piccola realtà”, ci guidava la tangibile speranza di poter “cambiare il mondo”. Dall’esperienza di fede oratoriana e missionaria avevamo appreso, sull’onda dell’insegnamento di Don Milani , dell’Abbé Pierre, di Maritain, dei preti della Resistenza come Don Mazzolari, e dei molti preti operai e dalle grandi personalità cristiane da Padre Turoldo a Ernesto Balducci, che allora animavano la vitale realtà post-conciliare, quella uscita dal volere del Papa “Buono” Giovanni XXIII°, che il senso vero e concreto dell’essere cristiani stava nello stare sempre dalla parte dei più deboli, dei più poveri, degli ultimi, dei più diseredati. Il salto all’incontro con il comunismo fu “naturale”, anche se ci furono dei passaggi, graduali di elaborazione personale e collettiva. Quel salto fu favorito sia dall’impatto repentino, per molti di noi, col mondo del lavoro. A 16, 17 anni lasciammo in molti la scuola diurna per fare il serale e lavorare in fabbrica, i più da operai, di giorno ( 8 ore e più di lavoro diceva allora il contratto, e poi altre 4 di scuola la sera, e  ancora almeno un'altra ora a studiare……sveglia alle 6 e a nanna all’1 di notte ) per molti di noi questa fu la vita  quotidiana da giovane per 5 o 6 anni, per alcuni poi l’università altri 4 o 5 anni. Si lavorava, si studiava e si faceva impegno sociale. Ma ci si divertiva anche se un po’ “faticosamente”: il cinema qualche volta rigorosamente in bicicletta a Cernusco, oppure  Cassano o Melzo; ma c’era pure un salone all’oratorio dove qualcuno di noi a turno passava la domenica pomeriggio impegnandosi a far funzionare una antiquata macchina cinematografica “ a  carboncini”. Talvolta, non tutti tra noi a dire il vero,  in discoteca, i primi locali per giovani ( Everest, Lunik, Samoa, Castello, Fiorani, …) e più spesso al baretto del “Bertin” dove col juke box e il flipper tra un gelato e un “piciu paciu” si  passavano le domeniche e le feste comandate, dopo la messa del mattino. E fu anche un fiorire di piccoli club per lo più utili ad ascoltare qualche “disco”, e fare qualche “festino” dove scambiare le prime forme di “conoscenza” tra ragazzi e ragazze.

La scuola di quei tempi, era una scuola classista, nel vero senso della parola, i figli di operai prima del ’68 erano “naturalmente orientati”  a fare la formazione professionale che allora si chiamava apprendistato, qualche nozione stantia e via subito in fabbrica……………naturalmente da “apprendisti”, solo dopo qualche anno,  operai comuni.  I figli dei più ricchi  ( professionisti, imprenditori soprattutto, ma anche molti artigiani e commercianti e della “piccola borghesia” ) invece e più spesso avevano il liceo,  dovevano ”naturalmente” divenire la futura classe dirigente del paese. Fu il ’68 a cambiare quella realtà fossilizzata e di “classe”,  dove il cosiddetto ascensore sociale  ai primi piani si fermava quasi sempre. Le prime lotte a scuola, i primi scioperi e manifestazioni le ho fatte, sembra ora impossibile, a 16 anni per ottenere una cosa che mi sembrava banale, ma banale non era, ottenere il laboratorio di officina con i torni e le frese, perché ci pareva, a noi giovanissimi studenti di meccanica, che avremmo dovuto diventare “capo tecnico”, quindi capi o capetti degli operai comuni, fare 5 o 6 anni di scuola e non sapere usare nella pratica , anzi  senza neppure vederli, se non in fotografia sul libro di tecnologia,  un tornio o una fresa. Altro che ideologia, c’era sacrosanto pragmatismo. Per tutta risposta fummo presi a getti d’acqua fredda o malmenati dalla polizia.
E’ in quel contesto pieno di speranza e di presa di coscienza della giustezza delle nostre idee, che maturò anche nella nostra piccola realtà, la voglia di cambiare.
Nacque il Gruppo Aperto, si proprio “aperto” perché si voleva rendere quell’esperienza un processo aperto a tutti coloro che volevano impegnarsi per migliorare il mondo a partire dalla propria realtà indipendentemente dalla loro opzione politica partitica o ideologica. Un fatto davvero  inusuale allora.  E fu subito una valanga di iniziative, l’aiuto agli “emarginati” tra cui molti bambini, che vivevano alla Cascina Gogna, gli “immigrati “di allora bresciani, meridionali, qualche veneto, e poi la lotta anche  legale con l’avvocato delle ACLI,  contro affitti salati e condizioni abitative da quarto mondo, il doposcuola gratuito per i figli dei lavoratori, ma anche il volantinaggio la notte di Natale davanti alla Chiesa per ricordare ai busseresi intenti a pensare al natale consumista che già allora imperversava,  le vittime della guerra in Viet-Nam, oppure l’autoriduzione delle bollette della luce e del gas organizzata per protestare contro gli aumenti antipopolari del governo e che porto centinaia di famiglie busseresi a pagare di meno per alcuni mesi fino all’ottenimento della riduzione, La battaglia storica  per avere una biblioteca e una dotazione di libri adeguata che non fossero la collana di Liala, e  dei luoghi dover potersi riunire in assemblea, leggere un libro, ascoltare della musica, fare teatro, svolgere attività ludiche. Battaglia che vincemmo dopo qualche anno con l’avvento al governo del paese della sinistra unita di PCI e PSI., e che ancora oggi è patrimonio dell’intera comunità. Le domeniche passate a raccogliere o sistemare rottamaglie e mobili vecchi con il nostro amico più adulto, un po’ la nostra guida morale,  Fausto Beretta alla Comunità milanese di Emmaus, e poi il teatro in pochi e senza mezzi, per giungere molti anni dopo, passando da incontri di innegabile qualità nazionale ed  internazionale come la Comuna Baires, o il Teatro del Sole, Quelli di Grock, tutte esperienze che hanno costruito nel tempo l’ossatura culturale degli attuali gruppi teatrali dal Gruppo Teatro a Caravan de Vie. Le prime battaglie organizzate delle donne e per le donne per la dignità, per la salute con l’ottenimento dei consultori familiari, per la liberazione dall’oppressione di una società profondamente maschilista, attraverso anche un loro personale e collettivo percorso di autocoscienza, teso a modificare in senso egualitario anche il tradizionale rapporto tra i sessi. Ma anche le domeniche  passate vicino ai semafori della Martesana  a raccogliere fondi e medicinali o alimentari per le organizzazioni terzomondiste come Africa 70, Mani Tese. Decine e decine di ragazzi e ragazze, che divertendosi, e in grande spirito di unità ed amicizia applicavano nella loro realtà il loro essere “cristiani davvero” perché “comunisti davvero”. Quindi la politica, il comunismo come orizzonte possibile. Alcuni di noi, (io, Valerio, Giuseppe, Giovanni, “il Frana”, “il Facco”), al seguito dell’incontro intellettuale con il gruppo di “eretici” comunisti de “il manifesto”, cacciati dal PCI nel 1971, e soprattutto con le letture della rivista omonima guidata da Magri, Rossanda, Pintor, e molti altri “maestri” del giornalismo italiano che da lì presero strada, fecero da avanguardie e nacque il gruppo de “il manifesto” che poi  esportammo in tutta la Zona Martesana con la nascita di quello che si chiamava “Intergruppi di Zona” un coordinamento teso a socializzare le esperienze di lotta e di impegno sociale che si diffuse per tutta la zona. Poi via via il PdUP fino a poco oltre la metà degli anni ’80. Quindi la diaspora nel PCI, poi PDS, DS e PD per alcuni e per altri, e di più, il Centro per l’Alternativa e ora Sinistra per Bussero, ma anche il sindacato, la CGIL, il SUNIA, oltre al lavoro, la famiglia, i figli, ora i nipoti. In una straordinaria continuità di impegno civile, sociale, politico. Per alcuni anche l’esperienza amministrativa, proficua, unitaria, onesta,  affidabile, da consiglieri comunali, da assessori.
40 anni e tanti ragazzi e ragazze che nel loro piccolo hanno fatto la “rivoluzione”. Una rivoluzione che ha modificato in profondità la cultura e la realtà locale.
La Bussero di oggi, con le sue qualità di realtà vivibile ambientalmente e socialmente solidale, amministrata bene e con onestà da 36 anni , è anche il frutto dell’impegno e della scelta di vita di quei ragazzi che 40 anni fa si riunirono in “Gruppo Aperto” per cambiare il mondo.
A quei ragazzi Bussero deve molto.

                                                                                     Vitaliano Serra


Dedicato a tutte le ragazze e i ragazzi che, anche in tempi e modi diversi,  hanno contribuito a fare, e in molti continuano a fare,  un pezzo di storia del nostro Paese:
Ada Marchesi, Adriana Sabaini, Adriano Frugoni, Adriano Mattavelli, Adriano Porcellini, Ambrogio Calloni, Antonio Mandarino, Aurelio Sardi, Carla Erba, Carlo Barlassina, Carmelina Mandarino, Claudio Barlassina. Enrico Brambillasca, Enrico Galbiati, Enrico Manfredini, Ester De Meis, Ezio Barlassina, Fausto Beretta, Flavia Marchesi, Flavio Pirola, Franca Calledda, Franco Moret, Giglio Barlassina,  Gina Romano, Giovanni Villa. Giulio Omati. Giuseppe Galbiati. Giuseppe Villa. Isabella Dozio/Cavallaro, Leonardo Serra, Maria Bambina Dozio/Cavallaro, Marino Pinti, Mario Serra, Massima Ghiani, Massimo Brambilla, Maurizio Rotta, Nicolina Ferreri. Ornella Ponzellini, Pietro Calloni, Raffaele Cariglia, Rosella Ponzellini, Rosy Spina, Salvatore Spina, Stefano Banfi, Stefano Mattavelli, Tiziano Perego, Valentino Villa, Valerio Marchesi, Vitaliano Serra……..…e occasionalmente molti altri ragazzi e ragazze di Bussero.