domenica 27 aprile 2014

Il ritorno dell’insicurezza sociale

Il ritorno dell’insicurezza sociale di Robert Castel (cfr. l'introduzione di Gianvito Brindisi) Vivere l’insicurezza sociale equivale a trovarsi alla mercé di ogni minimo rischio dell’esistenza: una malattia, un incidente, un’interruzione del lavoro, un imprevisto nel corso della vita possono spezzare il fragile equilibrio della quotidianità e far precipitare nella disgrazia, se non addirittura nella rovina. Su scala storica, questa insicurezza sociale è stata la condizione ordinaria di quello che un tempo era detto il popolo. «Vivere alla giornata», dispiegare sforzi costanti per arrivare a «sbarcare il lunario», sfiancarsi al fine di «guadagnarsi il pane»… Sono stati questi, nel corso dei secoli, i problemi quotidiani di quanti non avevano che il frutto del proprio lavoro per vivere o per sopravvivere. Nessuna provvista, nessuna proprietà, nessun gruzzoletto: tutti i giorni la domanda imperiosa su come si presenterà il domani. L’insicurezza sociale è questa impossibilità di securizzare l’avvenire, poiché la padronanza di questo avvenire dipende da condizioni che ci sfuggono. Tale insicurezza sociale, che per lungo tempo ha tessuto di una trama nera la storia popolare, è stata infine combattuta e sconfitta grazie alla costituzione di uno zoccolo di risorse, di uno zoccolo che dà consistenza al presente e consente di prendere in carico l’avvenire: si tratta della sicurezza sociale. Questo zoccolo di risorse è stato in origine predisposto fondamentalmente in relazione al mondo del lavoro, poiché era la vulnerabilità della condizione del lavoratore ad alimentare principalmente l’insicurezza sociale. Ma da quando abbiamo fatto il nostro ingresso nella cosiddetta «crisi», vale a dire dai primi anni Settanta, l’insicurezza sociale è tornata. Questo ritorno è la conseguenza della fragilizzazione dei supporti (delle protezioni e dei diritti) che securizzavano il mondo del lavoro. Ma si tratta di un’insicurezza sociale nuova, a un tempo omologa e differente rispetto all’insicurezza sociale secolare che ha segnato in profondità la condizione popolare. «Vivere alla giornata» In origine, dunque, era l’insicurezza sociale. Ma non per tutti. Schematicamente, si potrebbe dire che era affare dei poveri. Ma chi sono i poveri, e qual è esattamente la relazione tra povertà e insicurezza? Per quanto riguarda la società preindustriale europea tra il XIV e il XVII secolo, gli storici sono concordi nel pensare che circa la metà della popolazione poteva essere qualificata come povera. La povertà è dunque una condizione strutturale e comune nella quale le masse popolari sono installate permanentemente. Ma si tratta anche di uno stato che può degradarsi. È possibile cioè, secondo la forte espressione di Pierre le Pesant de Boisguilbert, «mandare in rovina un povero»1 (ruiner un pauvre): ciascuno può restare, bene o male, sul filo del rasoio, ma sono sufficienti un cattivo raccolto o un inverno particolarmente rigido per generare «un forte rincaro dei prezzi» (une grande cherté), ed ecco che questo fragile equilibrio si spezza. Sébastien La Prestre de Vauban, che fu anche un attento osservatore delle sofferenze del popolo, sottolinea la stretta relazione esistente tra l’estrema vulnerabilità popolare e l’estrema fragilità dei rapporti di lavoro, ed evoca così la situazione di un rappresentante dei piccoli salariati dell’epoca, giornalieri, manovali, «gente di fatica e di braccia» (gens de peine et de bras) che in città o in campagna lottano quotidianamente per la loro sopravvivenza: «Sarà sempre difficile arrivare alla fine dell’anno. Da qui è chiaro che, per quanto poco carico debba sopportare, è necessario che soccomba»2. Dubito che si possa trovare sintesi più corretta dell’insicurezza sociale, la quale risiede proprio in questa condizione di fragilità permanente – la permanenza della precarietà – che segna il destino di una buona parte del popolo. In un primo tempo, nel XIX secolo, questa situazione non appare sostanzialmente mutata, nonostante la rivoluzione della fine del XVIII secolo abbia investito anche il campo del lavoro, con l’abolizione delle corporazioni e l’instaurazione del libero contratto di lavoro come forma obbligata della relazione salariale (il contrat de louage della forza lavoro). Ma la dissimmetria del rapporto di forza tra il datore di lavoro e l’impiegato è tale da condannare i salariati a un salario di sopravvivenza. La conseguenza è la condizione degli operai dei primi apparati industriali che ci siano noti, condizione che le descrizioni del pauperismo ci consentono di qualificare propriamente come spaventosa. I proletari perdono letteralmente la vita nel tentativo di guadagnarsela. Ma i piccoli artigiani destabilizzati dall’abolizione delle corporazioni, i lavoratori indipendenti che operano in subappalto per i commercianti, e i manovali di ogni genere che lavorano a giornata non sono messi molto meglio. I salari sono ridotti al minimo, non vi è alcuna garanzia d’impiego e i lavoratori non possono vantare alcun diritto: «L’operaio offre il suo lavoro, il padrone paga il salario convenuto, e lì finiscono le obbligazioni reciproche. Dal momento in cui [il padrone] non ha più bisogno delle sue braccia [dell’operaio], lo congeda, e sta all’operaio trarsi d’impaccio»3. L’applicazione rigorosa dei principi del liberalismo – il mercato del lavoro come mercato di ‘libera’ contrattazione – condanna impietosamente i lavoratori alle condizioni minime della sopravvivenza. Essi versano perciò in una situazione di costante insicurezza sociale, e questo stato, per la maggior parte di loro, si prolungherà per buona parte del XIX secolo. La securizzazione Come si è venuti fuori da tutto questo? Quali sono le condizioni che hanno permesso di superare questa insicurezza sociale permanente? L’aver garantito al lavoro protezioni e diritti. Ad essersi imposta con molte difficoltà, cioè, è l’idea, totalmente nuova, che la proprietà non sia l’unico antidoto all’insicurezza sociale. Che la proprietà privata rappresenti la miglior difesa contro l’insicurezza lo si sapeva da sempre. Chi ha dei beni è «coperto» contro i rischi dell’esistenza. Potrà curarsi nel caso si ammali. E spesso non avrà neanche bisogno di lavorare, o comunque potrà continuare a provvedere ai suoi bisogni e a quelli della sua famiglia nel caso pure venga a mancare il lavoro. La proprietà è un cuscino di risorse che garantisce la sicurezza e in aggiunta a ciò conferisce rispettabilità. Nel 1902 Charles Gide dichiarava: «Per quanto riguarda la classe possidente, la proprietà costituisce un’istituzione sociale che poco a poco rende le altre superflue»4. Di conseguenza, l’accesso alla proprietà è stato considerato in origine come la via regia per vincere l’insicurezza sociale. È questa, nel XIX secolo, l’opinione comune dei filantropi e delle élites politiche, di parte conservatrice o liberale, che guardano alla sorte delle «classi povere» esortandole senza sosta a quelle virtù del risparmio e della previdenza che le salveranno dalla loro miseria. Ma l’accesso alla proprietà è un’aspirazione largamente condivisa negli stessi ambienti popolari. La condizione salariale è cosi miserabile che molti operai non sognano altro che di poter comprare qualche attrezzo e fittare una botteguccia per «mettersi in proprio». Questo punto va sottolineato. Perché arrivasse a imporsi un’altra risposta rispetto all’accesso alla proprietà per vincere l’insicurezza, è stato necessario che lentamente, e non senza difficoltà, si generalizzasse la consapevolezza della sostanziale irreversibilità della condizione del salariato, essendo la sua espansione organicamente legata allo sviluppo del capitalismo industriale. Era la forma di organizzazione del lavoro a esigere un sistema di produzione comandato dal peso crescente della grande industria. Da quel momento, ci si è trovati di fronte a un dilemma: lasciare il salariato nello stato di abbandono che gli appartiene quando il lavoro è assimilato a una merce – ma è proprio così che si consentiranno l’instaurazione e lo sviluppo, nel cuore della società moderna, di quelle masse di salariati che, come dirà Karl Marx, «non hanno nulla da perdere fuorché le loro catene», con la conseguenza del sovvertimento totale dell’ordine sociale attraverso la rivoluzione –, o altrimenti consolidare la condizione salariale sino a farne uno zoccolo duro capace di procurare le risorse sufficienti per garantire la sicurezza dei lavoratori. È questa seconda soluzione a essersi imposta dopo un secolo di controversie, lotte e conflitti talvolta molto violenti. Fu come una grande rivoluzione silenziosa sfociata in quella che è stata giustamente detta «società salariale». Il lavoratore non proprietario è divenuto titolare di diritti che gli assicurano le condizioni necessarie a garantire il suo presente e a controllare il suo avvenire. Prendiamo il caso del diritto alla pensione. Prima, il futuro di chi era diventato troppo vecchio per lavorare non poteva che essere vissuto come la minaccia di un disastro, quale ad esempio finire a marcire in un ospizio per indigenti. Con il diritto alla pensione, lo stesso soggetto non vivrà certo nell’opulenza, ma disporrà quantomeno di quelle risorse minime che gli permetteranno di non dipendere da altri per soddisfare i suoi bisogni. Se dunque egli soddisfa le condizioni richieste, vale a dire se ha lavorato e ha versato i contributi per molto tempo, vi ha effettivamente diritto. È diventato proprietario di diritti. Il diritto alla pensione è solo uno degli elementi di un largo ventaglio di protezioni che saranno legate allo statuto del lavoratore: diritto alla salute, diritto all’indennizzazione in caso di incidente o di sospensione del lavoro, diritto del lavoro come fonte di garanzie contro l’arbitrio padronale etc. È così che i principali rischi della vita vengono a trovarsi «coperti», come si suol dire. La promozione di un vero statuto del lavoro ha rappresentato dunque il fondamento della costituzione di quello zoccolo di risorse che ha permesso di padroneggiare l’insicurezza sociale. Tanto che questo ventaglio di protezioni non resterà relegato al mondo del lavoro, coprendo ugualmente gli «aventi diritto» del lavoratore, vale a dire il suo universo familiare. Ma questi diritti sociali si estenderanno anche all’insieme della popolazione, costituendo la base di una «società assicurativa», com’è stata giustamente definita da François Ewald5. La risalita dell’insicurezza sociale Questa vittoria sull’insicurezza sociale, punto terminale di un lungo processo iniziato in Francia alla fine del XIX secolo, sembra imporsi nel periodo che corre dalla seconda guerra mondiale all’inizio degli anni Settanta, e costituisce il prodotto di quello che è stato definito «il compromesso sociale del capitalismo industriale». Gli interessi del capitale e delle imprese sono assicurati, come testimonia il considerevole sviluppo economico che ha caratterizzato quegli anni. In contropartita, il mondo del lavoro beneficia di estese protezioni: è la promozione di questa sicurezza sociale generalizzata. È così che l’insicurezza sociale è praticamente scomparsa, dissolvendosi in questo edificio della protezione allestito nella società salariale. Resta ai margini di questa società una sorta di sottoproletariato costituito da individui che non hanno potuto o voluto piegarsi agli obblighi di un lavoro regolare. Si parla al riguardo di un «quarto mondo», come se sussistessero delle isole di sottosviluppo che richiamano il terzo mondo e perpetuano delle forme antiche d’insicurezza sociale in seno alla modernità. Ma più in generale si pensa anche che si tratti di sopravvivenze arcaiche in via di riassorbimento con gli sviluppi del progresso economico e sociale. L’equilibrio sottile tra le esigenze del rendimento sul versante del capitale e le esigenze di sicurezza sul versante del mondo del lavoro, a cui il capitalismo industriale era alla fine pervenuto, si disferà con quella crisi che inizia a far sentire i propri effetti dopo lo shock petrolifero del 1973. Una crisi che in un primo momento è stata interpretata come un blocco temporaneo della crescita, ma di fronte alla quale si è stati poi costretti a riconoscere – e il cataclisma finanziario dell’autunno del 2008 ce l’ha di recente ricordato – come essa fosse molto più grave di una turbolenza passeggera. In realtà, si tratta di un cambiamento di regime del capitalismo stesso, vale a dire dell’uscita dal capitalismo industriale con ingresso in un regime nuovo e più aggressivo che impone una concorrenza esasperata al livello globale (globalizzazione) sotto l’egemonia del capitale finanziario internazionale. Questa dinamica impone nuovi modi di produrre e di scambiare, prendendo in contropiede quei sistemi di regolazione che, instaurati alla fine della stagione del capitalismo industriale, erano al cuore del suo compromesso sociale. Un altro modo di dire che l’insicurezza sociale fa il suo ritorno. E ritorna perché le dighe che avevano permesso di arginarla si rompono, e i diritti e le protezioni che erano stati assicurati al lavoro si indeboliscono e talvolta scompaiono. Questa insicurezza è innanzitutto la conseguenza di una profonda riconfigurazione dei rapporti di lavoro. Nel momento stesso in cui si installa la disoccupazione, la precarietà si generalizza. Da una quindicina d’anni, la categoria dei lavoratori poveri è riapparsa nel nostro paesaggio sociale. Si può di nuovo lavorare e trovarsi comunque sul filo del rasoio per provvedere ai propri bisogni e a quelli della propria famiglia. E si può anche, come nel caso dei beneficiari del reddito di solidarietà attiva (revenu de solidarité active - RSA), essere lavoratori impiegati, ma in condizioni talmente misere da necessitare allo stesso tempo di assistenza, così che per sopravvivere si dipenda dal beneficio concesso dai servizi sociali. Le frontiere tra il lavoro e l’assistenza si confondono. Si potrebbero descrivere a lungo queste situazioni che fanno sì che un numero crescente di persone si trovi nuovamente nella condizione di vivere o di sopravvivere «alla giornata». Situazioni che non sono affatto inedite, e tuttavia nuove in rapporto alla sequenza storica che ha permesso di vincere l’insicurezza sociale costruendo la sicurezza a partire dal lavoro. Poiché questa insicurezza contemporanea non è identica alla vecchia. Si tratta infatti di un’insicurezza che succede alle protezioni, che succede alla sicurezza, e perciò senza dubbio più difficile da vivere oggi rispetto a un’epoca in cui l’insicurezza sociale poteva apparire come un destino comune e in qualche modo «normale» o «naturale», in quanto associata da sempre alla condizione popolare. Ma essa è nondimeno ancora più ingiusta in una moderna società sviluppata nella quale il problema non è più quello della scarsità dei beni, come quando la sopravvivenza di una buona parte della popolazione poteva dipendere da un inverno rigido o da un cattivo raccolto. Oggi, il problema è piuttosto quello della ripartizione delle ricchezze in una società che ne produce effettivamente molte, ma – nello spirito del nuovo regime del capitalismo – giocando alla ricerca del profitto per il profitto attraverso la messa in concorrenza di tutti contro tutti. In tale prospettiva, i diritti sociali e le protezioni legate al lavoro appaiono come degli ostacoli da eliminare nella prospettiva di massimizzare la competitività delle imprese e promuovere il libero gioco del mercato. Ma questa armatura di diritti – diritto del lavoro e protezione sociale – costituiva la diga che, come dice Karl Polanyi, «addomesticava il mercato», e la sua eliminazione si paga con il ritorno dell’insicurezza sociale. Queste analisi portano così a pensare che il solo modo di combattere questo ritorno sarebbe elaborare un nuovo compromesso sociale. Un compromesso che deve essere omologo, ma differente, rispetto a quello proprio del capitalismo industriale, tra gli interessi del mercato, che bisogna certo tenere in conto se è vero (ed è vero) che siamo pur sempre in un regime capitalista, e gli interessi del mondo del lavoro misurati in termini di sicurezza e di protezione. (Traduzione dal francese di Gianvito Brindisi) Note al testo Le retour de l’insécurité sociale, in “Alternatives Economiques Hors-série”, 89 (2011), pp. 28-31. 1 Pierre le Pesant de Boisguilbert, Mémoires, citato in Correspondances des contrôleurs généraux des finances, 1874, t. 2, p. 531. 2 Sébastien La Prestre de Vauban, Projet de dîme royale (1710), 1907, p. 78. 3 Charles-Marie Tanneguy Duchatel, De la charité dans ses rapports avec l’état moral et le bien-être des classes inférieures de la société, 1829, p. 130. 4 Charles Gide, Economie sociale, 1902, p. 6.

venerdì 18 aprile 2014

L'IMPERATIVO DI JONAS PER SALVARE IL PIANETA di Barbara Spinelli

L'IMPERATIVO DI JONAS PER SALVARE IL PIANETA di Barbara Spinelli - 16 aprile 2014 - da la Repubblica ​Non si parla più di clima né di quel che accadrà della terra, da quando la crisi è entrata nelle nostre vite stravolgendole con politiche recessive, disuguaglianze indegne, e una disoccupazione che assieme alla speranza spegne l’idea stessa di futuro. La terra lesionata era il grande tema all’inizio del secolo, e d’un colpo è stata estromessa dal palcoscenico: non più male da sventare, ma incubo impalpabile. Diritto troppo immateriale e nuovo, accampato dal pianeta. Esiste invece, l’infermità della terra che l’uomo ha causato e sta accentuando: anche se è caduta fuori dal discorso pubblico, anche se è divenuta invisibile come certi malati incurabili che non vogliamo guardare da vicino, e per questo releghiamo in ospizi lontani. È come se, paradossalmente, la crisi ci avesse liberati dell’ineffabile paura che avevamo negli anni Novanta — la morte del pianeta — mettendo al suo posto tante altre paure: non meno angosciose, ma più immediate e senza rapporto con quella trepidazione non più così concreta, traslocata nelle periferie dei nostri pensieri e inquietudini. Il ritorno alla realtà, sotto forma di ennesimo allarme dell’Onu, è avvenuto domenica, con la pubblicazione del terzo rapporto della Commissione intergovernativa sul cambiamento climatico (Ipcc). Seicento scienziati di 120 paesi hanno emesso il loro verdetto: possiamo ancora cambiare la storia, ma il tempo a disposizione si accorcia fatalmente. Sembra di vivere le ultime scene del film di Lars von Trier, quando sulla terra sta per schiantarsi il pianeta chiamato Melancholia: è la depressione a darci questa strana, calma indifferenza. Per nostra incuria, e cecità, la terra continua a surriscaldarsi, e sempre più arduo sarà rispettare l’obiettivo fissato: evitare che l’aumento della temperatura superi i 2 gradi centigradi. Soglia fatidica, oltre la quale il globo è messo mortalmente in pericolo dalle emissioni di anidride carbonica e gas serra. Conosciamo quel che può seguire: scioglimento dei ghiacciai, innalzamento dei livelli marini e cancellazione di intere regioni, cibo insufficiente per l’umanità, scomparsa di foreste, estinzione massiccia di piante e specie animali. La crisi economica ha svegliato in questi anni molte coscienze, prima dormienti: sulla debolezza politica dell’Europa, su terapie di austerità rivelatesi devastanti per tanti cittadini e anche per le democrazie. Non così per quanto riguarda la prevenzione del disastro climatico, rinviata a chissà quali giorni migliori. Recessione, disoccupazione: oggi sono le nostre preoccupazioni prioritarie, ma purtroppo uniche. I cervelli si stanno abituando a lavorare a metà, quasi in preda all’emiplegia. La terra può attendere, anche se Melancholia s’avvicina. Un eminente manager pubblico, l’ex amministratore delegato dell’Eni Scaroni, è giunto sino a chiedersi pubblicamente, nel luglio scorso: «Abbiamo investito in modo dissennato nelle energie rinnovabili. Eravamo ubriachi?» E il nuovo ministro dello sviluppo, Federica Guidi, ha illustrato alla Commissione Industria qual era il suo «feeling»: quel che occorre è «la massima attenzione alla crescita sostenibile», e al tempo stesso la «rimozione degli ostacoli burocratici che impediscono sia lo sviluppo della nostra capacità di rigassificazione per beneficiare della rivoluzione del gas da argille (shale gas), sia gli investimenti privati nella ricerca e produzione di idrocarburi». Il feeling è parecchio contraddittorio: le perforazioni necessarie per estrarre shale gas mal si coniugano con l’economia verde, comportando spropositati dispendi di acqua, inquinamento delle falde e, secondo alcuni, possibili terremoti. Resta la verità attestata dai 600 scienziati. Siamo ancora rovinosamente destradipendenti da combustibili fossili. Petrolio, carbone, gas hanno contribuito per il 78% all’incremento totale di emissioni dal 1970 a 2010, e peseranno ancor più se nulla cambia. Se i paesi produttori di petrolio e gas resisteranno alle misure suggerite dall’Ipcc, se i governi non introdurranno forti tasse sull’emissione di diossido di carbonio (carbon tax), e se insisteranno nel sovvenzionare i combustibili fossili invece di investire in energie rinnovabili, riforestazione, edilizia a bassi consumi di carburanti. La Germania ad esempio emette più anidride carbonica, nonostante la svolta energetica, perché la dipendenza dal carbone si è gonfiata. Dicono che mancano i soldi, ma gli esborsi sono pochi rispetto alle spese ineluttabili quando la catastrofe sarà alle porte. Il passaggio a un’economia basata su combustibili l owcarbon costerebbe oggi 1-2 punti di ricchezza nazionale. Nel 2020 salirebbe a 4-5 punti. Diverrebbe proibitiva dopo il 2030. Dicono anche che la crescita si blocca, se fin d’ora proteggiamo la terra. È menzogna: lo sviluppo si rallenterebbe solo dello 0,06%, assicurano gli scienziati. Risale al 1979 il libro che il filosofo Hans Jonas scrisse sul Principio responsabilità, e sulla paura per la sorte terrestre: un testo avveniristico, all’epoca. È quella paura che va riesumata, senza posporla ai timori che incutono disoccupazione e crescita lenta. Non ci è dato di affrontare prima la recessione, e dopo il clima. La vera dissennatezza è non contare fino a due, non assolvere insieme i due compiti. La paura di veder perire il pianeta, e chi lo abita, è per Jonas costitutiva della responsabilità: «Non intendiamo la paura che dissuade dall’azione (lo sgomento, la paralisi, ndr) ma la paura fondata , che esorta a compierla». È una forma di amore del prossimo. O meglio, direbbe Nietzsche, di «amore del più lontano»: è trepidazione per i viventi che verranno, scudo contro la distruzione che li minaccia. Alla domanda su cosa capiterà al prossimo-lontano, se non ci prendiamo cura di lui, la replica è chiara: «Quanto più oscura risulta la risposta, tanto più nitidamente delineata è la responsabilità. Quanto più lontano nel futuro, quanto più distante dalle proprie gioie e i propri dolori, quanto meno familiare è nel suo manifestarsi ciò che va temuto, tanto più la chiarezza dell’immaginazione e la sensibilità emotiva vanno mobilitate a quello scopo». Jonas ha addirittura riformulato l’imperativo categorico di Kant. Il dovere etico-politico ordina tuttora di «agire in modo che la tua volontà possa sempre valere come principio di legislazione universale», ma si estende così: «Agisci in modo che gli effetti del tuo agire siano compatibili con la permanenza di un’autentica vita umana sulla terra». Inutile a questo punto puntellare industrie (tra cui l’automobile) che emettono veleni. La riconversione deve essere radicale, e nell’immediato comporterà sacrifici. Inizialmente ostili, Usa e Cina cominciano a capirlo. Il caso Ilva è esemplare: sacrificare la vita in cambio di posti di lavoro è alternativa funesta. La crisi economica ci insegna questo: può secernere il male o il bene. Fa riscoprire diritti irrinunciabili (il benessere, il lavoro) ma può condannare all’oblio il diritto del nuovo soggetto che è la terra. Mancano disgraziatamente le istituzioni, che tutelino ambedue i diritti. Onu e Ipcc sono organi intergovernativi, e somigliano alla Società delle Nazioni: del tutto inefficace, fra le due guerre, perché ogni Stato aveva la sua inviolabile sovranità. L’Europa fa più progressi sul clima, perché in parte già è sovranazionale. Il mondo in cui viviamo non è all’altezza dell’imperativo di Jonas. A fronte di lobby ormai transnazionali (le industrie petrolifere, ma anche il commercio d’armi, le mafie) non si erge un potere politico egualmente transnazionale, che le argini. L’ordine globale è ancora quello westphaliano escogitato nel 1648, che mise fine alle guerre di religione ma suscitò i mostri dei nazionalismi. Gli stessi mostri pronti a vanificare i moniti dell’Onu e dei suoi scienziati. - See more at: http://fondazionepintor.net/contributi/spinelli/salvareilpianeta/#sthash.5sjTlMP7.dpuf

mercoledì 2 aprile 2014

Manca il pensiero sul futuro. Intervista a Umberto Galimberti

Manca il pensiero sul futuro. Intervista a Umberto Galimberti di CARLO CROSATO su MICROMEGA aprile 2014 Come interpretare una condizione d’essere in cui prevalgono le estasi temporali del passato e del presente e manca il pensiero del futuro? Come concepire il lavoro della consulenza filosofica o il sempre più difficile rapporto fra generazioni? Questi sono solo alcuni dei temi percorsi da Umberto Galimberti in questa intervista, in cui vengono anche toccati i temi più tradizionali della sua riflessione. Nel suo L’ospite inquietante, lei sostiene che i giovani, «anche se non sempre ne sono consci, stanno male»[1]. Leggendo questa sola riga di apertura con uno spirito superficiale, si potrebbe pensare che, se uno non si accorge di star male, è proprio perché non sta male: perché allora convincerlo che sta male? I miti del nostro tempo[2], dall’altra parte, sembra sostenuto dall’idea che il malessere dell’uomo contemporaneo sia causato da una carenza di riflessione, di pensiero. Si può dunque dire che il dolore dell’uomo d’oggi è causato proprio dal non accorgersi di star male? Non direi che non si accorgono di stare male; direi piuttosto che i giovani stanno male, ma non sanno nominare il male di cui soffrono. Questa è una differenza rilevante. Dico questo, con riferimento a un incontro che ho avuto a Parigi nel 2004, con Miguel Benasayag, l’autore di L’epoca delle passioni tristi[3], il quale aveva aperto con uno psichiatria – Ghérard Schmit – uno sportello per il disagio giovanile. E ciò che l’aveva maggiormente impressionato era che i giovani si recassero allo sportello denunciando un male, ma che, se interrogati sul male di cui soffrivano, non sapevano rispondere: «non lo so», dicevano. Questo “non lo so” sta a significare che i giovani non dispongono dei nomi e tanto meno dei decorsi del dolore; e questo perché non sono arrivati a quel livello che permette di riconoscere un sentimento. Nello sviluppo psicologico, noi abbiamo sostanzialmente tre gradini da percorrere. Il primo è l’impulso, che ci è dato per natura; e chi si ferma all’impulso non si esprime con le parole, ma con i gesti: si pensi come esempio al bullismo. Il secondo livello è quello dell’emozione, ovvero della risonanza emotiva che i miei gesti e le mie parole producono dentro di me: prendiamo come esempio il noto caso di Erica e Omar, che, dopo aver ucciso la mamma e il fratellino, escono come ogni giorno per bere una birra; questo tranquillo ritorno alla quotidianità significa che il gesto compiuto non ha avuto alcuna risonanza emotiva. Il terzo e ultimo livello è quello del sentimento, che non è dato per natura, ma per cultura: tutti i popoli, dai più primitivi a quelli contemporanei, hanno raccontato miti, storie dove sono indicati nomi e percorsi sull’ordine sentimentale: per intenderci, nella mitologia greca, noi ritroviamo una fenomenologia dei sentimenti impersonati da Zeus, che è il potere, da Atena che è intelligenza, da Afrodite che è sessualità, da Apollo, la bellezza, da Dioniso, la follia, da Ares, l’aggressività, … Da questo tipo di racconti si imparano i sentimenti. Noi, oggi, non abbiamo più miti. Però abbiamo quell’immenso patrimonio, che si chiama letteratura. Un patrimonio dal quale potremmo imparare che cosa sia il dolore, che cosa sia la gioia, che cosa l’amore, la noia, il suicidio, lo spleen; un patrimonio che, però, ci permettiamo di ridurre ai minimi termini rendendolo sterile. Riduciamo la letteratura a una serie di date, di nomi contenute in un I-pad o in un computer: è chiaro che così i giovani non possono imparare i sentimenti. E quando una persona prova un sentimento, ma non sa comprenderlo, non ne sa dare un nome, vive uno stato di angoscia dovuto al non sapere di cosa stia soffrendo e il perché stia male. Il mito, la letteratura, invece, fornivano e potrebbero fornire un lessico, le parole e i paradigmi per orientarsi nello scenario emotivo, ma soprattutto sentimentale. Proprio in merito a questo tipo di accesso (mancato) al riconoscimento dell’emozione e del sentimento, vorrei porre la questione della “consulenza filosofica”, una pratica non molto conosciuta in Italia. In che cosa consiste? E in che cosa la “consulenza filosofica” differisce dal sostegno di un amico, di un prete, di uno psichiatra? L’amico parla in modo generico e in modo, appunto, amicale cerca di confortare chi sta male. Il prete ha un canone morale, in cui si orienta con riferimento a regole – di cui si parla dal pulpito – e a deroghe – di cui ci si occupa nel confessionale. L’ordine psicologico si occupa dell’apparato emotivo, nel senso che le emozioni che richiamano traumi infantili, lutti, disfacimenti di matrimonio, …, producono dei dissesti emotivi nella mente in formazione. La consulenza filosofica, invece, si occupa della cura delle idee. Se una persona ha delle idee che non sono ordinate rispetto al mondo-ambiente in cui vive, non potendo cambiare il mondo, deve in qualche modo far maturare e ratificare le proprie idee. O, detto altrimenti, se si affollano problemi di cui non si sa vedere soluzione, può giovare disegnare una geografia di questi problemi. È, a tutti gli effetti, una cura delle idee: attraverso la lettura e il commento di libri, si allarga la propria cultura; e questo significa dare alla sofferenza e alla confusione un luogo circoscritto, cioè non pervasivo di tutta la mia persona. Significa allargare il luogo di riflessione, circoscrivendo i problemi e attingendo, da un più ampio armamento culturale, gli strumenti per dar loro una risposta. Mi pare che lei stia richiamando la “capacità panoramica” di cui già scriveva Platone[4]. Mi riferisco proprio a quello. Prima faceva riferimento al mito, che oggi è assente e che quindi non fornisce più un orientamento semantico alle emozioni e alle idee. Ne parlava quindi nei termini in cui l’antropologia l’ha sempre descritto, come quell’apparato categoriale di cui le parole sono manifestazione. Lei parla dei miti anche come di bagliori di superficie che si originano dal non pensiero e, a loro volta, esimono dal pensiero. Leopardi parlava delle illusioni come indispensabili per sopravvivere all’assenza di senso[5]. I Greci parlavano di «cieche speranze»[6]. Il mito di cui lei parla, che cosa condivide e in che cosa differisce da queste due figure? Direi che con queste due figure di cui fa menzione non condivide molto. Le illusioni di Leopardi sono necessarie per vivere; e lo ribadisce anche Nietzsche: «dammi, ti prego, una maschera ancora!»[7]. Le “cieche speranze” sono quelle di cui parla il Prometeo di Eschilo, il quale aveva osato promettere agli umani che con la tecnica si sarebbe sconfitta la morte. Con la parola “mito”, io invece intendo parlare di quel modo di pensare comune, quei dettati gnotici, gli slogan televisivi, che trasmettono un “pensiero non pensato”. Un pensiero non pensato che però l’uomo comune assume, perché costituisce per lui una direzione semplice del proprio percorso di vita. Volendo fare alcuni esempi, prendiamo per prima la crescita: oggi, tutti siamo convinti che dobbiamo crescere, e assumiamo come assodato che se non c’è crescita è un disastro. Ma non ci rendiamo conto che un mondo in cui noi occidentali – che vogliamo crescere – siamo solo il 17% dell’umanità, e in cui la nostra crescita consuma 80% delle risorse del mondo, non possiamo ancora crescere! Eppure, ripeto, tutti siamo convinti che dobbiamo rilanciare la crescita. Un altro mito, che assumiamo senza rifletterci su, è quello dell’intelligenza: solitamente, quando un genitore chiede a un insegnante notizie della condotta scolastica del proprio figlio, l’insegnante risponde che il figlio è “intelligente”. Ma l’intelligenza non è un parametro misurabile; e soprattutto non è un valore univoco, le intelligenze sono molteplici: c’è un’intelligenza logico-matematica, c’è un’intelligenza artistica, c’è un’intelligenza musicale, c’è addirittura un’intelligenza corporea che permette agli sportivi di muoversi con agilità e coordinazione. Le intelligenze sono molteplici: è un mito che l’intelligenza possa essere misurata con un calcolo matematico, e la conferma ce l’abbiamo se pensiamo ai creativi, che secondo i parametri scolastici sono solo distratti, ma che poi dimostrano la straordinarietà delle loro ideazioni. Io ricordo che nelle sue lezioni sosteneva che la persona equilibrata vive nel presente con una tensione al futuro. Solo il maniacale vive rinchiuso nel presente; solo il depresso vive rinchiuso nel passato. Le vorrei chiedere: la nostra epoca, demolito il futuro, è depressa o maniacale? La nostra epoca vive davvero le sole estasi temporali del passato e del presente. La prospettiva diretta verso il passato riguarda soprattutto le persone anziane – e puntualizzo che sono solito considerare anziana una persona che ha più di cinquant’anni, ovvero l’età in cui si inizia a guardare con nostalgia al passato e si iniziano le frasi con l’espressione “ah, ai miei tempi..”. I giovani, invece, vivono nell’assoluto presente, mossi dalla convinzione che la vita è “uno stupido scherzo” e tanto vale vivere in diretta ventiquattro ore al giorno e riderci sopra. Ma vivere nell’assoluto presente è decisamente deresponsabilizzante. La responsabilità è la comprensione degli esiti che la mia azione avrà sul mio passato (personalità e reputazione) e degli effetti che avrà sul futuro: ma se per il giovane – che vive in uno stato di maniacalità – passato e futuro sono assenti, viene meno anche la responsabilità. Mentre parlava, mi tornava alla mente il «colpo di genio»[8] del Cristianesimo di cui parlava Nietzsche: il dono di un futuro di salvezza ultraterrena. Oggi, pensavo, oltre a non esserci più questa speranza nel futuro ultramondano, è stato annichilito anche il futuro mondano. Infatti, è così. E il futuro, in termini umani, non c’è più, non tanto perché non c’è un tempo fisico; ma perché non c’è una configurazione del futuro. Quando Nietzsche, nel definire il nichilismo, afferma che «manca il fine», ecco che il futuro è già infranto, è già cieco e buio. «Manca la risposta al “perché?”» [9]: ed è chiaro che se manca un progetto e manca uno scopo, manca anche la ragione per cui si è al mondo, il senso dell’esistenza. Lei denuncia il fatto che il futuro è destinato ai giovani, ma non è fattualmente in loro possesso, perché le generazioni a loro precedenti lo tengono in ostaggio. Nello scenario politico italiano, è nata da poco una compagine politica che promette di sottrarre il futuro dalle mani dei vecchi – o dei “morti”, come li chiamano – per consegnarlo alla gente. E c’è anche chi deve la propria notorietà al motto della rottamazione. La questione è: secondo lei, queste sono novità effettive e genuine nella scena politica? Restando sul secondo caso, quello della “rottamazione”, direi che nel modo di esprimersi dimostra insieme un po’ di ingenuità e un po’ di ribellismo. Però non c’è dubbio che la questione del cosiddetto “ricambio generazionale” sia effettiva. Dal momento che, grazie alla medicina, le generazioni in concorrenza non sono più due – quella dei padri e quella dei figli –, bensì tre – nonni, padri e figli –, e dal momento che il potere lo detiene la generazione più vecchia, quella dei nonni, assistiamo a una scena così organizzata: i nonni hanno il potere, i padriattendono che i nonni si facciano da parte per acquisire quel potere, mentre i figli sono i perenni giovani, considerati tali fino ai quarant’anni, che quindi possono aspettare in disparte. Ma si tratta di una situazione perversa, in cui il potere è sempre più spostato verso la vecchiaia, e che destina la società intera alla depressione. Mi spiego. Il momento creativo e ideativo è – per la psicologia evolutiva – limitato dai 15 ai 30 anni: una fascia d’età in cui il giovane può esprimere il massimo della forza biologica – e di questo, il mercato si accorge, dal momento che si fa avanti per comprare la sola biologia dei giovani –; una fascia d’età in cui il giovane può esprimere il massimo della potenza sessuale – che però non può essere riproduttiva: si vede quindi che si è formato un gap tra natura e cultura, che Maritain denunciava dicendo che la nostra cultura ha creato angeli che Dio non aveva previsto –; una fascia d’età, infine, in cui il giovane può esprimere il massimo della propria intelligenza – un matematico è tale fino ai 34 o 35 anni, dopo di ché diventa professore di matematica e i teoremi non li inventa più; i matematici non hanno un “loro” premio Nobel, perché quando toccano il loro apice creativo sono troppo giovani rispetto agli standard di quel premio. E allora, una società che si priva del massimo della potenzialità biologica, del massimo della potenza sessuale e del massimo delle capacità creative, si priva del proprio futuro, rischiando di recludersi nella depressione. Per questo sostengo che, nonostante un po’ di ingenuità, la “rottamazione” abbia un suo fondamento. Non dico che si debbano cacciare i vecchi. Dico, però, che i vecchi dovrebbero riconoscere i propri limiti e lasciare spazio alle nuove energie che avanzano. Le vorrei fare un esempio personale: quando è giunto il momento della mia pensione, mi è stata offerta la possibilità di insegnare per altri due anni; io ho rifiutato, per la consapevolezza dei miei limiti e per lasciare spazio a chi dopo di me aveva qualcosa da dire. Questo grazie allo spirito greco, che ci insegna di riconoscere i nostri limiti: «non oltrepassare il limite!» era il grande messaggio dell’oracolo di Delfi. Lei sostiene che le persone non pensano; e che non pensano anche perché non leggono. Non c’è una sorta di contraddizione performativa nel dire in libri che non si leggono libri? Quali canali si possono oggi sfruttare per raggiungere le teste e smettere di colpire la pancia? Io penso al libro come a un emblema, come un simbolo: quando leggo un libro, sono costretto ad attivare un pensiero; io sono l’autore di ogni libro che leggo. Quando leggo, interpreto; quando leggo, entro in un mondo che è altro rispetto al mio mondo. Il libro obbliga alla creazione del libro stesso che si sta leggendo. Oggi la società è inchiodata di fronte a tv e pc, dove si registrano passivamente delle impressioni: si ricevono immagini, spesso anche ad alta velocità, al punto che vengono trattenuti solo dei frammenti. Davanti alla televisione non si deve creare o immaginare; si deve solo vedere. L’immaginazione è un’operazione attiva, mentre la recezione delle immagine è pura passività: quando io vedo uno spettacolo non penso, resto semplicemente impressionato. Il pensiero non si attiva, io non invento niente all’interno di una visione. In un processo del genere, in cui spariscono i libri – come pare stia accadendo, dato che non vengono più acquistati –, sparisce anche una configurazione importante: quella dell’immaginazione e del pensiero. Il passaggio dall’uomo lettore all’uomo videns, come lo chiama Sartori[10], è un passaggio che non può lasciare indifferenti. L’unico luogo in cui si può riattivare il pensiero è la scuola. Ma evidentemente la scuola sta andando nella direzione che non è quella di capire la trasformazione dall’uomo lettore all’uomo passivo e che non è nemmeno quella di comprendere la molteplicità delle intelligenze. Ripeto, l’esempio della sostituzione dei libri con dei tablet, per me, è una tragedia: il libro può essere letto, ripassato, sottolineato, piegato, maltrattato. Il libro lo tengo tra le mani, l’I-pad chissà dov’è! Si tratta di un discorso simile a quello che si può fare riguardo la differenza tra la sessualità fisica e corporea e la sessualità virtuale.