venerdì 17 ottobre 2014

Insieme si può ( di Carla Erba da “La Penna ai Busseresi 2014 )

Insieme si può
( di Carla Erba da “La Penna ai Busseresi 2014 )

  1. Vorrei….  Ritornare bambina…
  2. Vorrei …..riprendermi la mia libertà
  3. Vorrei ….non lavorare più ….
  4. Vorrei ….che mio figlio lavorasse…..
  5. Vorrei ….un figlio sano……..
  6. Vorrei ….non essere più “famiglia”
  7. Vorrei … che i miei figli non si odiassero
  8. Vorrei …  non essere più mamma
  9. Vorrei …che mio padre fosse più Papà
  10. Vorrei. ...non avere più un padre
  11. Vorrei …che i miei “vecchi”non invecchiassero
  12. Vorrei …non essere più figlia
  13. Vorrei….che mio marito non mi picchiasse e non mi dicesse: tu mi devi amare
  14. Vorrei …che fosse amore…
  15. Vorrei … poter volare verso “l’altra gente”
  16. Vorrei…  arrivare a fine mese con ancora 50 euro nel portafoglio
  17. Vorrei … essere IO e non una copia
  18. Vorrei … Vorrei…..poter dire le cose che penso…
  19. Vorrei… sentirmi più nonna e meno mamma
  20. Vorrei … sentirmi chiamare mamma
  21. Vorrei … gridare il mio amore per Laura
  22. Vorrei …che la mia famiglia fosse come quella del Mulino Bianco
  23. Vorrei….avere il diritto di vivere un’altra vita
  24. Vorrei …urlare…
  25. Vorrei …piangere….
  26. Vorrei …mollare tutto …
  27. Vorrei…. cambiare il mondo …………………………..   forse si può
  28. Vorrei …un mondo d’amore                                               forse si può

Insieme si può

mercoledì 15 ottobre 2014

Racconti di paese: la lotta della Cascina Gogna di Vitaliano Serra ( “ La Penna ai Busseresi “ 3 ottobre 2014 )




I pomeriggi la domenica ci si radunava, tutti noi del Gruppo Aperto, presso il “circulin dei compagni”. Non   erano ricchi di sorprese. Ognuno di noi aveva sempre qualche proposta che veniva esaminata dal resto del gruppo. L’oratorio maschile, proponeva, su un campetto irregolare e spelacchiato, partitelle a calcio. Per le ragazze c’era solo il chiacchiericcio a bordo campo. Ovviamente il calcio per le ragazze non rappresentava una vera e propria distrazione. Se non altro potevano solo fare qualche commento sulle più o meno  prestanti qualità dei maschietti, dal fisico ancora acerbo. Così ,quella volta, la scelta di come passare il pomeriggio, cadde su un’esplorazione della Cascina Gogna che ai più pareva cadente e abbandonata. Sapevamo dalle notizie che correvano in Paese che era abitata da famiglie di “furestèe”, da qualche cane e da un nugolo di bambini. Decidemmo che, finalmente, meritava  un’ispezione adeguata, dove ogni più piccolo dettaglio non avrebbe più avuto segreti per noi. La Cascina era lì, come la vediamo oggi a quarant’anni e passa di distanza. Cadente, abbandonata, ma  ricca di “vita ai margini”: gli immigrati di allora, un’ultima ondata di famiglie dal sud, bresciani e veneti. Sapevamo che avevano redditi leggeri e precari, pigioni alte se raffrontate alla qualità degli alloggi. Nessuno si curava di loro, persino il parroco e le “pie donne” evitavano la frequentazione del luogo, dove pure esisteva un luogo di culto. La scuola poco si curava delle assenze dei bambini, che spesso erano assenti e ovviamente non erano preparati. Noi del Gruppo già usavamo proporre il doposcuola gratuito per aiutare i figli di operai che arrancavano di fronte alle nozioni di aritmetica e grammatica. Lo facevamo certi che la scuola fosse la chiave per tenere aperta la porta che permettesse ai meno fortunati di migliorare la propria condizione sociale, sfuggendo al “destino” di classe che li attendeva. Operai figli di operai.

Il primo impatto non fu proprio dei migliori, era il 30 ottobre 1972, ci guardarono con sospetto, e il nugolo di bambini risultarono quasi incontrollabili, qualche sassata accompagnò le nostre passeggiate collettive. Ma  eravamo tenaci e non ci impauriva quasi nulla, allora avevamo 20 anni “suppergiù”. Occupammo una delle molte sale a disposizione, la pulimmo, la arredammo alla meglio, con tavoli, sedie, armadietti. Organizzammo feste e incontri, aprimmo il doposcuola gratuito anche lì, il sabato e la domenica pomeriggio.

Non ci fermammo davanti alle molte “provocazioni” del sciur padrun del luogo. Arrivò perfino a rincorrerci con il suo aratro e lanciandoci dietro i cani, nel tentativo di farci desistere con le cattive dal nostro intento.  Il signore e padrone di tutte quella aree agricole e dell’intera cascina. Uomo d’altri tempi, ottocentesco, ( in verità anche oggi le cose sul tema della “proprietà” non vanno meglio e ci sarebbe da riflettere, se la riflessione di questo tipo oggi non fosse considerata arcaica, appunto, ottocentesca. Mala tempora currunt ! ) non vedeva di buon occhio il nostro operare, perché creava disturbo alla esosa quiete padronale che imponeva agli astanti. Così entrammo con i piedi nel piatto convincendo le famiglie del luogo a seguirci nella lotta per vedere tutelati i propri interessi.  Avviammo assieme una lotta per l’autoriduzione degli affitti, e per chiedere alcuni pur minimi interventi man spesso nelle coltri bagnate. La proprietà inviò gli sfratti, noi aprimmo una vertenza legale, pagandone i costi di persona, aiutati da un legale delle ACLI. Pubblicammo interventi sui giornali nazionali, l’Unità, il Giornale dei Lavoratori, il Giorno. Volantinammo in Paese ed in zona sulle condizioni di quelle famiglie, proponemmo interpellanze in Consiglio Comunale, sollecitando i partiti a prendere posizione, a fare qualcosa per limitare il disagio delle famiglie, per appoggiare la loro e la nostra  lotta, organizzammo assemblee. Con gli abitanti e soprattutto con i bambini crebbe l’empatia, l’amicizia, la stima. Ed anche il resto del Paese, le istituzioni, i cittadini, si accorsero della realtà che si viveva in quella cascina. Aumentò la solidarietà e di conseguenza l’integrazione. Quella lotta ha pagato, gli affitti non furono  pagati più così alti, gli sfratti furono gestiti finalizzandoli al passaggio da casa a casa, e da una casa non vivibile ad una casa vivibile,  e tutte quelle famiglie lasciarono finalmente la cadente Cascina Gogna per passare, attendendo la loro costruzione, da casa a casa nelle case popolari che furono costruite qualche tempo dopo. Non più ai margini invisibili di Bussero ma al centro del nuovo Paese. Con quella lotta, molti di quei bambini di allora sono pienamente diventati cittadini, come gli altri, della nostra comunità.

 


Dedicato a Silvano, Armando, Lorena, Anna, Giuseppe, GianPietro, Vladimiro, Maria Grazia,……

Tutti i limiti del Jobs Act del PD di Renzi.



Caro Gianni, appena rientrato dalla bella Toscana ( nonostante Matteo Renzi )ho ultimato di vedere i materiali del PD che hai inviato nei giorni passati e spero di fornire a te e a tutti quelli che hanno sopportazione delle mie lunghe tiritere, una mia esauriente chiarificazione di questo spinosissimo tema.
Quali sono gli effetti del provvedimento approvato nella drammatica direzione del Pd. E perché a mio parere sanciscono se ce ne fosse ancora stato bisogno la netta e drastica rottura di una concezione ancorché minimamente di sinistra ( ed intendo come sarebbe ovvio pensare di sinistra perché guidato da un ideale socialista e non meramente liberale come artificiosamente fa Fassino – quello che nel 2007 ci diceva che “non arrotoleremo le nostre bandiere" - nella sua sorprendente intervista tra i materiali di cui sopra – ma ormai non mi sorprende più nulla del PD - ) del e nel Partito che fu Democratico. E su cui invito tutti/e a riflettere con grande attenzione.
La paventata scissione tra maggioranza e minoranza del partito non si è materializzata e il documento presentato da Renzi ha potuto contare su 130 voti favorevoli contro 11 astenuti e 20 contrari. La durezza dei toni usati da esponenti del calibro di Pierluigi Bersani e Massimo D’Alema, i quali sono sembrati colpiti più dal metodo del segretario che non dal merito del documento presentato, ha messo in luce i tratti di uno scenario da fine corsa per coloro che si consideravano i padri nobili della socialdemocrazia italiana.
Di fronte ai loro occhi si è consumato un dibattito alla fine del quale fra un tecnicismo e qualche distinguo è stato approvato un documento che solo qualche anno fa sarebbe stato impensabile discutere nella direzione di quel partito. Il rovesciamento di natura quasi antropologica operato da Renzi ha visto, tra le altre cose, l’inscrizione del diritto di licenziare (liberamente e senza perdere tempo con giudici e tribunali) tra le stelle polari del nuovo corso democratico. Si è dunque completato quel percorso dal sapore blairiano che, avviato nella seconda metà degli anni 90 dalla stessa vecchia guardia - D’Alema anzitutto - che ieri gettava strali sul segretario, ha portato all’eliminazione di qualunque residuo di cultura laburista ancora presente nel Pd.
Ma vediamo che provvedimento è uscito dalla direzione e quali sono stati i principali oggetti del contendere tra maggioranza e minoranza del Pd.
A soli due anni dal pesante intervento con cui l’ex ministro Fornero, con l’appoggio determinante del PD pre renziano, cominciò lo svuotamento, di fatto, dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori (rendendo il licenziamento per motivi economici parte di quella fattispecie definita dal legislatore “giusta causa” o “giustificato motivo oggettivo”) la delega nelle mani del governo prevede un ulteriore accelerazione sul piano della deregolamentazione del mercato del lavoro. L’introduzione del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, che andrebbe immediatamente a regime senza passare per alcuna fase sperimentale, coinciderà con l’eliminazione di qualunque possibilità di applicazione dell’articolo 18 ad eccezione dei casi di discriminazione (strumento retoricamente e sistematicamente utilizzato da chi vuole superare le regole di tutela della stabilità dei rapporti di lavoro, senza avere idea di quanto sia difficile provare la natura discriminatoria di un recesso) o di licenziamento per motivi disciplinari (rispetto ai quali il segretario intende confrontarsi con i sindacati) in cui la reintegra sarebbe ancora prevista.
In questi casi solo la perfetta ignoranza dei reali rapporti di forza tra padroni/ datori di lavoro e lavoratori, tanto più se nella miriade di piccole e medie fabbriche italiane, può non far comprendere cosa succederà ( ma succede già oggi senza la necessità di altre leggi in proposito ). Basta chiedere ai molti lavoratori di piccole aziendine ( tranne qualche solita eccezione controcorrente ) quale sia il livello dei rapporti. “Se ti va bene è così se non fuori dalle balle”. La tiritera che ai datori di lavoro dispiace licenziare è francamente più vicina alle teorie deamicisiane da “libro cuore” che alla vera e pura realtà. Vessazioni, demansionamenti senza regole, versamento dei salari un tanto al chilo, lavori extra in nero, contratti fantasma, ecc. ecc. sono la norma e risulta facilissimo mettere il proprio lavoratore indigesto nelle condizioni di dover andarsene con le proprie gambe ( nei settori dell’edilizia, dei servizi, del commercio al dettaglio, e non solo si verificano ormai quotidiani soprusi che una volta quando la sinistra e il sindacato erano forti e seppure presenti in gran parte solo nelle medie e grandi aziende anche nelle piccole fabbriche ci stavano un po’ più attenti nell’attuare ).

Con questo tipo di contratto, entro i primi 3 anni, il lavoratore potrà essere licenziato in qualsiasi momento con un indennizzo proporzionale all’anzianità di servizio, quindi con una miseria di buonuscita, e senza quindi il reintegro. E la tutela del reintegro sembra essere esclusa anche alla fine del periodo, visto che il testo, non a caso, non ne parla in modo esplicito. Su questo punto c’è stato chi, come Massimo D’Alema, in un sussulto d’orgoglio ha provato a ricordare la disparità delle forze in campo tra padroni e lavoratori ma, l’aver osato utilizzare un appellativo simile per definire gli imprenditori, gli è valso l’ennesima accusa di passatismo e di scarso contatto con l’attuale realtà del Partito che fu democratico. Cesare Damiano, presidente democratico della Commissione lavoro della Camera, ha tentato di riportare la discussione su un piano di buonsenso ricordando che la reintegra è contenuta, esattamente come in Italia, in quasi tutti gli ordinamenti giuridici europei compreso quello tedesco dove essa ha addirittura un applicazione più ampia includendo le imprese a partire dai dieci dipendenti. Ma nulla è stato recepito ( e ci mancava altro ).

La delega prevede, inoltre, una revisione della disciplina delle mansioni contenuta oggi nell’articolo 13 dello Statuto. Con questa norma si aprirebbe la strada, riportando le lancette dell’orologio indietro di più di quaranta anni, alla possibilità di demansionamento del lavoratore (con le ovvie conseguenze in termini di riduzione del salario- si perché vuoi vedere cosa succederà quando altri lavoratori nella stessa mansione prenderanno meno salario di quelli che eventualmente saranno demansionati a fare quel tipo di lavoro ) in caso di riorganizzazione, ristrutturazione o conversione aziendale. Questo punto della delega è di fatto un enorme incremento del potere ricattatorio del datore di lavoro. Tuttavia, in un mercato del lavoro come quello immaginato da Renzi dove “l’imprenditore è un lavoratore” e nessuno dovrebbe avere interesse a ricattare l’altro, tutti (quelli appartenenti al fortunato e sempre più esclusivo mondo degli occupati) saranno felici di cooperare per aumentare produttività e benessere collettivo. Si spera, ma il mondo delle meraviglie esiste solo nel paese di Crozza.

Con la revisione della disciplina dei controlli a distanza si va invece verso quel futuro fatto di tecnologia e innovazione tanto caro al Presidente del Consiglio. L’uso della tecnologia previsto dal Jobs Act, tuttavia, non sembra essere legato alla volontà di migliorare le condizioni di lavoro o di ridurre i rischi per la salute e la sicurezza dei lavoratori come sarebbe auspicabile visti i drammatici dati sugli incidenti e le morti sul lavoro nel nostro paese. Al contrario, la delega prevede la rimodulazione della norma che oggi vieta il controllo dei lavoratori a distanza tramite videocamere o altri sistemi elettronici consentendo di fatto ai datori di lavoro di spiare a distanza i lavoratori, con evidenti ricadute etiche e disciplinari.

A proposito di ammortizzatori sociali poi occorre segnalare che la legge delega non potrà essere a costo 0 come preconizzano tutti gli interventi dell’assemblea di Area Dem di cui stiamo trattando, da Mirabelli, alla Parente, da Fiano a Fassino. La delega al di là di ribadire – come ha fatto il ministro Poletti - che per ora ci sono solo le risorse derivanti dall’abolizione della CIG in deroga con un capitolo di spesa che non supera 1,5 miliardi di euro l’anno, quando tutti sanno che ce ne vorrebbero almeno 23 di miliardi.
La parte meno indigesta e, per questo, maggiormente pubblicizzata della delega al governo prevede: l’istituzione di un sistema universale di ammortizzatori sociali, l’introduzione di un salario minimo per i lavoratori non interessati dalla contrattazione collettiva nazionale e il disboscamento della selva di contratti precari che lo stesso Partito Democratico ha contributo ad ampliare nel corso degli ultimi venti anni. Per quanto riguarda la volontà di istituire una rete di ammortizzatori sociali attraverso cui, come affermato da Renzi, “Lo Stato si occuperà di qualunque lavoratore che perda il proprio posto di lavoro”, la contraddizione con i piani di riduzione della spesa pubblica (ad oggi le risorse previste da Renzi per questo capitolo di spesa sono pari a un miliardo e mezzo di euro) e ciò che ci aspetta con l’adozione del Fiscal Compact è a dir poco macroscopica. Almeno su questo punto, vi è stata la manifestazione di una forte preoccupazione da parte della maggioranza degli intervenuti in direzione ( D’Alema su tutti ).

Relativamente alla volontà di istituire un “compenso orario minimo per il lavoro subordinato e le collaborazioni coordinate e continuative” la misura è, in linea teorica, da salutare positivamente. Tuttavia, viene chiarito sin da subito che sarà soltanto per quei settori dove non si applica il contratto nazionale e quindi, di fatto, del tutto scollegato da questi. In una fase in cui a detta di molti anche il Contratto Collettivo Nazionale è da annoverare tra le cause di tutti i malanni economici che affliggono il paese, il compenso minimo previsto dal Jobs Act rischia di essere un nuovo strumento per scardinare definitivamente gli stessi contratti nazionali.

La vaghezza della delega in merito alla riduzione delle forme contrattuali para-subordinate non dà molte certezze da questo punto di vista. In realtà, non vi è alcuna garanzia in merito all’abrogazione del tempo determinato, del contratto di somministrazione o delle forme para-subordinate più utilizzate dalle imprese che si opporrebbero immediatamente se vedessero messe a rischio quelle forme contrattuali che oggi garantiscono loro i più ampi spazi di potere e libertà.
E temo che non si fermino neppure qui, già è partita la grancassa mediatica sulle troppe assenze per malattia ( con la puntualizzazione che troppe richieste di malattia si hanno nella giornata di lunedi ) e come sempre succede in questi casi prima o poi punteranno all’abolizione della malattia in alcuni giorni per poi tentare di rivedere, in nome della produttività e della moralizzazione ( dei lavoratori ovviamente non delle corruttele padronali ), il tutto ovviamente per tutelare i giovani e dargli un futuro ( si da schiavi ).

Quel che colpisce, per concludere, è che gli stessi che oggi si stracciano le vesti, hanno contribuito alla costruzione di quella malintesa cultura liberal in virtù della quale si sancisce l’uguaglianza tra diseguali o, se si preferisce, si garantisce la tanto cara “eguaglianza delle opportunità” e della “meritocrazia” a chi parte con dotazioni iniziali distanti anni luce.