giovedì 25 giugno 2015

REPORTAGE DI “INTERNAZIONALE” I migranti faranno a pezzi le nostre bugie

REPORTAGE di “INTERNAZIONALE”
I migranti faranno a pezzi le nostre bugie
·                      25GIU 2015
 
Questo è l’articolo scritto da un bianco sulla storia di due ragazzi neri e con ogni probabilità sarà letto quasi esclusivamente da bianchi: racconta l’inizio della fine di questo genere di articoli e comincia a Palermo nel 2012.
Il filo della matassa parte dal Senegal, passa dal Gambia, arriva a Pittsburgh, tira dentro John Fante Martin Scorsese mia zia Sarina, e finisce in Padania per massimo scorno di leghisti e cattivisti e nuovi asini nazionalisti. Però bisogna cominciare da Palermo.
È luglio, ci sono trenta gradi e la città si squaglia e risolidifica in una nuova realtà fatta per l’ottanta per cento di umidità e per il venti per cento di canicola: molti, per comodità, definiscono questa realtà “estate siciliana”. Nell’estate siciliana succede che molte cose rallentino o si fermino del tutto, gli uffici vanno deserti. Chi ha bisogno deve arrangiarsi come può, ed è per arrangiare una soluzione che il comune telefona alla scuola di lingua italiana per stranieri dell’ateneo.
Il problema è che mentre anche i centri di accoglienza per migranti rallentano le loro attività, gli sbarchi non diminuiscono: 13.267 persone sono arrivate in Italia quell’anno, 8.488 sulle coste siciliane. Tra loro ci sono molti adolescenti. La professoressa Mari D’Agostino dice a Laura Purpura, dirigente dell’ufficio che si occupa della loro situazione, che un modo per non abbandonarli all’afa palermitana potrebbe essere quello di farli partecipare ai corsi estivi della scuola.
“Potete immaginare che cosa significhi avere avuto nella stessa classe una ragazza norvegese a Palermo per l’Erasmus e un diciassettenne senegalese, e cercare di insegnare a entrambi l’italiano”, racconta D’Agostino. “I percorsi che segue una persona che sta studiando per una laurea e una che non è quasi mai andata a scuola sono radicalmente diversi”.
Un buco nero enorme è la Libia, ci finiscono violenze e abomini, denuncia Save the children
Da quell’estate del 2012 a oggi, senza che per i loro progetti sia stato speso un euro, D’Agostino e il suo gruppo di lavoro si sono rimessi a studiare, hanno costruito programmi nuovi per i nuovi ragazzi che si sono trovati tra i banchi e alla fine, come raccontano nel libro Dai barconi all’università, sono riusciti a insegnare l’italiano a trecento di loro. Minori stranieri non accompagnati, come sono definiti con un’etichetta che costruisce una realtà. Tra loro, oltre all’inizio della fine di articoli come quello che state leggendo, c’è anche l’esplosione di queste etichette e la messa in discussione di una retorica a cui siamo abituati. Le storie di Ibrahima e Bakari aiutano a visualizzarla meglio.
Me le raccontano a casa della professoressa D’Agostino, dietro il teatro Massimo di Palermo. Con noi c’è uno dei suoi collaboratori, Marcello Amoruso, e a me viene da pensare che siamo in commissariato. Non per la scena, ma per la struttura della scena: tre borghesi occidentali, bianchi, appartenenti a due istituzioni, l’università e l’informazione, di fronte a due ragazzi neri, africani, che non hanno niente, se non le loro storie. In base a queste storie sono giudicati dalle istituzioni, e sulla base di questo giudizio possono trasformarsi da rifugiati in clandestini. Perciò all’inizio misurano sguardi e frasi, e c’è bisogno di ripetere molte volte che il loro racconto non sarà pesato sulla bilancia della legge infame che regola l’immigrazione in Italia.
Bevono una coccola, si interrompono spesso, guardano la professoressa e Marcello, cercano rassicurazioni nei loro occhi, parlano.
Ibrahima è nato in Senegal e da piccolo aiuta il padre nel negozio di famiglia. Vendono stoffe e cuciono vestiti, le giornate sono semplici. Finché la madre non si ammala e il padre la porta in Gambia, dov’è nata e dove può curarsi meglio. A Ibrahima tocca occuparsi del negozio.
“Sono solo e a notte sento rumori dal negozio. Qualcuno veni per rubare la macchina da cucire. So, io sono fight. Questo è coltello, solo io, loro tre persone, tre ragazzi più grandi”.
Quando dice “questo è coltello” dice della cicatrice che ha sulla fronte e del taglio sul petto e della perdita dei sensi e del risveglio in una casa che non conosce, in un bosco che non conosce, assieme a ragazzi che non conosce, tenuto prigioniero da gente e per motivi che non conosce.
Dopo una settimana riesce a scappare e a raggiungere Kaolack, 189 chilometri a sud di Dakar. Dopo va in Mali, dopo il Mali il Niger, dopo il Niger, pausa: sono viaggi che raccontati così non significano molto, vederli su una mappa aiuta farsi un’idea.
Il racconto quasi mai è lineare, è pieno di vuoti e omissioni. Un buco nero enorme è la Libia, ci finiscono violenze e abomini, come denuncia Save the children. Ibrahima non ne parla volentieri. Dice di esserci rimasto due anni, fino a un tentativo di rapina che finisce con lui mezzo morto per terra. È il 2013, ha sedici anni, mette insieme dei soldi e sale su una barca insieme a un altro centinaio di persone: ha più fortuna di altri. “Tanti muoiono, no?”.
Bakary ascolta, tiene gli occhi sulle punte delle scarpe e spesso annuisce con la testa. È più silenzioso, parla meno bene di Ibrahima. Arrivava anche lui dalla Libia, e prima ancora, a ritroso, Niger, Mali e Gambia, dov’è nato, diciassette anni fa. Il silenzio non è dovuto solo alle difficoltà con l’italiano, e non riguarda solo la Libia, in generale è qualcosa che riguarda la sua vita dopo lo sbarco, i suoi giorni qui a Palermo.
“È più introverso di altri”, dice Amoruso, “quest’anno a un certo punto non l’abbiamo più visto tra i banchi. Dopo una settimana telefono al centro d’accoglienza dove vive e chiedo spiegazioni: spiegazioni non ce n’erano. Bakary non si alzava dal letto la mattina, non gli andava, non vedeva un motivo per farlo. Abbiamo chiacchierato un po’, ha riacquistato fiducia e voglia, non ha più perso un giorno di lezione”.
Trascrivo una sua frase, che mi sembra tra le più belle annotate quel pomeriggio: “Mi piace il pallone, bello, mi piace il Palermo, ma anche studio è bello (pausa, risata) difficile però”. Questa difficoltà me la raccontano D’Agostino e Amoruso. “Dovresti vederli in classe, alcuni si piegano sul foglio, altri impazziscono a stare nelle righe, moltissimi non hanno mai tenuto una penna in mano”.

“Quando riescono a superare le difficoltà, allora emergono i pezzi di un racconto epico che si sta formando proprio sotto i nostri occhi, e a cui magari non prestiamo attenzione”, dice la professoressa, “ma si modella anche per alimentare il nostro bisogno di inquadrare la realtà in un certo modo”.
Un esempio può essere quello di uno dei ragazzi del corso che ricorre alla struttura del racconto collettivo che tutti conosciamo per non dover dare conto della sua storia personale. Dunque, la versione ufficiale suona così: Bangladesh, fame, miseria, viaggio verso l’Europa per trovare un lavoro e spedire qualche soldo a casa. Ma più probabilmente è vicina a: una famiglia media, senza troppi problemi di soldi, un’omosessualità da nascondere a tutti i costi, l’impossibilità di nasconderla a tutti i costi, l’Europa come speranza e salvezza.
“Non è più facile, in casi del genere, raccontarci quello che vogliamo sentirci raccontare? L’epica collettiva semplifica la realtà e la rende più semplice da capire”, osserva la professoressa. “Le singole storie verranno fuori più in là, e ci racconteranno più di quanto sappiamo e vogliamo sapere noi oggi, così come è stato per esempio per l’emigrazione italiana nel novecento”.
È a questo punto che la storia che è partita dal Senegal, è passata dal Gambia, finisce a Pittsburgh. Non è la prima volta che assistiamo a un flusso migratorio così massiccio come quello che in questi anni sta facendo arrivare in Europa milioni di persone dall’Africa e dall’oriente.
La faccenda ha riguardato anche italiani e europei, e quello che è successo, in termini di racconto della realtà, sta succedendo di nuovo.
In estrema sintesi: le storie di chi scappa da qualcosa (guerra, miseria, dittature) sono in prima battuta raccontate da chi li vede arrivare; si costruisce una retorica che si autoalimenta (spesso con pregiudizi e razzismi vari); pian piano chi arriva comincia ad appropriarsi di una lingua, la fa sua e inizia a raccontare la sua versione dei fatti; la retorica iniziale frana, lo stato delle cose inizia a mutare.

Provo a tradurre quest’idea con qualcosa di pratico. Sono siciliano e da almeno tre generazioni la mia famiglia emigra. Mia nonna non ha mai conosciuto un fratello, emigrato in Argentina prima che nascesse e mai più tornato; mio padre negli anni sessanta ha lavorato in una fabbrica a Bonn; io e mio fratello ce ne siamo andati dopo la laurea a Roma e a Padova.
È cambiato tutto, da allora, sono cambiati i motivi che ci hanno spinto a lasciare la Sicilia, è cambiata la Sicilia, sono cambiati i viaggi, siamo cambiati noi: è rimasto uguale l’incrinarsi della voce di chi resta quando parla di chi se ne va. Il dolore per i figli i mariti i fratelli lontani, in molte famiglie siciliane, è un basso continuo e la mia non ha fatto eccezioni, dall’autobus preso da mio padre a diciassette anni per entrare illegalmente in Germania ai viaggi in treno da trenta ore di mio fratello fino al suo primo volo da novecentomila lire per Padova: non c’è stato spostamento che non abbia rotto voci e cuori.
Uno dei fratelli di mia nonna negli anni cinquanta è partito per gli Stati Uniti, la moglie lo ha raggiunto poco dopo, una delle loro figlie scriveva lettere a mia madre da Pittsburgh. In una risuonano molte disperazioni, e una di queste disperazioni ha a che fare con la lingua:
Carissima nipote Rosetta e Totò,
scusami del mio ritardo a scriverti come stai? Spero che la prisenti vi venga a trovari a tutti di una buona salute. I sono invecchiata ma riagisco bene, solo che mi sento troppo triste e sola li vicini non ci parlo non ci capiamo, in questa terra o subito troppo dispiacere e spero a Dio che che mi da un poco di conforto nel cuore. Parlami dei tuoi figli, facci studiare la lingua, la lingua passa lu mari. Tanti abbracci a tutti, a tua mamma e a tuo papà.
Sarina


La lettera è datata 1997, all’epoca mia zia aveva vissuto più negli Stati Uniti che in Italia, ma la lingua era ancora una delle cose che più le torceva il sonno e la teneva ai margini di quel paese e della sua storia. Quasi un secolo prima delle sue parole, questo isolamento aveva i contorni di una vignetta pubblicata sul quotidiano di New Orleans, The Mascot, nel 1888.

giovedì 18 giugno 2015

Il paradosso capitalista in due numeri Militant ( Sinistra in rete.it )

Il paradosso capitalista in due numeri

Militant ( Sinistra in rete.it )

Se i capitalisti, presi singolarmente, non agiscono in termini razionali (in riferimento al sistema produttivo generale, s’intende), il capitalismo nel suo complesso sa descriversi molto bene. La voce del padrone, a volte, riesce ad illuminare meglio delle esegesi proletarie. L’assunto apparso sul Corriere di giovedì scorso sembra confermare questo dato. In un articolo di tal Roberto Sommella, si legge questa frase, buttata là per dimostrare una cosa che in realtà ne dimostra una opposta: “Apple quest’anno può guadagnare 88 miliardi di euro occupando 92.600 persone, mentre negli Anni 60 General Motors raggiungeva i 7 miliardi di dollari di ricavi dando un salario a 600.000 dipendenti.” Sembra una banalità, invece è esattamente qui il cuore della crisi capitalista, la contraddizione principale tale per cui le crisi, nell’attuale sistema produttivo, sono cicliche e mai risolte una volta per tutte. La natura borghese della riflessione del commentatore del Corriere impedisce però di trarne la giusta conclusione (una volta si sarebbe detto: la sua falsa coscienza necessaria che crede di scovare l’inghippo invece continua a non capirlo). Secondo Sommella, infatti, criticando tale forma produttiva di “crescita senza lavoro”, afferma che ormai, nel capitalismo digitale, questo riesce a generare profitti senza creare posti di lavoro (di qui alla conseguenza implicita subordinata, cioè che i capitali riescono a rigenerarsi senza mano d’opera lavorativa, il passo è brevissimo e già compiuto nella testa dell’articolista). Sembra incredibile dopo quasi un decennio di crisi e recessione reale, ma c’è ancora qualcuno che afferma che “il capitalismo genera profitti senza lavoro” (e non ci riferiamo alle simpatiche fandonie post-operaiste sul superamento della teoria del valore, quanto alle analisi dei capitalisti stessi, quelli più avveduti, non gli ovvinionisti alla Severgnini). Se c’è una cosa che in questi dieci anni (per dire dell’epifenomeno, in realtà bisognerebbe guardare alla tendenza almeno trentennale) dovrebbe essere chiara, materiale, persino noiosa, è quella per cui il capitalismo non riesce più a generare profitti. Non è una crescita senza lavoro, è una non crescita senza lavoro.

Breve divagazione: il fatto che la tendenza si sia manifestata concretamente solo in questi ultimi anni è dato dalla serie di misure di controtendenza che il capitale ha messo in moto per arginare la perdita di profitti. In pratica, la finanziarizzazione dell’economia, l’esplosione dei mutui, del ricorso strutturale al debito privato, altro non sono che tentativi di mantenere un adeguato livello medio dei consumi a fronte di un tendenziale impoverimento determinato dalla caduta generale del saggio di profitto. Se prima con uno stipendio ci si poteva pagare l’affitto, comprarsi l’auto e la lavatrice, e dopo dieci anni mi compro sempre l’auto e la lavatrice ma accendendo un mutuo, l’elemento di controtendenza (il mutuo, cioè la possibilità di comprare indirettamente indebitandomi) garantisce al sistema di produrre e vendere, ma genera un fenomeno debitorio privato. Se dopo dieci anni ancora le garanzie che mi servivano per accendere il mutuo vengono progressivamente limate (altro elemento di controtendenza), ecco che il sistema continua a resistere (cioè le aziende riescono ancora a vendere), ma la bolla cresce fino a generare il mostro, cioè l’insolvenza generale (stiamo qui parlando di debiti privati, non dei debiti statali e/o pubblici). Ecco perché l’attuale fase è quella di una non crescita, ma dell’estremo tentativo di agire elementi di controtendenza fino a quando qualche cosa non faccia ripartire i profitti. Il capitalismo però non ha rimedi razionali, dunque sono tutti in attesa del futuro, mantenendo artificialmente in vita il cadavere di un sistema produttivo inceppato.

Fine della divagazione, torniamo ora al nostro Sommella e alla sua illuminante sintesi. Se la crisi è determinata da questa benedetta caduta del saggio di profitto (una caduta, è bene sottolinearlo, tendenziale, non diretta quanto, piuttosto, inevitabile, dato il carattere irrazionale complessivo dei singoli capitalisti; oltretutto, è una caduta relativa, e non assoluta), la causa di questa caduta sta proprio nel concetto espresso da Sommella sul Corriere. Leggiamo Marx (libro III, sezione III, capitolo XIII): “supponendo[...]che questo graduale mutamento della composizione del capitale[...]implichi mutamenti della composizione organica media[...]totale appartenente ad una determinata società, allora questo graduale aumento del capitale costante in rapporto al capitale variabile avrà necessariamente per risultato una graduale caduta del saggio generale di profitto pur restando invariato il saggio di plusvalore, ovvero il grado di sfruttamento del lavoro da parte del capitale[...]La tendenza reale della produzione capitalistica[...]genera, con la continua diminuzione relativa del capitale variabile in confronto al capitale costante, una composizione organica del capitale totale sempre più elevata, la cui conseguenza  immediata è che il saggio di plusvalore, eguale restando e perfino crescendo il grado di sfruttamento del lavoro, si esprime in un saggio generale di profitto continuamente decrescente.” In pratica Marx ci dice che il capitalista tende ad allargare il suo commercio, ad espandersi, a ricercare sempre più profitti, e questa tale dinamica porta la composizione organica del suo capitale a privilegiare la sua parte fissa, cioè ad investire in macchinari, perché questi aumentano la produttività del lavoro a parità di sfruttamento. Solo che spostando troppo il baricentro della composizione del capitale investito sulla sua parte costante, il profitto tende a decrescere, perché questo è determinato solo dal plusvalore determinato dal lavoro astrattamente incorporato nell’oggetto prodotto dal lavoratore. La finanziarizzazione dell’economia è un gigantesco processo antagonistico alla caduta dei profitti, non il nuovo modo che hanno scovato i capitalisti stessi per generare profitti liberandosi del lavoro. Da questo se ne ricava che rimane sempre e comunque il lavoro lo strumento attraverso cui moltiplicare i capitali.

Rileggiamo ora Sommella: “Apple quest’anno può guadagnare 88 miliardi di euro occupando 92.600 persone, mentre negli Anni 60 General Motors raggiungeva i 7 miliardi di dollari di ricavi dando un salario a 600.000 dipendenti.” L’esempio di Apple vale per il capitalismo nel suo complesso: in questi trent’anni è cresciuta esponenzialmente la quota di capitale investito in macchinari di vario tipo (dai computer alla robotizzazione, dal digitale alle economie di scala, eccetera). Questo non ha prodotto meno sfruttamento della mano d’opera, ma una sua minore incidenza nel valore complessivo della merce venduta. Un intero capitolo del bel libro di Zoja e Galloni, Crisi, tendenza alla guerra e classe (l’appendice 3: il keynesismo, sociale o militare che sia, è ancora attuale o attuabile?) spiega egregiamente perché è impossibile riattivare il modello economico keynesiano stante l’attuale composizione organica del capitale: l’alta intensità di lavoro incorporato nelle opere pubbliche degli anni trenta consentiva al moltiplicatore keynesiano di soddisfare la domanda di salario di un numero enorme di lavoratori generando una dinamica attiva dei consumi; oggi una qualsiasi opera pubblica (la Tav, gli F35, il Mose, l’Expo, eccetera) richiede una composizione organica del capitale a bassissima intensità di lavoro e, viceversa, ad altissima concentrazione di macchinari. Ecco perché anche moltiplicando tali interventi pubblici, fosse anche sul piano militare, questi darebbero lavoro a una percentuale infinitesimale di persone rispetto a ciò che la crisi e la mancanza di lavoro richiederebbero.

Il capitalismo però non deciderà razionalmente di privarsi, eliminandolo, del capitale costante in eccesso. Siamo in una fase di estrema, epocale, concentrazione di capitali tendenti al monopolio. I miliardi di telefonini e computer prodotti nel mondo sono di proprietà di aziende che possono contarsi sulle dita di una mano; lo stesso discorso vale per il cibo, le automobili, le banche, eccetera. Anche l’aspetto logistico va concentrandosi in dimensioni senza precedenti. La concentrazione produttiva porta con sè, come abbiamo visto, l’aumento forzato della produttività nel lavoro, cioè l’impiego di macchinari in sostituzione della mano d’opera lavorativa. Il problema allora, nel prossimo futuro, non sarà di una graduale soluzione alla crisi, quanto di un suo peggioramento, in vista di quegli eventi inaspettati capaci di riattivare il ciclo di accumulazione. Non ci sarà alcuna crescita senza occupazione. Continueremo, perversamente, in una tragica decrescita mista a sfruttamento lavorativo.

domenica 7 giugno 2015

NON LEGGERE NULLA O LEGGERE IL NULLA

Non leggere nulla o leggere il Nulla

Un popolo di non-leggenti è un popolo di non-vedenti.




Un popolo di non-leggenti è un popolo di non-vedenti. Rima facile, eco tragica.
Un popolo di non-leggenti si affida come guida al caso, perde l’identità come un incontinente perde l’urina. E questo è oggi il popolo italiano, alfabetizzato per obbligo scolastico ma derubricabile dalle nazioni aventi identità che resistono meglio alla perdita identitaria grazie all’azione di contrasto inapparente della lettura, chiave unica di accesso allo scrigno sigillato del mondo. Non ho le statistiche per fonte, e davvero non m’importa niente se i libri di strenna hanno venduto di più o meno. Osservo.
Le statistiche accertano che le donne leggono molto più dei maschi; l’osservazione mi mostra nuove e nuovissime generazioni di donne implacabilmente conformi al portamento nella mano sinistra (fosse pure in una libreria!) di un telefonino totalizzante, il cui reale fondamento è il Nulla, creato dall’ingegno per la diffusione del Nulla. «Il Dio Nulla è il Dio-che-sta per nascere» (Georg Büchner, Dantons Tod ), duecento anni fa. A questo dovevamo arrivare? Ma no, oltre, ben oltre... Io conosco due o tre lettrici vere: le altre sono maschi che non leggono. Stupisce, per contro, l’enormità dei libri che si stampano. Ma tassiamoli: di quali autori? e se di ebooks, si può definirli lettori-lettrici, oppure utenti di una estensione di smartphone? — Ah sì, Conrad... La linea d’ombra...
L’ho finito una settimana fa, sulla Rete, di cosa parla? Di una città sotterranea in una miniera di carbone? Bello! — Almeno l’ottanta per cento dei libri che si stampano è illeggibile, da buttare, è spreco di mente e di vita; leggere cattivi autori, diarree di roba inutile, non è restaurare identità perduta; leggere fogli illustrativi di farmaci, dépliant turistici, posta elettronica, non trattiene dal precipizio. La salvezza è soltanto nei libri che, letti una volta, non ci lasciano più per la vita. Amico, amica, ditemi: vi potete fidare di politici che leggono, quando sono in aereo, esclusivamente memorie di predecessori che mai hanno capito qualcosa?


Repubblica 31.5.15

venerdì 5 giugno 2015

Marco Dotti: Una testa ben piena o una testa ben fatta?

Marco Dotti: Una testa ben piena o una testa ben fatta?

tysm

Una testa ben piena o una testa ben fatta?

Il terzo istruito di Michel Serres

di Marco Dotti

l450xh300 png l450xh300 pnglib ecole 99ccd 29eb2Nel ventiseiesimo capitolo del primo libro dei Saggi,Michel de Montaigne scriveva: «Non c’è ragazzo delle classi medie che non possa dirsi più sapiente di me, che non so nemmeno quanto basta a interrogarlo sulla sua prima lezione».  Che cosa accadrebbe, si chiedeva Montaigne, se a quella lezione si fosse in qualche modo costretti? Non ci si troverebbe – «assai scioccamente», puntualizzava – vincolati a una costrizione ancora più grande? Non saremmo costretti a servirci di «qualche argomento di discorso più generale, in base al quale esaminare l’ingegno naturale dei ragazzi: lezione sconosciuta tanto a loro quanto a me»? Il saggio che Montaigne pone al centro della sua idea di educazione è ricordato soprattutto per un’altra affermazione, che ha assunto il ruolo di massima e come ogni massima ha subito il non sempre fausto destino di essere più citata, che compresa. Montaigne affermava, infatti, che è meglio una testa ben fatta, che una testa ben piena.
Parlando di «tête bien faite» e contrapponendola alla «tête bien pleine» intendeva riferirsi prima di tutti al precettore, all’insegnante e, per estensione, anche al ragazzo che dovrebbe essere assecondato nel desiderio. Altrimenti, scrive, concludendo la propria dissertazione, «non si fanno che asini carichi di libri». Ma che cos’è un «asino carico di libri»? Che cos’è, oggi? E che cosa significa, sempre oggi, nell’educazione, nell’istruzione e nella ricerca, in sostanza nella scuola e nella società, puntare a una «tête bien faite»?
Abbozzare l’ennesima riforma? Rattoppare ciò che il moderno ha lacerato? Lacerare ciò che di poco moderno vediamo? Oppure “investire in innovazione” – espressione sempre in voga e sempre al limite del patetico – quel tanto che basta per contenere le proprie paure? Quali paure? La paura di non incontrare quel “terzo” – i cui desideri sono poco o nulla decodificabili, finché ci si serve di un discorso binario, basato sulla logica “io-altro” – che sono, oramai, i ragazzi? Paura di non incontrare o di incontrare un terzo che supponiamo possa presentarci il conto? Se il mondo che abitiamo è sempre più ostile, allora tutti i nostri sforzi anche educativi non sono configurabili come tappe propedeutiche all’invisibilità presente e futura? È di questo che abbiamo paura?
Le domande le pone Michel Serres, nel suo ultimo libro, Non è un mondo per vecchi. Perché i ragazzi rivoluzionano il sapere (trad. di Gaspare Polizzi, Bollati-Boringhieri 2013). Serres ricorda che quello tra «tête bien faite» e «tête bien pleine», almeno ai tempi di Montaigne, è ancora un rapporto, una dialettica seppure incrinata, non una vera opposizione. Se il filosofo nato a Bordeaux nel 1533 – agli albori dell’era Gutenberg – si fosse trovato a spiegare in che modo una testa può divenire “ben fatta”, osserva Serres, sarebbe stato costretto a disegnare «uno scomparto da riempiere», magari con meno “cose”, magari con più idee, magari con altre modalità e relazioni, ma è chiaro che prima o dopo «si sarebbe riaffacciata la testa piena».
In questo, il nostro assertore della testa ben fatta, si sarebbe ritrovato come quel Boucicaut che riempiendo gli scaffali del suo supermercato, dopo l’iniziale successo aveva visto cadere la curva dei propri affari. Sappiamo però – e lo sappiamo da Emile Zola, che nel 1883 lo pose al centro del suo undicesimo romanzo, Au Bonheur des dames – che il mercante Aristide Boucicaut semplicemente cambiando la disposizione delle proprie mercanzie, realizzando corridoi disposti come un labirinto intercettò un desiderio che andava al di là del semplice spettacolo della merce e risollevò i propri commerci. Commercio a parte, conclude Serres, la lezione da trarre è che l’ordine può ingabbiare: favorisce il movimento, ma poi lo raggela. Il caos, il disparato possiedono virtù che la ragione non conosce.  Ci troviamo esattamente a questo punto, sospesi tra un ordine che impedisce il movimento e un movimento senza conformazione d’ordine.
Senza ordine, è chiaro, cambia la memoria. Senza lettura, certi neuroni non si attivano, ma altri entrano per la prima volta in movimento. Cambia la memoria perché cambia un mondo, così come cambiò ai tempi di Montaigne, quando nessuno storico si sarebbe più sognato di conoscere Tucidide o Tacito par cœur: bastava un’economia dello spazio, che permettesse di individuare luoghi e scaffalature del volume. Costruiti archivi (relativamente) accessibili, ritenere in qualche luogo della carne o dei nervi il contenuto del volume equivaleva a produrre una sorta di ingorgo connettivo (la testa ben piena) o a praticare una prova di forza sugli altri e su di sé. Oggi, questa testa ben fatta, forse, la si rappresenterebbe indicando un palmare, un computer, uno smartphone o un tablet e la capacità di usarli «in maniera intelligente». Anche questa espressione, «in maniera intelligente», rischia di essere fuorviante. Interpretiamo il mondo delle nuove tecnologie servendoci di quanto a Montaigne serviva per criticare il vecchio mondo delle mnemotecniche e delle retoriche: la pagina.
«Il formato-pagina», scrive Serres, «ci domina al punto, e lo fa così a nostra insaputa, che le nuove tecnologie non ne sono ancora uscite. Mentre gli innovatori di ogni genere inseguono il libro elettronico, l’elettronica non si è ancora liberata del libro, anche se coinvolge tutt’altro che il libro e il formato transtorico della pagina».
Serres non è un profeta di smaterializzazioni prossime o future. Si attesta su una faglia e ne coglie gli slittamenti con una scrittura evocativa, ma mai inaccessibile. Risale a ventidue anni fa la pubblicazione del suo lavoro più specificamente dedicato all’educazione, Le tiers instruit, tradotto in Italia per i tipi di Marsilio col titolo Il mantello di Arlecchino. Il “terzo istruito: l’educazione dell’età futura. Il libro sul “terzo” era diviso in tre parti, rispettivamente dedicate all’allevare (nella risonanza del termine, il  francese élever rende meno grezza l’idea), istruire e educare. Oggi, in qualche modo, l’idea di apprendimento come metissage e ibridazione, di educazione come costituzione di un “terzo” diverso sia dall’ “uno” che dall’ “altro”, sembrano confermarsi nelle cose. Serres riprende così la propria idea della necessità di osservare questo “terzo” che “si” istruisce con un bricolage che ricorda il mantello di Arlecchino, aprendosi al mondo, consegnandosi a un’avventura continua e a una continua mutazione. Una mutazione dolce che ci vede vivere assieme «in quanto figli del libro e nipoti della scrittura». Questo guardando indietro, osservando le origini. Ma guardando avanti?
Per osservare bene, non bisogna avere paura e ricadere nel vizio epistemologico di riempire un vuoto. A detta dell’autore francese, da trent’anni docente a Stanford e da sempre sostenitore del libero accesso in rete, è proprio qui la questione da dirimere e le domande di prima ne presuppongono un’altra: perché abbiamo paura del vuoto? Perché siamo colti da quest’ansia di sostituzione? Serres racconta allora una storia, tratta dalla Leggenda aurea di Jacopo da Varagine. Anche questa è una storia nota, ma nell’economia della sua riflessione serve per esemplificare al meglio il punto in cui ci troviamo e da cui, anche a partire da vecchie questioni come quella à la Montaigne, originano diramazioni impreviste che talvolta svuotano le precedenti, talvolta le caricano di nuovi significati. Accanto alla testa ben fatta e alla testa ben piena, Serres ricorda la testa mozzata di Dionigi, primo vescovo di Lutetia – Parigi –  nel Terzo secolo. Catturato, torturato, infine condannato a salire sulla sommità di una collina che oggi conosciamo col nome di Montmartre, Dionigi venne decapitato a metà della salita.
Svogliati e stanchi, i soldati rinunciarono a compiere per intero il percorso e comminarono la pena a mezza via. Ma Dionigi si rialzò, prese in mano la propria testa, e camminò fino alla cima.
A questa dimensione acefala, non sostitutiva ma costitutiva del sapere guarda con attenzione Michel Serres. Quando la ragazzina a cui idealmente ci si rivolge e dà il titolo originale al libro – Pollicina o Petite-Poucette, anche qui in un gioco sull’abilità di scrivere su supporti mobili servendosi del pollice – accende il proprio computer, ha sia una testa ben piena, per l’enorme e sconcertante riserva di informazioni a cui può attingere, sia una testa ben fatta, per il surplus di intelligenza e velocità che le connessioni permettono. Ma ha anche una dimensione “altra”, perché la sua testa, o le sue due teste, Pollicina le tiene fuori di sé. Siamo tutti come la ragazzina di Serres che, per vivere in un mondo inevitabilmente “decollato”, è costretta a diventare intelligente.
Ragazzi, giovani, adolescenti: termini mobili, si dirà, soprattutto in un paese che alternativamente considera “giovane” un presidente del consiglio di 47 anni e “vecchio” un laureato di 27. Ma anche qui è Serres a puntualizzare, in un altro libro, Genesi (Il Melangolo, 1988) che cosa intenda con questa categoria.
«Non crediate che la giovinezza abbia la pelle vergine e il viso liscio per delle semplici ragioni biochimiche. Queste stesse ragioni hanno le loro ragioni. Più il corpo è giovane e più è capace del multiplo». È nello spazio sempre più dilatato di questo multiplo, oltre i confini di un banale tempo cronologico, che  Serres colloca il proprio progetto. Si può dissentire, ma non è un’idea da poco.

martedì 2 giugno 2015

IO SONO IL MIO DENARO ( Karl Marx )

Io sono il mio denaro

Karl Marx

( dal sito Sinistra in rete.it  -  Doppiozero /  Marxiana )
1890 james ensor intrigueIl denaro, poiché possiede la proprietà di comprar tutto, la proprietà di appropriarsi tutti gli oggetti, è così l'oggetto in senso eminente. L'universalità della suaproprietà è l'onnipotenza del suo essere, esso vale quindi come ente onnipotente... Il denaro è il lenone fra il bisogno e l'oggetto, fra la vita e il mezzo di vita dell'uomo. Ma ciò che mi media la mia vita mi media anche l'esistenza degli altri uomini. Questo è l’altrouomo per me. –
Goethe, Faust (Mefistofele):
Che diamine! Certamente mani e piedi e testa e di dietro, questi, sono tuoi! E pure tutto quel di cui frescamente godo è perciò meno mio? Se io posso comprarmi sei stalloni, le loro forze non sono mie? Io ci corro sopra e sono un uomo più in gamba, come se avessi ventiquattro piedi.
Shakespeare, in Timone d’Atene:
Oro? Prezioso, scintillante, rosso oro? No, dei, non è frivola la mia supplica. Tanto di questo fa il nero bianco, il brutto bello, il cattivo buono, il vecchio giovane, il vile valoroso, l’ignobile nobile.
Questo stacca… il prete dall’altare; strappa al semiguarito l’origliere; sì, questo rosso schiavo scioglie e annoda i legami sacri; benedice il maledetto; fa la lebbra amabile; onora il ladro e gli dà il rango, le genuflessioni e la influenza nel consiglio dei senatori; questo conduce dei pretendenti alla troppo stagionata vedova; questo ringiovanisce, balsamico, in una gioventù di maggio, colei ch’è respinta con nausea, marcia com’è di ospedale e di pestifere piaghe. Maledetto metallo, comune prostituta degli uomini, che sconvolgi i popoli.
E più avanti:
tu dolce regicida, nobile strumento di discordia fra figlio e padre! Tu brillante profanatore del più puro letto nuziale! valoroso Marte! Eternamente fiorente e teneramente amato amante, il cui rosso splendore fonde la sacra neve del puro grembo di Diana! Visibile deità, che strettamente congiungi gli impossibili, e li costringi a baciarsi! Tu parli in ogni lingua a ogni fine! Tu pietra di paragone dei cuori! Considera: si ribella il tuo schiavo, l’uomo!
Consuma la tua forza a confonderli tutti, che la bestialità diventi padrona di questo mondo!
Shakespeare rappresenta la natura del denaro in guisa eccellente. Per intenderlo cominciamo con la spiegazione del passo goethiano. Ciò ch’è mio mediante il denaro, ciò che io posso, cioè può il denaro, comprare, ciò sono io, il possessore del denaro stesso. Tanto grande la mia forza quanto grande la forza del denaro. Le proprietà del denaro sono mie, di me suo possessore: le sue proprietà e forze essenziali. Ciò che io sono e posso non è, dunque affatto determinato dalla mia individualità. Io sono butto, ma posso comprarmi le più belle donne. Dunque non sono brutto, ché l’effetto della bruttezza, il suo potere scoraggiante, è annullato dal denaro. Io sono, come individuo, storpio, ma il denaro mi dà 24 gambe: non sono dunque storpio. Io sono un uomo malvagio, infame, senza coscienza, senza ingegno, ma il denaro è onorato, dunque lo è anche il suo possessore. Il denaro è il più grande dei beni, dunque il suo possessore è buono; il denaro mi dispensa della pena di essere disonesto, io sono, dunque, presunto onesto; io sonosenza spirito, ma il denaro è lo spirito reale di ogni cosa: come dovrebbe essere senza spirito il suo possessore? Inoltre, questi può comprarsi la gente ricca di spirito, e chi ha potere sulla gente ricca di spirito non è egli più ricco di spirito dell’uomo ricco di spirito? Io, che mediante il denaro posso tutto ciò che un cuore umano desidera, non possiedo io tutti i poteri umani? Il mio denaro non tramuta tutte le mie impotenze nel loro contrario?
Se il denaro è il legame che mi unisce alla vita umana, alla società, alla natura e agli uomini, non è esso il legame dei legami? Non può esso sciogliere e stringere tutti i legami? E non è perciò anche il mezzo generale di separazione? Esso è la vera moneta divisionale, come anche il vero legamento, la forza galvano-chimica della società.
Shakespeare rivela nel denaro particolarmente due proprietà:
  1. - è la visibile deità, il tramutamento di ogni qualità umana e naturale nel suo opposto, la generale confusione e perversione delle cose; la conciliazione delle impossibilità;
  2. - è la universale prostituta, l'universale mezzana di uomini e popoli.
La perversione e la confusione di ogni qualità umana e naturale, la congiunzione delle impossibilità, la possanza divina, del denaro, consistono nella sua essenza di estraniata, spogliantesi e alienantesi esistenza generica degli uomini. Esso è il potere espropriato dell'umanità. Ciò che io non posso come uomo, dunque ciò che non possono tutte le mie sostanziali forze individuali, lo posso mediante il denaro. Il denaro fa così di ognuna di queste forze essenziali qualcosa che essa non è, il suo contrario. Se io desidero un cibo o voglio servirmi della diligenza, perché non sono abbastanza in forze da far la strada a piedi, il denaro mi procura il cibo e la diligenza, cioè trasforma i miei desideri-rappresentazioni, traduce la loro esistenza pensata, rappresentata, voluta, nella loro esistenza sensibilereale, la rappresentazione in vita, l’essere rappresentato nell'essere reale. In quanto è questa mediazione, esso forza veramente creatrice.
La domanda c’è anche da parte di chi non ha denaro, ma la sua domanda è un mero essere rappresentato, che per me, per un terzo, non ha alcun effetto, alcuna esistenza, e resta dunque, anche per me irreale,senza oggetto. La differenza fra la domanda effettiva, basata sul denaro, e quella senza effetto, basata sul mio bisogno, sulla mia passione, il mio desiderio etc., è la differenza fra l’essere e il pensare, fra la mera rappresentazione, in me esistente, e la rappresentazione come reale oggetto fuori di me e per me.
Io, se non ho denaro per viaggiare, non ho alcun bisogno, cioè non ho alcun reale e realizzantesi bisogno di viaggiare. Se ho vocazione allo studio, ma non ho il denaro occorrente, non ho nessuna vocazione allo studio, cioè nessuna vocazione efficace, vera. Per contro, se non ho realmente nessuna vocazione allo studio, ma ho volontà e denaro, ho un’efficace vocazione. Il denaro, in quanto mezzo e potere esterni e generali – non derivanti dall'uomo come uomo, né dalla società umana come società – di far dellarappresentazione la realtà e della realtà una mera rappresentazione, tramuta parimente le reali forze sostanziali umane e naturali in rappresentazioni meramente astratte e quindi in imperfezioni e penose chimere; come d'altra parte, tramuta le reali imperfezioni e chimere, le forze sostanziali effettivamente impotenti, esistenti soltanto nell'immaginazione dell'individuo, in reali forze sostanziali e poteri. Già solo per questa caratteristica esso è dunque il generale pervertimento delle individualità: che le rovescia nel loro contrario e aggiunge alle loro qualità delle qualità contraddittorie.
Come tale forza sconvolgente esso appare contro l’individuo e contro i legami sociali etc., che affermano di essere delle entità per sé. Tramuta la fedeltà in infedeltà, l’amore in odio, l’odio in amore, la virtù in vizio, il vizio in virtù, lo schiavo in padrone, il padrone in schiavo, l’idiozia in intelligenza, l’intelligenza in idiozia.
Poiché il denaro, in quanto concetto esistente e attuale del valore, confonde e scambia tutte le cose, esso è così la generale confusione e inversione di ogni cosa, dunque il mondo sovvertito, la confusione e inversione di tutte le qualità naturali e umane.
Chi può comprare la bravura è valoroso, anche se è vile. Poiché il denaro si scambia non contro una qualità determinata, contro una cosa determinata, contro qualcuna delle forze sostanziali umane, ma contro l’intero mondo oggettivo umano e naturale, così esso cambia – considerato dal punto di vista del suo possessore – ogni qualità contro ogni qualità e ogni oggetto anche contraddittorio; è la congiunzione delle impossibilità, costringe i contraddittori a baciarsi.
Ma se supponi l'uomo come uomo e il suo rapporto col mondo come un rapporto umano, tu puoi solo scambiare amore con amore, fiducia con fiducia, ecc. Se vuoi godere dell’arte, devi essere un uomo colto in fatto di arte; se vuoi esercitare un'influenza su altri uomini, devi essere un uomo attivo realmente stimolante e trascinante altri uomini. Ogni tuo rapporto con gli uomini – e con la natura – deve essere un’espressione determinata, corrispondente all'oggetto da te voluto, della tua reale vita individuale. Quando tu ami senza provocare amore reciproco, cioè quando il tuo amore come amore non produce amore reciproco, e attraverso la tua manifestazione di vita, di uomo che ama, non fai di te stesso un uomo amato, il tuo amore è impotente, è una sventura.
Karl Marx, Opere filosofiche giovanili, Editori Riuniti, pp. 252-256.