venerdì 7 dicembre 2012

DOPO LE PRIMARIE, REINVENTARE LA POLITICA

Promemoria dal sito di SBILANCIAMOCI.it

Dopo le primarie, reinventare la politica

30/11/2012
Promemoria è la rubrica settimanale di Rossana Rossanda, a margine dell’economia, dentro la politica
Le primarie del Pd obbligano a riflettere. Prima di tutto sulla infondatezza del ritornello secondo il quale gli italiani ne avevano abbastanza della politica e dei suoi riti, sommo dei quali sembrano le elezioni. Più di tre milioni di persone sono andati a esprimere un parere su chi doveva essere il candidato sfidante della sinistra, istituzionalmente non più che una raccomandazione, e per un esito non scontato. Lo stesso fenomeno si era verificato in Francia, dove si attendeva un vasto astensionismo alle presidenziali, mentre la partecipazione è stata elevata. Se ai politici si deve rimproverare la scarsa vicinanza alla popolazione, non è che giornalisti ne sentano meglio il polso. La gente è ancora interessata alla politica, se ne emoziona ancora, la premia o la punisce, e alcuni di noi si ostinano a credere che se le si offrissero argomenti e ragionamenti più persuasivi di quelli che le scodellano le tv, sarebbe pronta ad accoglierli.
Secondo oggetto di riflessione sono i risultati: il bacino dell’ex Pci e delle sinistre, dal quale venivano i votanti, si è diviso in tre culture. Culture, non personaggi. Bersani, il più noto, è passato in testa, è prevedibile che vi resterà; ma si trova alla sua sinistra e a destra due personaggi fra loro diversissimi e diversi anche da lui. Certo non pacifici compagni di strada. Il più seguito, il sindaco di Firenze Matteo Renzi, è una versione inedita del populismo di sinistra in veste italica, anzi propriamente toscana; il populismo classico raccoglie e indirizza a destra lembi di popolo lasciati a margine dallo sviluppo, o furiosi per le scelte deludenti della sinistra, gente insomma che ha di che lamentarsi, mentre quello di Renzi è soprattutto un giovanilismo senza troppi interrogativi e senza complessi: spostatevi, vecchi e incapaci, e fateci posto. Non me la sento neanche di rimproverargli l’effetto che il giovanilismo fa a chi si ricorda “Giovinezza giovinezza” da piccolo, perché il fascismo aveva un carico di contenuti che Renzi non ha, salvo forse un certo disprezzo, ai limiti del turpiloquio anch’esso toscano. Per il resto il renzismo non vuol dire nulla, salvo una smania di cambiare il personale politico, resa dubbia dall’essere tutti e inevitabilmente circondati da giovani intelligenti e vecchi scemi o viceversa, praticamente in eguale misura. Il solo movimento generazionale che ha scosso la società è stato il 68.
L’altro sfidante di Bersani, Nichi Vendola, è uscito terzo con il 15 per cento dei voti, prova che una voglia di sinistra coerente c’è. Se quel 15 percento si esprimesse anche su scala nazionale sarebbe non poco. Ma che cosa occorre oggi per essere in grado di contare? Da Rifondazione sono piovuti su Vendola molti fulmini, come se fosse in partenza un traditore; ma bisogna ammettere che il piede messo dentro la porta non garantisce di per sé quel quindici per cento del peso politico che il governatore della Puglia si propone e del quale ha bisogno per reggere.
E questo per due ragioni di fondo, che nelle primarie non sono state troppo esplicitate. La prima è che la linea di Monti è un blocco compatto, non facilmente emendabile neanche sotto aspetti minori; la seconda è che non è chiaro se e quanto, una volta premier, Bersani la vorrebbe emendare. Fra i guai prodotti da Berlusconi è che ha permesso a molti di credere che un governo, liberato dalle sue illegalità e sozzure, sarebbe andato ovviamente a sinistra sul piano politico e su quello economico. Cosa niente affatto vera. Monti era esente da questo ordine di pattume e appunto con lui una destra nuda e cruda è uscita in tutto il suo, diciamo così, splendore. Monti è la versione italiana di Angela Merkel, è più intelligente di Cameron, e il suo progetto non presenta interstizi nei quali infilare un po’ di ammorbidente ovatta. Far rimandare il rimborso del debito o ringoiare l’art.18 non sono modeste varianti, e anche ammesso che Monti, magari da presidente della repubblica, non vi si opponga, il muro che chi le propone si troverà davanti è immediatamente l’Europa.
La schiera dei paesi del nord, quelli per intenderci virtuosi, è quella che comanda. Se a Monti è stata risparmiata la troika, cioè sentirsi le zampe dell’Europa monetaria direttamente addosso, non sarà risparmiata certo a Bersani. Un vero cambiamento d’indirizzo, almeno in senso keynesiano o socialdemocratico sul serio, implicherebbe un’alleanza dei paesi del sud, sorretta da una solida sinistra. Della quale non vedo traccia né in Portogallo, né in Spagna, soltanto l’alternativa di Syriza in Grecia. E in Italia? La domanda può essere espressa anche così: quanto è lontano Bersani dalla filosofia di Monti e della Merkel? Bersani non come persona ma come Pd, come ex Pds, come ex Pci – fin dove è andato nella mutazione subita ormai più di venti anni fa? Una mutazione ideale, prima ancora che politica, l’adesione all’inevitabilità del capitalismo e ormai anche l’incapacità di opporsi almeno alla sua forma liberista. Questo è il problema che Alberto Asor Rosa lascia in penombra. Contro il liberismo si sollevano, ora come ora, soltanto alcuni singoli, vecchi o giovani, un sindacato, i movimenti, le occupazioni, la collera della gente, ma i governi appena insediati smettono di vederli e, se li vedono, gli scagliano addosso polizia e manganelli.
Contro questa Europa sentiamo voci autorevoli, sia dagli Stati Uniti, sia da noi; ma, ahimè, isolate. Siamo lontani da quella lunga marcia all’interno delle istituzioni, fra le quali metto anche la cultura “democratica” dominante, di cui parlava Rudi Dutschke. Ma questo è il punto, già reso evidente dalla china rovinosa delle politiche europee, per il resto tutto da reinventare, e che va molto oltre una mera occupazione elettorale dei palazzi del potere.

giovedì 22 novembre 2012

RIFLESSIONI A MARGINE DI UNA ASSEMBLEA SULLE PRIMARIE DEL CENTROSINISTRA A BUSSERO

L’intervento problematico solo in apparenza fuori luogo di Gianni Marcatili  nella serata del 20/11 e a seguire gli interventi di Carmine e di Enzo mi stimolano a fare alcune considerazioni di merito.

Al di là delle pur legittime posizioni culturali di ciascuno che derivano incontestabilmente dalla propria personale esperienza di vita professionale ed umana, lo scriveva un tal Marx molto tempo fa, ma resta una verità inconfutabile “ non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza”. Quindi non mi meraviglio affatto dell’affermarsi di teorie e idee sulla crisi e sui modi per uscirne che contengono in sé e per sé tale struttura di pensiero. Ho già avuto occasione di affermare in altre occasioni che diverse sono le percezioni della crisi tra chi possiede redditi  tra i 500 e i 1500 € al mese e chi invece ne introita di più e talvolta molti di più. Detto questo che a mio parere non è affatto esiziale, elenco le mie riflessioni al proposito.
Enzo verso la fine del  suo appassionato intervento pone  e si pone due domande:
1)    è sostenibile un sistema di welfare senza crescita demografica ed economica?
2)    possiamo pagarci un sistema universale seppure più costoso senza determinare le condizioni per la crescita?
Ne fa derivare due risposte:
1)    l’unico modo per rispondere a quelle due domande è aumentare il PIL e sostenere un sempre più alto livello di sviluppo e crescita
2)    è impossibile e financo ridicolo  pensare ad un processo alternativo di decrescita.

Ecco sta proprio in queste due domande e due risposte la differenza che corre impetuosa tra le nostre due interpretazioni della crisi e dei modi per uscirne.
E’ da qui che dipende l’antinomia, il contrasto, squisitamente politico e culturale che attanaglia le due sinistre che da anni ormai si sono strutturate come mondi paralleli e solo in parte complementari. Le Primarie del centrosinistra, per la prima volta vere e dirimenti, ne sono la fotografia plasticamente veritiera. Si scontrano quindi due concezioni della politica e della cultura, entrambe si richiamano al costume ed alla storia ( non è quindi in questo caso un problema di moralità o di etica che attiene le persone e non le idee ) della sinistra.

Io alle domande poste da Enzo rispondo ribaltando il senso delle stesse:
1)    è concepibile un’economia capace di una crescita continua?
2)    esistono altre forme di economia che possano fare a meno della crescita senza farci ricadere nella povertà?

Da tempo economisti e scienziati si sono impegnati nel compito di immaginare quali dovrebbero essere le linee portanti di un nuovo modello di sviluppo dell’economia in senso ecologico e, soprattutto, di un nuovo modello ideologico. Crediamo che sia giunto il momento di passare dall’economia della competizione a una nuova economia della cooperazione: la competizione sempre più spinta ha prodotto un’età della crescita che è oramai degenerata in un’età della distruzione. Nuove forme di cooperazione potrebbero, invece, condurci verso un’età di rinnovato benessere.
In concreto, si tratta di promuovere un formidabile progresso tecnologico e una decisa svolta morale per modificare sia l’evoluzione della tecnica sia la psicologia del consumatore il quale dovrebbe acquisire maggiore consapevolezza delle sue azioni e dell’impatto che esse provocano nella società e nell’ambiente naturale. Ciò significa passare dalla quantità alla qualità, da un concetto di “maggiore” a uno di “migliore”, dall’espansione illimitata all’equilibrio dinamico.
Uno degli aspetti fondamentali riguarda la riconversione ecologica dell’economia e implica il cambiamento del modello di sviluppo basato sui combustibili fossili, sull’automobile a benzina e sulle materie plastiche. Un modello che si è affermato da circa duecento anni e che, nonostante innovazioni come l’elettricità, l’informatica e le telecomunicazioni, continua ad essere dominante. ( cfr. Ruffolo-Sylos Labini “Se la crescita non basta più” )
Del resto Romano Prodi uno dei padri nobili delle sinistra moderna e raffinato economista e manager di provata esperienza internazionale, che nemmeno Renzi si sogna di rottamare, e che proprio Enzo nel suo blog pone come suo ispiratore, nella prefazione al bel libro postumo di Edmondo Berselli “L’economia giusta” richiama il fatto incontestabile che “non è possibile costruire il futuro se si continuano a compiere gli errori del passato” e di questo passato l’errore più grave “ è la crescente iniquità nella distribuzione dei redditi, che ha distrutto tutti i precedenti modelli di vita e ha prodotto un mondo industrializzato in cui la divaricazione tra pochi ricchi e potenti e i molti sempre più spettatori progressivamente emarginati”. “La spiegazione di questa involuzione sta nella politica  e nella sottomissione di questa all’economia di mercato e alla finanza, “ in una continuità che si è prolungata ininterrottamente per circa 30 anni e di essa sono responsabili maggiori le dottrine e le decisioni ( ndr. Liberiste ) di Reagan e di Tatcher e la debolezza dell’impianto teorico della sinistra, rimasta succube e vittima del cosiddetto “nuovo laburismo” di Blair , come scrive Berselli “ compromesso dalle menzogne geopolitiche e dalla logica della guerra”.
L'attuale non-discussione sulle riforme in Italia - non solo priva di respiro europeo e le decisioni già adottate sono invece assolutamente in linea con quel pensiero che ha prodotto la crisi e che ora pretende, spesso con le stesse persone che l’hanno guidata fino al suo evidente scoppio.  A partire dalla decisione più sbagliata: la messa al bando, con il pareggio di bilancio in Costituzione, di Keynes e del migliore pensiero economico del '900.
L'unica alternativa alla dissoluzione dell'Europa è schierarsi sull'altro corno del dilemma: dalla parte dei diritti del lavoro e di cittadinanza. Ma questo comporta uno scontro frontale con il potere della finanza, perché nessun progetto di un qualche respiro sarà mai perseguibile in presenza di una bolla finanziaria e del potere di mercati che in poche ore possono cambiare radicalmente il contesto di riferimento e azzerare qualsiasi disegno politico. Non sono certo Monti e i rappresentanti di quelle istituzioni europee e mondiali che si sono rispecchiate nella sua cultura e nel suo cinismo, e meno che mai quella parte di sinistra europea che si è dissolta nella ostinata certezza che alla dittatura dei mercati e alla globalizzazione liberista non c'è alternativa, quelli che possono condurre uno scontro del genere. Eppure le condizioni ci sarebbero: invece che compiacersi di non essere ancora precipitati nella situazione della Grecia, o di avere qualche punto di spread in meno della Spagna - una competizione meschina e infantile su chi fa meglio «i compiti a casa» che il primo a praticare è stato proprio Monti - bisognerebbe imboccare la strada della solidarietà tra i paesi cosiddetti Pigs (o Piigs: Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna; poi Cipro e domani, probabilmente, Francia). L'Italia, più di altri, potrebbe promuovere questo schieramento: è l'unico di questi paesi ad avere un avanzo primario che gli permetterebbe di congelare temporaneamente il proprio debito - per poi passare, eventualmente, a un trattamento selettivo dei propri creditori - senza dover ricorrere al mercato per rifinanziarlo. Anche solo prospettare una misura del genere basterebbe per riportare a più miti consigli i paesi forti, aprendo le porte a una gestione congiunta dei debiti sovrani.
Ma una mossa del genere non avrebbe senso senza un'autentica alternativa nel campo delle politiche economiche. Non si tratta né solo né innanzitutto di recuperare competitività per riposizionarsi nella gara a chi esporta di più; e meno che mai di cercare di farlo riducendo salari e servizi pubblici e aumentando precariato e sfruttamento del lavoro. Gli sprechi che hanno messo alle corde la cosiddetta azienda Italia sono altri, mentre precariato e insicurezza non fanno che incrinare produttività e competitività dell'economia. L'idea di risanare una bilancia dei pagamenti disastrata e di ripagare un debito pubblico insostenibile con le esportazioni non fa i conti con un mondo che non è più quello di cinquant'anni fa. Se una soluzione del genere fosse praticabile, tanto varrebbe ritornare alla lira e alle svalutazioni. Ma quei mercati - compreso il nostro - sono stati ormai occupati da altri players globali e molte delle merci che ne assorbono le esportazioni - e non solo quelle dell'Italia - hanno ben poco avvenire in un mondo alle prese con lo strapotere della finanza e la crescente e non recuperabile crisi ambientale. Il problema, caso mai, non è quello di esportare di più - benvenuto comunque chi riesce a farlo - ma quello di importare di meno.
Cambiare modello con la conversione ecologica, rimettendo a confronti pubblici e a decisioni condivise la determinazione di che cosa, come e dove si produce: produrre beni dal futuro sicuro, perché sono quelli che riportano i processi economici entro i limiti della sostenibilità (e chi prima lo fa avrà anche i tanto agognati vantaggi competitivi: non ultimo dei motivi per cui l'economia italiana continua a perdere terreno); e riterritorializzare, per quanto è possibile, le filiere: dalla produzione al consumo: non con un impraticabile protezionismo, ma coinvolgendo territori e comunità nei processi di riconversione: sia dal lato della produzione per offrire una prospettiva e un mercato sicuro alle aziende in crisi, sia da quello del consumo, promuovendo beni e servizi condivisi, sia da quello del recupero dei beni dismessi o dei loro materiali.
Su queste basi si può ricostruire una nuova idea di Europa e di mondo e anche di competizione qualitativa: non più solo frutto del pensiero visionario di un pugno di uomini reclusi e isolati dalla guerra, bensì frutto di un grande dibattito pubblico, finalmente, di nuovo, politico, che coinvolga migliaia e poi milioni di cittadini italiani ed europei.
Si io credo che farebbe bene a tutti noi aprire un confronto meno superficiale sulle terapie di uscita dalla crisi e di gestione della stessa, partendo da un presupposto a mio parere insopprimibile per una sinistra che voglia essere all’altezza della sua storia migliore e coerente con il suo principio più genuino: l’uguaglianza.  E richiamo qui un punto essenziale della Carta d’Intenti del Centrosinistra che si presenta a contendere alle destre il governo del Paese ( e non a caso l’entourage di Renzi questa Carta non la ritiene sua e la considera  sbagliata, ammettendo che se vince lui di quella non se ne fa nulla e della coalizionie unitaria del Centrosinistra pure ! ):
Per noi parlare di uguaglianza significa guardare la società con gli occhi degli “ultimi” . Di coloro che per vivere faticano il doppio perché sono partiti da più indietro o da più lontano o perché sono persone con disabilità o soltanto meno fortunate.

Saluti fraterni, Vitaliano Serra
( di seguito la mail di Enzo Marino a cui é andata la mia risposta soprascritta)
Carissimo Carmine,
 
Ti ringrazio per le tue considerazioni. Non mi piace però sentirmi "avversario". Proviamo a stare tutti dalla stessa parte...
 
Posso dirti che quanto ho detto ieri nella premessa corrisponde esattamente alla realtà: questo cammino verso le primarie è stato davvero tortuoso.
E sono stato fortemente combattuto tra l'enorme stima per la persona (Bersani) e condivisione di idee/programmi/visione della Sinistra e per l'Italia (Renzi ed Ichino).

Alla fine hanno prevalso i secondi che meglio interpretano l'idea di Sinistra e di Progresso che ho maturato nel corso degli anni.
 
Da questo punto di vista posso orgogliosamente dirti di essere stato Renziano prima di Renzi. Anzi, se posso scegliermi un'appellativo, chiamatemi Obamiano (preferisco).
E tante cose che sento dire da Renzi le avevo scritte nel 2009-2010 (vedi Link. Non aver paura. Non voglio che tu lo legga tutto. ...Ma se riesci dai un occhiata all'indice e sfoglia qualche capitolo)
 
 
Colgo l'occasione e mi fa piacere proporti un paio di considerazioni, senza nessuna presunzione di verità. E' solo il mio punto di vista.
Non debbono convincerti. Spero però che riescano a farti capire perchè dico le cose che dico (magari sbagliando).
 
 
1) Sono convinto che i sistemi economici sono sistemi estremamente complessi, interconnessi, non lineari, imprevedibili ed incontrollabili. 
Nascono dalle interazioni di milioni di agenti (consumatori, produttori, intermediari). L'energia (e le informazioni) necessarie per indirizzarli e controllarli è di gran lunga superiore a quella per regolarli ed incanalarli. Il mercato è come un grande fiume impetuoso. Non lo puoi fermare. Se non fai niente ti travolge. Puoi però arginare ed incanalare l'energia ed il suo limo per fare tante cose buone.
 
Questa per me non è una convinzione politica, bensì ha radici profonde nella mia formazione scientifica.
 
L'ho già scritto altre volte: quando è crollato il muro di Berlino ed ho perso i miei riferimenti culturali li ho ritrovati pian piano (ed a fatica) grazie ad un signore "pacioccone" che in una serie di trasmissioni televisive mi spiegò che in Economia lo Stato deve essere arbitro e non giocatore. E la buona politica deve fare buone regole (di giustizia sociale). Quel signore penso che anche tu lo abbia votato due volte. E sono convinto che anche tu abbia gioito due volte per la sua vittoria.
 
Ho letto di recente un bellissimo libro ("Gardens of democracy" - i giardini della democrazia di Nick Hanauer. Non so se è già uscito in Italia).
Amo la metafora, forse perchè mi piacciono i giardini, sulla quale è fondata il libro. I sistemi socali ed economici sono come giardini ed in quanto tali debbono essere prima immaginati, poi curati e sorvegliati.
Non ci si può sedere e lasciare che la natura faccia il suo corso (il liberismo selvaggio, la deregulation, Milton Friedman, Von Hayek, etc...). Ci ritroveremmo erbacce cattive dapertutto. Non possiamo nemmeno seguire ed indirizzare ogni singola foglia (pianificare l'economia). Dobbiamo delimitare i confini (regole, indirizzi), potare (gli eccessi), estirpare (devianze e soprusi), innaffiare (incentivi), etc... 
 
Sono tante le cose che possiamo fare: stimolare e finanziare la ricerca industriale sui settori tecnologici avanzati, programmare incentivi, etc..(oltre ai vincoli ed alle regole di tutela dei lavoratori, ambiente, consumatori, etc..) Ma se vogliamo sviluppo (anzi ne abbiamo bisogno) dobbiamo incentivare e non reprimere la libera iniziativa. Dobbiamo tutelare le condizioni per l'investimento privato. Dobbiamo stimolarlo. Sono imprese ed innovazione a creare occupazione. 
 
2) Io non credo più nella lotta di classe. Mi dispiace, ma non odio i padroni.
Se la pensi diversamente anche senza essere avversari siamo davvero su due pianeti diversi. Anzi due galassie diverse.
Proprio i Wallenberg che tu citi sono i miei padroni. Sono strapienissimi di soldi ma non me frega niente. Il mio gruppo è solo un pezzo del loro impero. E solo il mio gruppo in Italia ha otto fabbriche (grosse). Mi basta questo. E' una  cosa buona,
Esiste un contrasto di interessi, ovvio. Ma è ben altra cosa. E' potenzialmente (se lo gestiamo bene) un gioco a somma maggiore di zero (vinciamo entrambi, magari chi più, cho meno, ma entrambi) e non un gioco a somma zero (quello che vinci tu, perdo io e viceversa).
 
3) In generale le aziende non sfruttano i lavoratori. Ci sono buone aziende e cattive aziende. Come buoni lavoratori e cattivi lavoratori. Buone persone e cattive persone.
Il mondo non è affatto in bianco e nero. Con i buoni da una parte ed i cattivi dall'altra.
Se ragioniamo in questi termini, forse possiamo trovare nuove soluzioni.
Ti assicuro che assumere un dipendente costa, formarlo costa ancora di più e non è affatto un piacere privarsene.
Come faccio a dirlo ? Beh sicuramente non l'ho letto sui libri. E' la mia vita vissuta.
Gestisco personalmente una linea di business per la mia azienda. Ho 47 persone alle mie dipendenze. E ti assicuro che spendiamo tanto tempo a livello di management a pensare a come far crescere le loro competenze ed in particolare valorizzare i più talentuosi.
Forse sono fortunato. Può essere ....ma visito, tra fornitori e clienti, almeno 4-5 aziende alla settimana, e non sono molto diverse dalla mia.
Poi ci sono quelle che sfruttano, rapinano, imbrogliano.  
Ma cosi come ci sono quelli che evadono il fisco, imbrogliano, inquinano, etc... E che vanno individuati e puniti.
 
Credo nelle aziende sane che vedo e negli imprenditori onesti con cui parlo. Ed è per questo che non mi spaventa la Flex Security. Anzi sono convinto che aiuterà tanti giovani a trovare un posto di lavoro.
Ti dico che dal 7 gennaio avrò una risorsa in più. Per la prima volta sarà una assunzione temporary (con contratto somministrato di un anno - e poi vediamo) a rafforzare la gestione dei tecnici e dei contratti. Laureata, siciliana, 28 anni, bravissima, 110 e lode, con tanta voglia di lavorare . Non puoi immaginare quanto piacerebbe a me (ed al mio capo) assumerla a tempo indeterminato, tenercela ben stretta. Ma di questi tempi, con i vincoli che abbiamo e con l'incertezza che regna, da Zurigo ci hanno assolutamente vietato una assunzione definbitiva. Anzi, tanta grazia che ho avuto l'autorizzazione. E noi facciamo utili....
Queste sono le aziende. Hanno paura di assumere. E fino a quando l'economia tira non hanno alcuna voglia di licenziare. Ma scherziamo ?
 
4) Come ho detto ieri sera: "tutti i conti alla fine debbono tornare". Per me è il primo principio della Economia. Ed alla fine qualcuno paga sempre.
 
Ne dobbiamo tener conto sempre. Quando curiamo il nostro bilancio familiare, quando siamo in azienda e pure quando facciamo politica.
Permettimi due esempi:
Io sono contento per quelli che sono andati in pensione a 50-55 anni e grazie ai progressi della medicina vivranno fino ad 80-85-90. Gli auguro anche 120 anni di vita. E non mi preoccupa di dover lavorare magari fino a 70 anni per pagargliela (non sono invidioso di natura e poi ogni generazione ha le sue sfighe - penso a quelli che si sono fatti la prima o la seconda guerra mondiale). Mi domando: è sostenibile un sistema del genere senza crescita demografica ed economica ?
La medicina costa. Ci permette di curare sempre più malattie. E la ricerca e le cure sono sempre più costose. E' giusto concedere a tutti questi benefici: ricchi e poveri ? Assolutamente SI. Mi domando: ma possiamo pagarci un sistema universale sempre più costoso senza crescita ?
 
Attenzione alle facili ricette, quindi.
Possiamo fare deficit. Ma qualcuno dovrà prima o poi pagarlo.
Se facciamo debito pagheranno i nostri figli.
Se facciamo inflazione pagheranno i più deboli, i più poveri. Quelli che non possono scappare, quelli che non possono portare i soldi all'estero.
Sono convinto che l'unico modo di sostenere un deficit più alto (in valore assoluto) è aumentare il denominatore (PIL). Quindi sviluppo e crescita.
 
5) E' cambiato il mondo. Lo ha cambiato la tecnologia che lo ha rimpicciolito.
Forse può non piacerci. Ma non possiamo tornare indietro.
Quello che era possibile e consentito prima, non ci è più concesso.
Ed in un mondo interconnesso e piccolo non possiamo fare quello che vogliamo.
 
6) In ultimo e, permettimi, questa è l'unica nota cattiva. Quando sento parlare di decrescita felice mi viene un pò da ridere.
Non perchè non sia vero. Il secondo principio della termodinamica lo conosco bene anche io. E' ineluttabile.
Rido invece perchè mi sembra che sia un'osservazione molto ma molto parziale (ed egoistica).
 
Rido perchè davvero non capisco chi debba davvero fermarsi e decrescere. Noi, l'Europa o il mondo ?
Qui da noi in realtà c'è poco sforzo da fare. Stiamo già decrescendo --- da tre-quattro anni. Non c'è molto da gridare.
L'Europa ? Magari si, i tedeschi se lo meritano. Ma dobbiamo essere davvero bravi a convincerli.
Se invece vogliamo fermare il mondo proprio adesso mi sembra onestamente ingiusto. Ci sono 5 Miliardi di persone che hanno cominciato a crescere adesso. E non hanno alcuna voglia di fermarsi.  
 
 
A questo punto mi fermo.
E mi domando solo se è possibile condividere un percorso di progresso in comune.
 
Penso e spero di si.
Ciao (a presto)
Enzo Marino

mercoledì 21 novembre 2012

Se la crescita non basta più. E’ concepibile un’economia capace di una crescita continua?

 Se la crescita non basta più

di Giorgio Ruffolo, Stefano Sylos Labini •11-Nov-12
E’ concepibile un’economia capace di una crescita continua?

Oggi vi è un consenso molto ampio sul fatto che per superare la crisi sia necessario rilanciare la crescita dell’economia. Qualunque critica si possa muovere alla crescita, in nome di qualunque principio, è destinata a suscitare anatemi. La crescita non è una scelta ma una condizione obbligata per la sopravvivenza del sistema capitalistico: venuta meno questa condizione, la sua rapida ripresa è diventata un’invocazione corale.
Ma esistono dei forti dubbi che la crescita possa rappresentare l’unica soluzione dei nostri problemi in quanto un’espansione quantitativa senza limiti così come l’abbiamo conosciuta dalla rivoluzione industriale non appare sostenibile. Ricordiamo che prima dell’attuale crisi l’economia mondiale si sviluppava a un tasso medio che, se estrapolato fino al 2050, l’avrebbe moltiplicata per 15 volte; se prolungato fino alla fine del secolo, di 40 volte. E sappiamo che la crescita comporta un incremento della popolazione, che oggi è pari a circa 6,5 miliardi di persone e nel 2050 dovrebbe toccare i 9 miliardi.
Riproponiamo dunque la domanda: è concepibile un’economia capace di una crescita continua? Per noi la risposta è senza alcun dubbio negativa perché la crescita sta determinando un’imponente distruzione di risorse naturali. Ne deriva che il rilancio della crescita può rappresentare una fase, non uno stato permanente dell’economia, e che agli economisti toccherebbe il compito di rispondere alla domanda: esistono altre forme di economia che possano fare a meno della crescita senza farci ricadere nella povertà? È possibile “una prosperità senza crescita” come si afferma nel titolo di un recente libro di Tim Jackson?
Da tempo economisti e scienziati si sono impegnati nel compito di immaginare quali dovrebbero essere le linee portanti di un nuovo modello di sviluppo dell’economia in senso ecologico e, soprattutto, di un nuovo modello ideologico. Crediamo che sia giunto il momento di passare dall’economia della competizione a una nuova economia della cooperazione: la competizione sempre più spinta ha prodotto un’età della crescita che è oramai degenerata in un’età della distruzione. Nuove forme di cooperazione potrebbero, invece, condurci verso un’età di rinnovato benessere.
In concreto, si tratta di promuovere un formidabile progresso tecnologico e una decisa svolta morale per modificare sia l’evoluzione della tecnica sia la psicologia del consumatore il quale dovrebbe acquisire maggiore consapevolezza delle sue azioni e dell’impatto che esse provocano nella società e nell’ambiente naturale. Ciò significa passare dalla quantità alla qualità, da un concetto di “maggiore” a uno di “migliore”, dall’espansione illimitata all’equilibrio dinamico.
Uno degli aspetti fondamentali riguarda la riconversione ecologica dell’economia e implica il cambiamento del modello di sviluppo basato sui combustibili fossili, sull’automobile a benzina e sulle materie plastiche. Un modello che si è affermato da circa duecento anni e che, nonostante innovazioni come l’elettricità, l’informatica e le telecomunicazioni, continua ad essere dominante.
Un processo di riconversione ecologica dell’economia richiede nuovi indicatori e nuovi strumenti di misura delle performance economiche, sociali e ambientali. Occorre superare il Pil che rappresenta il valore monetario dei beni e servizi scambiati sul mercato. Il prodotto interno lordo si è rivelato molto utile nel misurare la crescita quantitativa, ma ha via via perso di efficacia nelle economie postindustriali dove è cresciuto il peso dei servizi immateriali e delle attività di carattere sociale, dove la qualità del prodotto e la produzione di nuovi prodotti hanno assunto maggiore importanza e dove le tematiche relative all’ambiente sono diventate sempre più centrali nelle scelte di vita di un gran numero di persone. Inoltre, il Pil ignora completamente il fatto che la crescita dell’economia è strettamente associata con il consumo delle risorse che quindi tendono ad esaurirsi. Non solo i combustibili fossili, ma anche le foreste, il suolo coltivabile, i metalli ed altre materie prime. Infine, il Pil non conteggia la produzione di rifiuti, l’inquinamento, le emissioni di anidride carbonica, la disponibilità di acqua dolce, il livello di istruzione. Se tutto ciò venisse incluso nella stima del Pil constateremmo che le nostre società non si stanno più arricchendo ma si sono incamminate lungo un percorso di impoverimento sociale, economico e ambientale.
Per uscire dalla crisi, dunque non basta semplicemente rilanciare la crescita, ma è necessario concepire un nuovo modello di sviluppo ecologico e cooperativo ed elaborare nuovi indicatori che siano in grado di misurare realmente la ricchezza prodotta e le risorse consumate a livello globale.

giovedì 8 novembre 2012

IL GRUPPO APERTO: MEMORIA DI UNA GENERAZIONE NON BANALE ( il '68 a Bussero )


IL GRUPPO APERTO: MEMORIA DI UNA GENERAZIONE NON BANALE ( il '68 a Bussero ) 
Questa rievocazione è dedicata a tutti quei ragazzi e ragazze busseresi che hanno contribuito con il loro entusiasmo, la loro passione, la giovinezza, l’impegno, l’intelligenza a fare di Bussero quel che è oggi, un Paese vivibile, pulito, tranquillo, laborioso,  aperto e solidale, con una storia amministrativa onesta, partecipata in cui la democrazia è profondamente radicata, e con una comunità culturalmente vivace, attiva e tollerante. Il tutto a poca distanza dalla metropoli milanese.
E’ dedicata alla generazione di busseresi che “ha fatto il ‘68” , che ha contribuito a quella grande occasione di trasformazione culturale, politica e sociale e di protagonismo giovanile che ha cambiato il mondo, l’Italia e Bussero. Dopo l’avvento di quella generazione, nel bene e nel male,  con il protagonismo dei giovani nel contesto sociale, nulla è stato più come prima. Cambiò  il costume, la cultura, la scuola, la famiglia, la politica e perfino l’economia. Fu una vera rivoluzione, per lo più pacifica, appassionata, le lotte fino ai primi anni ’70 erano lotte pacifiche, fatte solo con le armi dell’entusiasmo, con gravi perdite e anche morti, per mano di fascisti e polizia, solo più  tardi, la cecità e gli interessi geostrategici, politici ed economici dell’establishment di potere di quel tempo e la miopia di una parte consistente della politica del tempo contribuirono, con le loro scelte reazionarie, con l’uso criminoso delle forze dell’ordine, con lo stragismo, con i servizi deviati, con la corruzione, con la repressione poliziesca spesso contigua agli agguati dei fascisti, unitamente alla vanità personalistica dei molti leaderini emersi dalle lotte operaie e studentesche di allora a fare dell’ingenuità giovanile e della passione civile il terreno, non per una crescita collettiva, ma il pogrom di uno scontro generazionale duro e cruento, fatto di scontri, di insensatezza e di follia, una disfatta generazionale ed umana che in molti casi portò all’estremismo violento e via via alla lotta armata, i cui prodromi però erano pur scritti in una insensata quanto folle appartenenza all’”album di famiglia” dell’ideologia totalitaria.
E’ innegabile che il ’68 per lunghi mesi nasce e si mantiene rigorosamente pacifico e non violento. Basta sfogliare i giornali di quegli anni per verificarlo. Non va mai dimenticato che le prime forme di violenza si manifestano quando comincia la repressione di Stato e le provocazioni neofasciste. Da quel momento si verificano, in alcune situazioni, anche degli eccessi drammatici di autodifesa. E questo appartiene alla responsabilità e alla immaturità degli errori e purtroppo anche  degli orrori dello sviluppo del ’68. E’ importante però ricordare che il primo atto di terrorismo in questo paese viene compiuto dallo Stato, con la strage di Piazza Fontana, del 12 dicembre 1969. Quest’episodio viene visto dal Paese e dai giovani in lotta come il tentativo di ricacciare indietro tutto, scegliendo la strada della repressione violenta e golpista.E’ lo spartiacque che segna l’inizio di una fase completamente diversa, che è la fase della violenza degli anni ’70.  Così come non è senza responsabilità la lunga striscia di morti da Portella delle Ginestre nel 1947 a tutti i morti per mano della celere negli anni ’60.
La repressione che questo movimento ha dovuto subire è stata invece sistematica, con stragi, eccidi, assassinii….. da ricordare solo alcuni esempi iniziali ed eclatanti, il ferimento dello studente Ceccanti davanti alla “Bussola”  di Viareggio, a livello internazionale le Olimpiadi insanguinate di Città del Messico, col massacro di Piazza delle Tre Culture, i vari golpe ( Grecia 1967, Cile 1973, Argentina 76 , ma anche sul fronte opposto filosovietico di Praga 1968 )  e minacce di colpo di Stato in Italia  ( 1964 progetto del Gen. De Lorenzo, e 1970 con il tentativo di golpe del fascista Junio Valerio Borghese ex-comandante della brigata fascista repubblichina di Salò X-Mas )  l’omicidio di Martin Luther King negli USA o, per tornare in Italia, l’eccidio di Avola, in provincia di Siracusa, il 3 dicembre 1968, e poi nel 1974 Piazza della Loggia a Brescia, nel 1975 sul treno Italicus, prime di una lunga e tragica storia di attentati e tentativi di destabilizzare le istituzioni democratiche e repubblicane, e l’uso spregiudicato del  terrorismo rosso e nero per bloccare la impetuosa crescita del movimento di lotta dei lavoratori e delle classi subalterne e la loro crescente presa di coscienza della loro forza,  verso un livello più alto di democrazia e miglioramento delle loro condizioni di vita e di lavoro.
A Bussero, ma non solo,  fummo completamente ed intelligentemente estranei a questa deriva, avemmo sempre ben chiara la rotta da seguire, quella dell’unità con la tradizione culturale e politica della sinistra italiana, fatta di pacifismo, di impegno, di lotta democratica e antifascista. Si lo spirito unitario, pur nell’asprezza della battaglia politica di contestazione di un intero sistema politico, anche verso la grandi forze della sinistra tradizionale, ci univa nel profondo alle lotte dei nostri padri, nella guerra partigiana di liberazione, nelle lotte sindacali per l’emancipazione della classe operaia, nell’impegno per una economia cooperativa e solidale, nel rispetto profondo che comunque avevamo per  le generazioni che ci precedevano, e che avevano costruito, lo sapevamo, le condizioni affinché noi potessimo andare oltre.
Se c’è un’immagine che mi sembra appropriata a questa generazione e a quel periodo è quella di un folto gruppo di giovani, ragazzi e ragazze, che con una scala danno l’assalto al cielo, un cielo che abbiamo in larga parte anche contribuito a conquistare, con la costruzione di una Paese, Bussero, di molto più bello e vivibile di quello che c’era sul finire degli anni ’60.
Nel 2011, tra poco più di un anno, cadrà il quarantesimo anniversario della nascita politica e sociale di quella  generazione di busseresi. La generazione del ’68, quelli del baby boom delle nascite del primo dopoguerra , i nati tra il 1946 e il 1956. A Bussero, che tra il finire degli anni ’60 e l’inizio dei ’70 era un piccolo agglomerato di case, per lo più grigiastre e scarsamente manutenute, che facevano pendant con la nebbia che in quegli anni era fittissima, e che durava molte settimane d’inverno, e che contava suppergiù 1500 anime, si formò un gruppo di ragazzi per lo più frequentanti l’oratorio locale e diede vita ad una delle esperienze politico-sociali, non credo di esagerare, tra le più significative di tutta la Zona Martesana  e fors’anche dell’Est milanese. Nacque il Gruppo Aperto. Ci fu una curiosa ma emblematica discussione sul nome da dare allo stesso, si scelse la proposta di Fausto di chiamarlo “aperto” per sottolineare la eterogeneità dei costituenti, sia in termini di età, sia in termini di approccio ideale e politico di ogni singolo aderente. Le esperienze di provenienza erano appunto diverse, tutti in gran parte vicini all’Oratorio, quindi legati quasi naturalmente all’esperienza cattolica e cristiana, ma molto interessati al fermento che circolava in quegli anni nel corpo pulsante della Chiesa, e dei credenti. Quel fermento proveniva da e aveva preso corpo dall’evento cristiano più importante di quegli anni, il Concilio Vaticano II° e il grande segnale ecumenico che veniva dall’eccezionale pontificato del Papa Buono, Giovanni XXIII°. Era stata una vera rivoluzione culturale e a Bussero quel seme diede frutti tra i giovani. Nel paese non c’era che pochi luoghi di aggregazione e socialità. Oltre all’Oratorio , che aveva al suo interno un salone cinema di non piccole dimensioni,  solo il Circolo Familiare, dei “compagni”, comunisti e socialisti,  che oltre ad essere sede di una osteria era il posto in cui annualmente venivano fatte le feste dell’Unità e dell’Avanti e talvolta in autunno le castagnate, una minuscola biblioteca, che contava per lo più qualche “classico” e molti libri di letteratura “rosa” di Liala. Più nulla. Le scuole erano solo elementari e medie a ridosso dell’edificio municipale posto di fronte alla imponente chiesa. I giovani non avevano altri luoghi od occasioni di aggregarsi oltre a questi, e non c’era alternativa al “baretto” del “Bertin di fronte alla Piazza del Monumento, dove la presenza di un calciobalilla, di un flipper e  di un juke-box riuniva spesso attorno a sé gruppi di ragazzi e qualche ragazza per mangiare un gelato, un piciu-paciu ( sorta di miscuglio di granita e gelato,) o una fetta d’anguria e ascoltare nel frattempo qualche canzone di quell’epoca ( se non ricordo male con 100 lire 2 dischi ). Per il cinema si doveva andare a Cernusco o a Cassano e Melzo, rigorosamente in bicicletta, perché la patente si faceva a 21 anni, così come la maggiore età, e i motorini costavano troppo. E giù a pedalare, andata e ritorno in fila indiana sulla Padana, e spesso con la nebbia che complicava il viaggio. Questo appunto il contesto territoriale. I ragazzi dopo la terza media ( siamo in gran parte, almeno quelli nati dopo il 1950, i primi ad aver frequentato la scuola riformata ed unificata, che aveva finalmente dato un taglio netto con le scuole differenziate per classi sociali, il ginnasio e/o  liceo per i figli di benestanti e l’avviamento professionale per i figli di operai e contadini, quel tipo di scuola fatta per determinare il blocco della mobilità sociale tra le classi ), in gran parte accedevano ai corsi di ragioneria/ geometra o gli istituiti tecnici industriali o commerciali. Molti di essi per ragioni familiari facevano la scuola serale che permetteva loro di aiutare la famiglia economicamente, dopo le normali 8 o 9 ore di lavoro in fabbrica. Ma fu proprio lì a scuola che alcuni di quei ragazzi formarono una personale idea della società in cui vivevano. Lì e in quell’insieme di situazioni di vita in cui erano immersi quotidianamente. La scuola fu senza dubbio il veicolo principale che permise la deflagrazione di bisogni fino ad allora inespressi dalla gioventù, che viveva in  una specie di limbo tenuta ad occuparsi esclusivamente di calcio, di canzonette, di goliardia, e, ma solo i più colti per possibilità familiare, di viaggi vacanza. E dopo il militare, per i maschi, bisognava “mettere la testa a posto” che significava lavorare e far su famiglia, figli e stop.  Il bisogno di essere riconosciuti come persone con una loro identità culturale, il bisogno di luoghi di confronto e discussione, il bisogno di relazionarsi, anche con le ragazze, che in genere erano ancor più tenute fuori da ogni contesto aggregativo e socializzante, che non fosse l’oratorio e non oltre un certo orario. Perfino in chiesa durante la messa uomini e donne, col velo in testa,  erano tenuti separati da una parte e dall’altra. Il bisogno di esprimersi e di contestare una società immersa  in una cappa di ipocrisia che coinvolgeva e impregnava tutte le manifestazioni vitali, i ruoli erano ben distinti e le gerarchie sociali erano date per scontatamente eterne.     “ Di pret e di re di ben o tasé “, questo il motto in voga che permeava tutto.
Poi tutto funzionava sotto una coltre  di compromessi, di immoralità diffusa,  di controsensi, di grettezza anche morale, …………di ipocrisia. Ma covava in quegli anni anche una enorme voglia di liberazione, di ribellarsi a quello stato di cose. Ribellarsi ad un potere che pareva eterno, ad una logica gerarchica della società, della famiglia, del lavoro, della convivenza, che non permetteva la piena realizzazione di sé, rompendo le barriere “ economiche e sociali” che non permettevano la libera circolazione delle idee, e  che erano invece all’interno dei dettami costituzionali, ma che rimanevano lingua e scrittura morta, non realizzata a oltre 20 anni dalla promulgazione della Costituzione Italiana.
Certamente questi concetti non erano ben chiari nelle nostre teste, ma l’impulso che sentivamo dentro era coerente con essi. Era di pochi anni prima la aggregazione spontanea in paese di almeno tre aree o gruppi, il CGB ( Circolo Giovanile Busserese ) con sede all’Oratorio e per lo più formatosi attorno ad un gruppo di giovani tra i 20 e i 25 anni,  più coerenti con l’ispirazione cattolica  tradizionale, che gestivano il Bar Oratorio che dava sulla via Roma, la Tana con ragazzi,  tutti maschi, sui 17 / 19 anni, con l’intento di aggregarsi e organizzare momenti di gioco ( carte o scacchi ) , tornei di calcio e gite in bicicletta,  e la Cantina per via dell’utilizzo di una piano cantinato sottostante la Panetteria di Via Piave attrezzato a mò di mini-discoteca con luci “psichedeliche”come si chiamavano allora, adatta a festini e balli di gruppo. Il resto dei giovani, quelli più adulti, bivaccava nei pochi bar presenti a discutere di calcio e di “donne”. Ma quel bisogno di socializzare e aggregarsi era difficoltoso in una realtà così piccola, e quei gruppi rispondevano a quel bisogno, seppure  però insufficiente a dare profondità a quelle pulsioni.
Chi vi rispondeva  lavorando in una comunità di aiuto ai poveri, come  quella di Emmaus, dell’Abbé Pierre della Comunità di Taizée,  come il Fausto, chi già metteva in atto le proprie capacità organizzative seguendo la piccola sezione delle ACLI come il Valerio,  chi aveva cominciato a partecipare alle lotte studentesche con il Movimento Studentesco milanese, come il sottoscritto e l’indimenticabile Giuseppe , “Frana” per via del suo impetuoso e vulcanico modo di essere. Chi vedeva sorgere le prime battaglie studentesche, chi quelle operaie, visto che la maggior parte di noi aveva un lavoro in fabbrica. Solo alcuni in ufficio. Tra questi ricordo Angelo Beretta, per via della sua carnagione scura veniva talvolta soprannominato “ negher”, ci si vedeva sul “gambadelegn” il pittoresco trenino giallo che portava lavoratori e studenti da Bussero a Milano in Piazza Sire Raul. Si perché altri mezzi di locomozione tra città e campagna non ce n’erano, solo un bus postale che passava da Sesto San Giovanni  ed io prendevo con altri due passeggeri di Bussero, entrambi studenti, da Via Lulli alle 13,30 e dopo un vasto giro giungeva a Bussero da Pessano intorno alle 15.00.  Con Angelo che frequentava, penso, il CGB oratoriano, avevo occasione di discutere di varie cose durante il percorso tra Bussero e Milano o viceversa, se ci si incontrava alla fine della scuola serale, più o meno tra le  22,30 e le 23,00 ora in cui si ritornava a casa dopo una lunga giornata.  E si affrontavano i temi più vari e in particolare delle proprie idealità, ed egli mi parlava di incontri che si tenevano alla Corsia dei Servi in centro Milano con alcuni padri gesuiti che come Bartolomeo Sorge erano usi discutere periodicamente sull’attualità del messaggio cristiano soprattutto alla luce del Concilio e dell’ecumenismo giovanneo, di apertura del cristianesimo alle teorie marxiane in un contesto di grande, e reciproca, contaminazione culturale. Anche in occasione di incontri  settimanali che l’allora  coadiutore del Parroco, Don Validio , organizzava, per affrontare tematiche esistenziali, quali, l’Amicizia, l’Amore, i Sentimenti,  seppure con la necessaria titubanza pastorale, capitava di discutere ed affrontare i temi della coerenza tra il dire e il fare del cristiano. Fu facile quindi in quel contesto e in un contesto più ampio che vedeva i giovani divenire sempre più protagonisti della propria esistenza, a scuola, in fabbrica, in famiglia e nella società, accendere la passione dell’impegno sociale e politico in questi ragazzi.
Coerenza fu la parola chiave. E colpimmo duramente chi di questa coerenza si faceva beffe, o era troppo imbrigliato in atteggiamenti e battaglie che ritenevamo poco efficaci, ai fini dell’effettivo miglioramento della vita dei più poveri, dei più diseredati, dei più emarginati,  tanto più in ambito cristiano, ma anche in ambito politico, ad esempio nella politica locale, i democristiani da una parte e i social-comunisti dall’altra.
La gestazione del Gruppo Aperto durò qualche anno, dal 1969 al 1971, grosso modo. Fu un atto spontaneo di aggregazione che vedeva unirsi due aree  d’interesse, quella più “sociale” legata al volontariato cattolico e quella più “politica” legata a coloro, ed io tra questi, la cui esperienza nelle lette studentesche era più presente.
Obiettivo del Gruppo Aperto era aggregare i giovani busseresi sulla base di interessi comuni, ma che avrebbero dovuto e voluto permettere di continuare per ciascuno le proprie attività nelle varie associazioni  o movimenti  di cui erano parte, più o meno da protagonisti. Era anche quella di rompere il silenzio con cui  la politica, anche quella amministrativa locale, soprattutto di parte democristiana avvolgeva le sue scelte amministrative, che, già in quel periodo, con le elezioni amministrative del 1970, avevano visto prevalere nella DC locale personaggi più o meno legati ad ambienti affaristici, soprattutto in campo immobiliare. Anche se una parte della DC meno legata alle problematiche affaristiche ed incarnata in primis dal suo Segretario Agnelli ci propose perfino di iscriverci al suo partito per contribuirai innovarlo e forse anche renderlo meno vulnerabile alle sirene degli affari.
Tra le prime iniziative organizzate vi fu la rendicontazione, presenziando, per la prima volta in forma organizzata, delle riunioni del Consiglio Comunale, la partecipazione alle assemblee pubbliche, e la discussione interna, appassionata e partecipata da molti giovani, alle problematiche amministrative, cui seguiva il volantinaggio a tutte le famiglie di tale rendicontazione, seguita dall’opinione collettiva che ci eravamo fatti.
Cominciammo a vedere con i nostri occhi, che diventavano gli occhi di una specie di “opinione pubblica” locale, le ipocrisie, le bassezze, le storture, le vanità personalistiche, ed anche le difficoltà dell’amministrare la cosa pubblica.
Poi il salto verso l’organizzazione di iniziative di sostegno alle situazioni famigliari meno abbienti, con l’apertura di un Doposcuola gratuito per i figli di operai e impiegati, dove venivano socializzato anche lo scambio di libri e attività didattiche, la presenza alle iniziative della scuola, perfino le prime battagli culturali con alcuni insegnanti considerati troppo tradizionalisti, conservatori, che vedevano ancora nella scuola lo strumento della selezione di classe più che quello di emancipazione delle classi subalterne.
Quindi l’avvio dell’esperienza di recupero e sostegno alle famiglie abitanti la fatiscente struttura della Cascina Gogna, di proprietà di un ricco latifondista locale che affittava a costi esagerati tali locali ad alcune famiglie “immigrate” d’allora, meridionali, bresciani e qualche veneto. L’esperienza fu decisiva e temprò la nostra volontà di coerenza tra i nostri principi enunciati e le nostre vite di tutti i giorni.
Difficile l’impatto, sia per le molte provocazioni del proprietario che non voleva che la nostra presenza organizzasse i suoi inquilini, sia perché e soprattutto per la realtà che trovammo. Emarginazione, miseria, ma anche tanta umanità. Tanti bambini di età diverse, cui demmo sostegno scolastico, ricreativo, ludico, perfino in alcuni casi sanitaria ( molti bambini soffrivano a causa dell’umidità di malattie polmonari, ed erano pieni di pidocchi), strutturammo un locale per i giochi e per le riunioni, la domenica e durante tutto l’arco della settimana la nostra presenza era assidua, organizzata. Organizzammo con le famiglie una battaglia per avere contratti d’affitto equi, perché pagassero il giusto, denunciammo legalmente il proprietario per il suo comportamento e per la non applicazione della legge di Equo Canone, che  non era ancora stata approvata e che vedeva migliaia e migliaia di famiglie costrette a vivere ai margini della città in  tuguri e baracche, e che fu poi approvata a seguito di forti lotte di inquilini e lavoratori e sindacati per la riforma della casa, qualche anno più tardi. La battaglia legale la vincemmo con le famiglie stesse, aiutati dalle ACLI e dal Sindacato facendo in modo che le stesse non pagassero quegli affitti da rapina se paragonati ai redditi e ottenendo per l’assegnazione di alloggi popolari.
L’impegno di alcuni divenne in molti casi l’impegno di molti, l’esperienza di Emmaus con la gestione presso una grossa cascina alle porte di Milano, zona Ortica, con la raccolta di rottamaglie, mobili vecchi, vetro, vestiti, che venivano risistemati e riparati e rivenduti nei mercatini dell’usato per raccogliere fondi per progetti in Africa o nel Terzo Mondo, sotto la guida illuminata dell’Abbé Pierre. Emmaus inoltre rappresentava la possibilità di recuperare ragazzi caduti nella malavita a causa delle loro condizioni sociali, e vi fu una collaborazione con ragazzi che erano stati in galera al Beccaria perché minorenni.
Battaglie sociali come l’autoriduzione delle bollette ENEL che in quel tempo erano state aumentate di molto per decreto governativo, incidendo parecchio sui salari dei lavoratori, si unirono all’ organizzazione di iniziative di sostegno finanziario ai popoli soggetti a guerre di liberazione coloniale o a guerre imperialiste come quella del Viet-Nam.
Iniziative determinanti furono fatte dal Gruppo affinché si costruisse un luogo di aggregazione e socializzazione per i giovani del Paese, lungamente ci si batté impegnandosi nel volontariato, con la gestione di prestiti librari, facendo aumentare di molto gli investimenti in acquisto libri, ma anche organizzando attività di spettacolo, sia diretto con la costituzione di gruppi di teatro locali, sia con l’organizzazione di momenti di cultura teatrale o musicale nell’unico luogo che allora era possibile utilizzare, la vecchia palestrona scolastica di via Piave. Da queste molteplici attività nasceranno più tardi il Gruppo Teatro Bussero, Caravan de Vie, il Maggio Teatrale Busserese, che hanno fatto scuola anche in altre realtà, valorizzando il protagonismo culturale giovanile locale, e poi i cineforum i gruppi d’interesse ( acquariofili, pittori e tanti altri ) e la ristrutturazione della Curt di Boss che divento l’attuale Biblioteca Comunale di Via Gotifredo, una tra le biblioteche più attive e partecipate.
Per qualche tempo le iniziative sociali del Gruppo Aperto vivevano di vita propria, come quella dell’organizzazione di uscite pubbliche per la notte di Natale, con volantinaggi esprimenti solidarietà con le genti affamate e il richiamo  alla coerenza dei cattolici, e la formale solidarietà all’addetto dell’ATM presso la Stazione della MM2 che allora era distante e isolata dal nucleo abitato, portandogli, panettone e spumante per festeggiare insieme, mentre l’organizzazione più politica del gruppo, soprattutto di una parte di questi, come io, Valerio, Giuseppe Galbiati, Giuseppe Villa, Giovanni suo fratello e Stefano Banfi. Si partecipava più di altri alle manifestazioni che a quel tempo quasi settimanalmente venivano organizzate a Milano, si cominciava a discutere di politica, cambiamento sociale, lotte di studenti e di operai, di internazionalismo, di sindacato, si organizzava una rete di gruppi che via via si formavano negli altri Paesi della Zona, si partecipava alle occasioni antifasciste della zona, come a Pessano, a Cassano d’Adda, si faceva ampio uso della controinformazione tramite volantinaggi, pubblicazioni periodiche e affissione di dazebao, di comunicati di lotta e di sostegno alle stesse, si cominciava a partecipare alle iniziative sindacali da parte di ciascuno di noi lavorasse in fabbrica,le donne, formarono attraverso i gruppi di autocoscienza le basi per la creazione del Collettivo Donne, per fare battaglie  per la liberazione della donna, dalla oppressiva cultura bempensante, che le voleva vedere solo come  “angeli del focolare”, sempre e comunque subordinate ad una società ( famiglia, scuola e lavoro ) dominata dai maschi e dal maschilismo.   Fino alla nascita del Gruppo de “ il manifesto” che nacque in forma organizzata proprio in quell’anno dopo la radiazione del gruppo di deputati dal PCI accusati di “frazionismo” in realtà perché portatori di una linea alternativa all’allora gruppo dirigente comunista molto legato ancora all’URSS nonostante la recente invasione di truppe sovietiche e del Patto di Varsavia, in Cekoslovacchia, con l’uccisione in culla dell’ipotesi dubcekiana di “socialismo dal volto umano”. Una premonizione che 20 anni dopo avrebbe portato inesorabilmente al crollo del sistema sovietico.
Ma da allora fu tutta un’altra storia, fatta per alcuni di scelte diverse ed individuali, mentre per molti di impegno politico a tutto tondo e di esperienze amministrative significative che cambiarono il volto  e la cultura di questo Paese.  Creando le condizioni in una proficua collaborazione con i compagni storici del PCI e del PSI locali di una cittadina civicamente, culturalmente e urbanisticamente vivibile, per anni e anni esempio di buona politica amministrativa.
Vitaliano Serra