mercoledì 31 ottobre 2012

Usano il panico da deficit per smantellare i programmi sociali

Usano il panico da deficit per smantellare i programmi sociali

Martedì 04 Settembre 2012
Paul Krugman

L'AGENDA DELL'AUSTERITY
"Il tempo giusto per le misure di austerità è durante un boom, non durante la depressione". Questo dichiarava John Maynard Keynes 75 anni fa, ed aveva ragione. Anche in presenza di un problema di deficit a lungo termine (e chi non ce l'ha?), tagliare le spese quando l'economia è profondamente depressa è una strategia di auto-sconfitta, perché non fa altro che ingrandire la depressione.
Allora come mai la Gran Bretagna (e l'Italia, la Grecia, la Spagna, ecc. NDR) sta facendo esattamente quello che non dovrebbe fare? Al contrario di paesi come la Spagna, o la California, il governo britannico può indebitarsi liberamente, a tassi storicamente bassi. Allora come mai sta riducendo drasticamente gli investimenti, ed eliminando centinaia di migliaia di lavori nel settore pubblico, invece di aspettare che l'economia recuperi?
Nei giorni scorsi, ho fatto questa domanda a vari sostenitori del governo del primo ministro David Cameron. A volte in privato, a volte in TV. Tutte queste conversazioni hanno seguito la stessa parabola: sono cominciate con una metafora sbagliata, e sono terminate con la rivelazione di motivi ulteriori (alla ripresa economica NDR).
La cattiva metafora – che avrete sicuramente ascoltato molte volte – equipara i problemi di debito di un'economia nazionale, a quelli di una famiglia individuale. La storia, pressappoco è questa: Una famiglia che ha fatto troppi debiti deve stringere la cinghia, ed allo stesso modo, se la Gran Bretagna ha accumulato troppi debiti – cosa che ha fatto, anche se per la maggior parte si tratta di debito privato e non pubblico – dovrebbe fare altrettanto!
COSA C'È DI SBAGLIATO IN QUESTO PARAGONE?
La risposta è che un'economia non è come una famiglia indebitata. Il nostro debito è composto in maggioranza di soldi che ci dobbiamo l'un l'altro; cosa ancora più importante: il nostro reddito viene principalmente dal venderci cose a vicenda. La tua spesa è il mio introito, e la mia spesa è il tuo introito.
E allora cosa succede quando tutti, simultaneamente, diminuiscono le proprie spese nel tentativo di pagare il debito? La risposta è che il reddito di tutti cala – il mio perché tu spendi meno, il tuo perché io spendo meno.- E mentre il nostro reddito cala, il nostro problema di debito peggiora, non migliora.
Questo meccanismo non è di recente comprensione. Il grande economista americano Irving Fisher spiegò già tutto nel lontano 1933, e descrisse sommariamente quello che lui chiamava "deflazione da debito" con lo slogan:"Più i debitori pagano, più aumenta il debito". Gli eventi recenti, e soprattutto la spirale di morte da austerity in Europa, illustrano drammaticamente la veridicità del pensiero di Fisher.
Questa storia ha una morale ben chiara: quando il settore privato sta cercando disperatamente di diminuire il debito, il settore pubblico dovrebbe fare l'opposto, spendendo proprio quando il settore privato non vuole, o non può. Per carità, una volta che l'economia avrà recuperato si dovrà sicuramente pensare al pareggio di bilancio, ma non ora. Il momento giusto per l'austerity è il boom, non la depressione.
Come ho già detto, non si tratta di una novità. Allora come mai così tanti politici insistono con misure di austerity durante la depressione? E come mai non cambiano piani, anche se l'esperienza diretta conferma le lezioni di teoria e della storia?
Beh, qui è dove le cose si fanno interessanti. Infatti, quando gli "austeri" vengono pressati sulla fallacità della loro metafora, quasi sempre ripiegano su asserzioni del tipo: "Ma è essenziale ridurre la grandezza dello Stato".
Queste asserzioni spesso vengono accompagnate da affermazioni che la crisi stessa dimostra il bisogno di ridurre il settore pubblico. Ciò e manifestamente falso. Basta guardare la lista delle nazioni che stanno affrontando meglio la crisi. In cima alla lista troviamo nazioni con grandissimi settori pubblici, come la Svezia e l'Austria.
Invece, se guardiamo alle nazioni così ammirate dai conservatori prima della crisi, troveremo che George Osborne, ministro dello scacchiere britannico e principale architetto delle attuali politiche economiche inglesi, descriveva l'Irlanda come "un fulgido esempio del possibile". Allo stesso modo l'istituto CATO (think tank libertario americano) tesseva le lodi del basso livello di tassazione in Islanda, sperando che le altre nazioni industriali "imparino dal successo islandese".
Dunque, la corsa all'austerity in Gran Bretagna, in realtà non ha nulla a che vedere col debito e con il deficit; si tratta dell'uso del panico da deficit come scusa per smantellare i programmi sociali. Naturalmente, la stessa cosa sta succedendo negli Stati Uniti.
In tutta onestà occorre ammettere che i conservatori inglesi non sono gretti come le loro controparti americane. Non ragliano contro i mali del deficit nello stesso respiro con cui chiedono enormi tagli alle tasse dei ricchi (anche se il governo Cameron ha tagliato l'aliquota più alta in maniera significativa). E generalmente sembrano meno determinati della destra americana ad aiutare i ricchi ed a punire i poveri. Comunque, la direzione delle loro politiche è la stessa, e fondamentalmente mentono alla stessa maniera con i loro richiami all'austerity.
Ora, la grande domanda è se il fallimento evidente delle politiche di austerità porterà alla formulazione di un "piano B". Forse. La mia previsione è che se anche venissero annunciati piani di rilancio, si tratterà per lo più di aria fritta. Poiché il recupero dell'economia non è mai stato l'obiettivo; la spinta all'austerity è per usare la crisi, non per risolverla. E lo è tutt'ora.

Paul Krugman
( Premio Nobel per l’Economia )
 tradotto dal New York Times

venerdì 12 ottobre 2012

La crisi ha distrutto il welfare state e i diritti creando una società disgregata e disuguaglianze da record. Le ricette liberiste vanno sconfitte incapaci come sono a dare risposte a tale situazione. Cambiare radicalmente le politiche economiche per ridare una speranza di futuro alla nostra gente e ai nostri giovani.



 

No, non siamo la Grecia e neanche il Portogallo. Ma dalla crisi non siamo certo passati indenni. E non si tratta solo del Pil che arranca ancora faticosamente o della produzione industriale ben lontana dai livelli raggiunti qualche anno fa. Si tratta di una nuova concezione dello Stato, che lascia indietro i più deboli, le persone senza lavoro, che stentano a pagare l'affitto, sempre più penalizzate dai tagli del welfare. La crisi, insomma, ha segnato la fine dello "stato sociale europeo". E' stata la tesi conclusiva del "Rapporto sui diritti globali 2011", presentato stamane nella sede della Cgil e promosso, oltre che dal sindacato, da diverse associazioni italiane, tra le quali Arci, ActionAid, Antigone, Legambiente.

L’attacco durissimo al welfare state.
Nel 2012 la situazione è per molti versi ancor di più peggiorata. Gli Stati europei, in perfetta linea con le indicazioni dell’economia liberista che ancora domina la devastante economia globalizzata  uscita dalla “caduta del muro di Berlino”, stanno cercando di liberarsi dagli oneri derivanti dalla protezione degli strati sociali più deboli e dal mantenimento di una serie di servizi pubblici a suo tempo considerati essenziali per promuovere lo sviluppo economico-sociale e oggi ritenuti un inutile fardello.

Citando un recente libro di Luciano Gallino: "Negli ultimi cinquant'anni il modello sociale europeo ha migliorato la qualità della vita di decine di milioni di persone e ha permesso loro di credere che il destino dei figli sarebbe stato migliore di quello dei genitori. Ora il modello sociale europeo è sotto attacco nientemeno che da parte dell'Europa stessa".

 Un "passaggio epocale", dunque. Che è stato fino a poco tempo fa inosservato, sottovalutato e perfino nascosto dall’euforia liberista. E invece i segni per rendersene conto (e per cercare di fermare questa trasformazione che appare ineluttabile) ci sono tutti. I tagli abnormi sulla spesa sociale in Grecia come in Spagna e anche in Italia, per esempio. Il "Rapporto sui diritti globali" li elenca tutti, sottolineando come "dal 2008 al 2011 i dieci principali ambiti di investimento sociale hanno avuto tagli complessivi pari al 78,7%, passando da 2.527 milioni stanziati nel 2008 ai 538 milioni della legge di stabilità 2011".

I tagli alla spesa sociale .
- Il Fondo per le politiche sociali, per esempio, è passato dai 584 milioni del 2009 ai 435 del 2010 e arriverà nel 2013 ad appena 44 milioni.
- Il Fondo per la famiglia è passato dai 346,5 milioni del 2008 ai 52,5 milioni attuali (il taglio è del 71,3%).
-  Il Fondo per l'inclusione sociale degli immigrati, finanziato nel 2007 con 100 milioni dal governo Prodi, è semplicemente sparito.
-  Sparito anche il "piano straordinario di intervento per lo sviluppo del sistema territoriale dei servizi socio-educativi per la prima infanzia", che aveva avuto 446 milioni nel triennio 2007-2209.
- Stessa fine per il "Fondo per la non autosufficienza". 
- di recente il Fondo affitti per l ‘aiuto agli inquilini in difficoltà è stato di fatto azzerato e il limite max per il reddito ISEE-ERP è stato abbassato a 4000 € col risultato che quasi nessuno avrà tale opportunità d’aiuto portando tanta parte di inquilini in affitto pubblico o privato a diventare  moroso e quindi ad essere sfrattato, senza possibilità di avere altro alloggio…è probabile il ritorno alle baraccopoli, alle favelas, entro pochi anni.

Si è rotta la coesione sociale. 
Sono tagli "giustificati" in qualche modo dalla crisi? Sorprendentemente, sono in molti a pensarla così, purtroppo anche a sinistra dello schieramento politico,  perché "il welfare non è sottoposto solo ai tagli, ma anche a una crisi di consenso".. Infatti "una quota importante di italiani, anche di coloro che magari votano centrosinistra,  non vuole che il welfare sia universalistico e che ne possano fruire soggetti 'non meritevoli'". E quindi si ritiene in qualche modo legittimo che dal welfare possano essere esclusi proprio coloro che ne avrebbero più bisogno, ma che meno possono contribuire a sostenerlo.

Poveri e vulnerabili ( immeritevoli? ) in aumento.
I risultati sono sotto gli occhi di tutti, ma emergono anche dalle fredde cifre, a cominciare da quelle dell'Istat, che rileva la "povertà relativa" e quella "assoluta". La povertà relativa oscilla tra il 10,2% e l'11,4% e negli ultimi anni è stabile. Ma da un lato peggiorano le condizioni dei poveri, la loro "deprivazione", e dall'altro comunque si registra un aumento nel meridione. Aumentano inoltre i "vulnerabili", cioè i candidati a diventare i prossimi poveri. Tra loro ci sono i bambini: il 22% dei minorenni vive in condizioni di povertà relativa in Italia e 650.000 (il 5,2%) in condizioni di povertà assoluta.

Questo spesso perché i loro genitori sono cassintegrati: ha figli il 58,3% di chi usufruisce della Cig. Chi perde il lavoro nel 72% è già in una situazione difficile. Ma ci sono anche i "working poor", definizione statistica riferita a chi lavora, ma guadagna troppo poco. L'incidenza della povertà nelle famiglie con persona di riferimento occupata è dell'8,9% con oscillazioni tra il 4% del Nord e il 19,8% del Sud. Gli operai stanno peggio (il 14,9% è working poor). E ci sono persino i lavoratori "poveri assoluti", saliti al 3,6% dal 3,4% del 2008.

La casa emergenza cronica e sempre più un miraggio. 
L'Italia, si dice sempre, è il Paese dei proprietari di casa. Lo è infatti l'81,5% della popolazione. Ma dai dati del SUNIA quel 17,1% in affitto si trova spesso in grave difficoltà: l'incidenza dell'affitto sul reddito ha avuto una crescita costante e tra il 1991 ( anno dell’abolizione dell’Equo canone ) e il 2009 l'incremento dei canoni di mercato nelle grandi città metropolitane, ma la cosa è costante anche nei piccoli centri di provincia,  è stato pari al 105%. Chi sta in affitto appartiene alle fasce meno abbienti, e quindi in media il canone "brucia" il 31,2% del reddito. Non stupisce che quindi siano aumentati gli sfratti (+18,6% nel 2008 rispetto al 2007): il 78,8% sono per morosità. Spesso, poi, si trova in difficoltà anche chi ha comprato la casa ma deve sostenere il rimborso di un mutuo oneroso: i 10.281 mutui sospesi all'inizio del 2010 a fine anno erano diventati 30.868.
Ma anche il mercato delle vendite è in crisi aperta calo della capacità di risparmio per le famiglie anche del ceto medio, forte limitazione della disponibilità delle banche a concedere muti per l’acquisto soprattutto ai più giovani, perché precari o senza lavoro, perdita del lavoro e pesante riduzione dei radditi  in termini di capacità d’acquisto di chi lavora e dei pensionati, hanno immesso sul mercato oltre a caseggiati di nuova costruzione rimasti vuoti anche una gran massa di case messe in vendita proprio dalle famiglie più impoverite e in difficoltà economiche, facendo crollare la incidenza delle vendite e in parte anche dei prezzi.

Il Paese delle disuguaglianze. 
All'impoverimento dei poveri dovuto alla crisi e favorito dal "restringimento" del welfare si contrappone un miglioramento delle condizioni dei più abbienti: l'Italia è al sesto posto nella classifica Ocse della diseguaglianza sociale, ricorda il rapporto Cgil. Che elenca alcune "diseguaglianze tipo": se il salario netto medio mensile è di 1.260 euro al mese, una lavoratrice guadagna il 12% in meno; un lavoratore di una piccola impresa (e in Italia sono la stragrande maggioranza) il 18,2% in meno; un lavoratore del Mezzogiorno il 20% in meno; un immigrato il 24,7% in meno; un lavoratore a tempo determinato il 26,2% in meno; un giovane lavoratore (15-34 anni) il 27% in meno e infine un lavoratore con contratto di collaborazione il 33,3% in meno.



La ricetta possibile ed auspicabile. 
Si può imprimere una svolta alla politica economica e sociale del Paese per "tenere sui diritti", come conclude il rapporto? La proposta sembrerà a molti utopistica, e riprende quella della "Finanziaria Possibile" dell'associazione Sbilanciamoci: 40 miliardi di euro per abbattere la povertà, da ottenere da una riforma fiscale che tassi le rendite, diverse tasse di scopo a cominciare da quella sui SUV e sugli yacht, tagli alle spese militari ma anche alle "grandi opere" inutili come lo “stretto di Messina” e la TAV, e in genere da un riequilibrio e da una razionalizzazione della spesa pubblica. Per arrivare a un un reddito minimo garantito  ( basic incom ) che garantisca anche la dignità, oltre che salvaguardare "un modello sociale che ambisce alla coesione". Tutto il contrario dell’agenda Monti e delle politiche recessive di stampo liberista fin qui messe in campo in Italia e in Europa.

Ruolo del Sindacato.
Di fronte a questa pesante situazione il ruolo del sindacato, tanto più di un sindacato che voglia porsi l’obiettivo di “tenere sui diritti” non può che concentrarsi nell’ottenimento di almeno due obiettivi quello di tenere alta l’attenzione sulle conseguenze della crisi a tutti i livelli più “bassi” della società con iniziative di mobilitazione e azioni di lotta il più generali e ampie possibile e anche con strumenti che non disdegnando gli strumenti più tradizionali della storia del movimento operaio e progressista, metta in campo anche strumenti innovativi come i flash-mob, le critical-mass, le catene umane, i girotondi,gli scioperi passivi, ecc, dall’altra incentivi la ripresa di una presenza più ampia nel territorio con iniziative di riscoperta di forme di solidarietà collettiva ( dalle vecchie cooperative di consumo a km 0, alle banche di mutuo soccorso  per lo sviluppo di microcredito finanziario, dalla costituzione di gruppi di mutuo-aiuto o banche del tempo, alla ricostruzione di scuole “operaie” di quartiere. Insomma mettendo in campo una capacità di mobilitazione che sposti in avanti la battaglia dei diritii e la salvaguardia del welfare state.


Dal Rapporto 2012 di  “ SBILANCIAMOCI”
…………….Veniamo alle politiche concrete.
La più urgente, in quest'autunno caldo per l'occupazione, è una politica del lavoro che estenda gli ammortizzatori sociali ai lavoratori delle piccole e medie imprese e ai lavoratori atipici (co.pro, interinali etc.), sulla base delle norme attuali per i lavoratori delle grandi imprese (cassa integrazione e copertura fino a otto mesi all'80% dello stipendio). Altre misure potrebbero tutelare la difesa dei posti di lavoro e scoraggiare i licenziamenti.
 La seconda iniziativa concreta è un piano nazionale di «piccole opere» ambientali e sociali: ad esempio entro il 2011 si potrebbero realizzare 500 mila impianti fotovoltaici, 500 treni per i pendolari, 20 progetti di mobilità sostenibile (autobus, car sharing).
La terza iniziativa è un allargamento delle politiche di welfare, senza la carità della social card e dei bonus bebè,ma con servizi sociali pubblici che diano risposte ai bisogni insoddisfatti: 5 mila nuovi asili nido, 1000 strutture di servizio per disabili e anziani non autosufficienti, l'introduzione dei livelli minimi di assistenza, la promozione del diritto allo studio.
Per il sistema produttivo, la quarta proposta di Sbilanciamoci è di sostenerne e orientarne le attività con nuovi strumenti di politica industriale e dell'innovazione, che usino la leva della domanda e degli interventi selettivi, offrendo incentivi, accesso al credito e aiuti (con defiscalizzazioni o bonus) alle imprese che mantengono l'occupazione e assumono in modo stabile i precari.
Infine, la quinta iniziativa, contro l'impoverimento del paese, riguarda il sostegno al potere d'acquisto attraverso, ad esempio, l'introduzione della 14ma mensilità per i pensionati sotto i mille euro lordi mensili; la restituzione del fiscal drag ai lavoratori dipendenti; la reintroduzione del reddito minimo d'inserimento (cancellato di recente) per i disoccupati e chi non ha altri ammortizzatori sociali.
Fare tutto questo costerebbe 40 miliardi in due anni.
Dove trovarli?
Da nuove entrate fiscali potrebbero venirne più della metà, 21 miliardi di euro. Innanzi tutto con la lotta all'evasione fiscale, poi 8miliardi dalla tassazione delle rendite al 23%, dall'aumento dell'imposizione al 49% per i redditi oltre i 200 mila euro; dall'introduzione di tasse di scopo (SUV, diritti televisivi sullo sport, spettacolo, pubblicità, etc.). Inevitabile poi prendere un po' di risorse dove i soldi non mancano, il 10% più ricco della popolazione: qui viene proposta una tassa straordinaria per i patrimoni sopra i 5milioni di euro, con una imposizione minima del 3 per 1000. Da interventi sulla spesa pubblica attuale potrebbero venire 17 miliardi di euro. Nelle spese militari la cancellazione dell'acquisto del cacciabombardiere JSF produrrebbe un risparmio in 10 anni di 16 miliardi di euro, e la riduzione del 20% delle spese militari in due anni produrrebbe un risparmio di 6 miliardi di euro. La rinuncia al programma delle inutili grandi opere (a cominciare dal Ponte sullo Stretto di Messina) comporterebbe un risparmio di 3miliardi. Una razionalizzazione della spesa pubblica potrebbe abolire i contributi alle scuole private (1,4miliardi in due anni).
Fatti i conti, il nuovo indebitamento pubblico necessario per realizzare queste nuove politiche sarebbe modesto, appena 2 miliardi di euro. In cambio, si creerebbero centinaia di migliaia di posti di lavoro, l'economia uscirebbe dalla recessione e l'Italia sarebbe un paese un pochino migliore…………….
VITALIANO SERRA

domenica 7 ottobre 2012

Bersani-Renzi: la differenza c’è, ed é molta. Basta guardare i programmi

  

La cosa più irritante di questo dibattito sulle primarie è che non si parla dei programmi dei candidati. Si discute di regole, ricambio generazionale ma non delle idee. Eppure sia Bersani che Renzi hanno espresso proposte che meritano attenzione.
Sorprendentemente le due proposte hanno punti di contatto che non appaiono marginali: diritti civili (immigrati, convivenze, fecondazione); centralità di un’Europa politica; valorizzazione della scuola; piano straordinario per gli asili nido e l’occupazione femminile; anche nella ricetta per uscire dalla crisi ci sono elementi di contatto: sia Bersani che Renzi pensano ad un sostegno ai redditi medio-bassi, ma entrambi sono troppo timidi in merito ad un grande progetto di “redistribuzione dei redditi dai più ricchi ai più poveri”.  Ambedue fanno affidamento sulla lotta all’evasione fiscale, anche se Renzi la vede soprattutto come fenomeno trasversale di tutte le categorie sociali, mente a  mio parere andrebbe mirata a partire dai grandi evasori e dalle categorie che li esprimono di più. Curiosamente li accomuna anche l’ambizione ‘‘dirigista’’ sull’economia, in questa fase più che necessaria: puntano sulla cultura, la sostenibilità, le nuove tecnologie, il turismo, e sembrano voler rispolverare le leve della programmazione, ma non appaiono entrambi capaci di prefigurare un netto cambio di rotta strategico verso una riconversione produttiva senza più ritardi.
Andando in profondità emergono le differenze. Le due proposte partono da un’analisi diversa dei problemi dell’Italia e giungono ad una ricetta diversa. In poche parole possiamo dire che Bersani pone l’accento sulla diseguaglianza del paese, Renzi invece sul ruolo del pubblico che sarebbe un ostacolo per la crescita.
Bersani parte dal fatto (vero) che in Italia la diseguaglianza è aumentata a dismisura negli ultimi venti anni con una compressione dei salari in favore della rendita (finanziaria), una tendenza che deve essere riequilibrata tramite un innalzamento delle tutele (mercato del lavoro, accessibilità ai beni comuni) una patrimoniale e una nuova lotta alla povertà; secondo Renzi invece il vero problema è l’estensione del ruolo del pubblico, propone di abbattere drasticamente il debito pubblico via privatizzazioni e di reperire circa 70 miliardi tagliando la spesa pubblica (la cifra portata a casa da tutte le manovre Berlusconi-Monti nel 2011).
Il primo pone una maggiore equità come presupposto per la crescita via stimolo della domanda interna. Nel fare questo sottostima le controindicazioni (inflazione, calo produttività) e pone meno attenzione alle politiche per riqualificare l’apparato produttivo, che andrebbe orientato decisamente verso la green-economy e la qualità e innovazione tecnologica ( potenziando  pesantemente la ricerca )  accompagnata da un adeguato innalzamento
della produttività (liberalizzazioni mirate, semplificazioni normative ma non deregulation, etc.).
 Un ricetta, quella di Bersani,  che viene da molti anche nel centrosinistra ritenuta difficile da attuare anche perché richiede la disponibilità di risorse pubbliche che, viene detto,  non ci sono, dimenticandosi che è possibile applicare le indicazioni di Sbilanciamoci ( il sito di rilievo internazionale degli economisti “sgomenti”) che propongono invece una ricetta non liberista all’uscita dalla crisi attraverso: 
 “…… nuove entrate fiscali potrebbero venirne più della metà, 21 miliardi di euro. Innanzi tutto con la lotta all'evasione fiscale, poi 8miliardi dalla tassazione delle rendite al 23%, dall'aumento dell'imposizione al 49% per i redditi oltre i 200 mila euro; dall'introduzione di tasse di scopo (SUV, diritti televisivi sullo sport, spettacolo, pubblicità, etc.). Inevitabile poi prendere un po' di risorse dove i soldi non mancano, il 10% più ricco della popolazione: qui viene proposta una tassa straordinaria per i patrimoni sopra i 5milioni di euro, con una imposizione minima del 3 per 1000. Da interventi sulla spesa pubblica attuale potrebbero venire 17 miliardi di euro. Nelle spese militari la cancellazione dell'acquisto del cacciabombardiere JSF produrrebbe un risparmio in 10 anni di 16 miliardi di euro, e la riduzione del 20% delle spese militari in due anni produrrebbe un risparmio di 6 miliardi di euro. La rinuncia al programma delle inutili grandi opere (a cominciare dal Ponte sullo Stretto di Messina) comporterebbe un risparmio di 3miliardi. Una razionalizzazione della spesa pubblica potrebbe abolire i contributi alle scuole private (1,4miliardi in due anni )…….”.
 Renzi punta, in un classico refrain liberista, a tagliare la spesa pubblica improduttiva, a semplificare e a rendere più efficiente la pubblica  amministrazione per poi dare spazio all’iniziativa privata e al mercato. Rimane invece sullo sfondo il tema dei diritti di cittadinanza e sociali. Un progetto già proposto per l’Italia negli anni ’90 anche dal centrosinistra. Legittimo proporre questa medicina ma la proposta di Renzi sembra ignorare che uno dei limiti di quella esperienza sia stato che abbiamo disintegrato la costituzione economica del paese senza costruirne una nuova. Le parole d’ordine liberalizzazioni, privatizzazioni, semplificazioni hanno finito per indebolire le istituzioni che sono un ingrediente importantissimo per lo sviluppo.
Questa diversa visione riguarda anche il ruolo della politica. Per Bersani i partiti vanno riformati – e rafforzati -  dando attuazione all’articolo 49 della Costituzione mentre per Renzi vanno sostanzialmente disintermediati ( snaturati costituzionalmente ? ) dando spazio ad una imprecisata ( nelle forme )  partecipazione dal basso. Nel primo caso si pensa a forme di rappresentanza classica (corpi intermedi a partire dal sindacato e dall’associazionismo), nel secondo a quella diretta ( come però non lo dice ).
Si tratta di due proposte diverse, l’una fortemente ancorata nella tradizione classica socialdemocratica che vuole soprattutto parlare alla gran massa di impoveriti e in progressiva difficoltà economica e sociale ( lavoratori dipendenti, pensionati, giovani precari, piccoli e piccolissimi imprenditori  e artigiani, e l’altra che vuole parlare a quella parte illusa dal presunto “sogno berlusconiano” ora si ritrovano impoveriti e sgomenti di fronte alla distruzione delle certezze a piene mani distribuite negli ultimi 20 anni .
 La prima punta su una maggiore equità e sulla centralità del lavoro e della sua dignità vedendo nella riqualificazione ed ammodernamento dell’apparato produttivo una condizione per necessaria e ineludibile, la seconda propone di fare le due cose assieme grazie ai tagli della spesa pubblica improduttiva.
Si tratta quindi di  una sfida  reale e decisiva per il potere, e quindi di  una sfida di contenuti e di strategie che, se mal gestita, rischia di spaccare definitivamente il PD decretandone la fine. Le prime mosse con lo scontro sulle regole per le primarie non  sono buone.
Il post (Fonte: http://lamanovisibile.comunita.unita.it ) è stato pubblicato nelle sue parti non sottolineate e non in grassetto è stato pubblicato a firma Elio Barucci  come articolo sul quotidiano Europa il giorno 6.10.2012 con il titolo ”Bersani e Renzi. Non così lontani”. Io l’ho modificato nelle sue parti sottolineate in quanto lo considero impreciso e non ne condivido pienamente la filosofia che lo ha prodotto e le conclusioni a cui perviene.                                     

VITALIANO SERRA