mercoledì 17 dicembre 2014

Il conflitto redistributivo del capitale scatenato

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Il conflitto redistributivo del capitale scatenato

di ALDO CARRA   13 Dicembre 2014
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Uno sciopero generale che contribuisca ad arrestare la politica distruttiva del "capitalismo scatenato", necessaria premessa per la faticosa costruzione di un sistema economico sociale alternativo. Il manifesto, 12 dicembre 2014


Lo scio­pero gene­rale con­tro il Jobs Act e più in gene­rale con­tro la legge di sta­bi­lità, mette in luce la fal­li­men­tare poli­tica eco­no­mica del governo che asse­conda la deriva libe­ri­sta del “capi­ta­li­smo sca­te­nato”, come, una die­cina di anni fa, l’economista inglese Andrew Glynn defi­niva la nuova fase del capi­ta­li­smo. Una rispo­sta allo spo­sta­mento nella distri­bu­zione dei red­diti a favore del lavoro regi­strato negli anni sessanta-settanta.

Da allora ripri­stino della disci­plina macroe­co­no­mica, pri­va­tiz­za­zioni, inco­rag­gia­mento delle forze di mer­cato, foca­liz­za­zione delle imprese sul “valore per l’azionista” sono stati i pila­stri di una feroce con­trof­fen­siva: il con­flitto distri­bu­tivo ha cam­biato segno, e, per l’effetto con­giunto di minore e peg­giore occu­pa­zione e di più bassi salari reali, la quota di red­dito che va al lavoro è costan­te­mente diminuita.

Quell’offensiva del capi­tale, che oggi tocca livelli prima impen­sa­bili in Ita­lia, non si limita a ripor­tare indie­tro le lan­cette della sto­ria per tor­nare alla situa­zione pre­e­si­stente. Se così pro­ce­des­sero i pro­cessi sto­rici tro­ve­rebbe legit­ti­mità la teo­ria del pen­dolo: uno spo­sta­mento dei rap­porti di potere ecces­sivo ad un certo punto si ferma e si met­tono in moto le forze che spin­gono in dire­zione con­tra­ria. Così si potreb­bero leg­gere, in que­sto caso, la rispo­sta del capi­tale di cui abbiamo par­lato e quella che oggi cerca di dare il sin­da­cato anche con lo scio­pero. Ma la situa­zione reale è molto più com­plessa per­ché negli ultimi decenni è cam­biato il mondo ed è cam­biato lo stesso capitalismo.

La glo­ba­liz­za­zione, la con­nessa Ascesa della finanza — titolo que­sto di un bel­lis­simo e pre­veg­gente libro del caro Sil­vano Andriani recen­te­mente scom­parso — e, più di recente, la rivo­lu­zione digi­tale hanno deli­neato un capi­ta­li­smo che ha fatto un enorme salto di qua­lità. In que­sta nuova fase di un capi­ta­li­smo per il quale non tro­viamo ancora una deno­mi­na­zione con­di­visa – oscil­lando dal finan­z­ca­pi­ta­li­smo di Gal­lino al capi­ta­li­smo patri­mo­niale di Piketty – gli ele­menti che emer­gono sono due.

Il primo è costi­tuito dalla glo­ba­liz­za­zione del mer­cato del lavoro che mette in com­pe­ti­zione, in ter­mini di costo, il lavoro delle eco­no­mie svi­lup­pate con quello delle eco­no­mie emer­genti. Gli effetti di que­sta nuova com­pe­ti­zione sono bidi­re­zio­nali: da un lato si spo­sta la pro­du­zione dai paesi ad ele­vato costo del lavoro verso quelli a costo più basso, dall’altro i lavo­ra­tori delle aree più arre­trate emi­grano nelle aree svi­lup­pate per fare i lavori più pesanti ed a con­di­zioni rifiu­tate dai resi­denti. L’effetto di que­sti pro­cessi sul con­flitto distri­bu­tivo è, per i paesi svi­lup­pati, quello di un abbas­sa­mento dei salari e di una ridu­zione dei diritti. Il secondo ele­mento che carat­te­rizza que­sta fase è la rivo­lu­zione digi­tale che ha già inve­stito pesan­te­mente la pro­du­zione mani­fat­tu­riera e che inve­stirà sem­pre di più i set­tori del com­mer­cio e dei ser­vizi, pub­blici e pri­vati, ridu­cendo la quan­tità di lavoro neces­sa­ria e modi­fi­cando pro­fon­da­mente, con­te­nuti e moda­lità della pre­sta­zione lavorativa.

I due ele­menti segna­lati si intrec­ciano tra di loro, e con­tri­bui­scono allo stesso pro­cesso: una sva­lu­ta­zione del lavoro impen­sa­bile fino a pochi anni fa che si mani­fe­sta a livello sovra­na­zio­nale ed agi­sce su un ter­reno senza regole come quello finan­zia­rio nel quale il capi­ta­li­smo sca­te­nato è diven­tato sfug­gente ed inaf­fer­ra­bile. I pro­cessi di cui stiamo par­lando non sono ancora com­piuti, ma in pieno svol­gi­mento e, quindi, le situa­zioni che si vivono nei vari paesi sono dif­fe­ren­ziate secondo le loro sto­rie e secondo le moda­lità con le quali si stanno affron­tando i pro­cessi stessi.

Non è un caso che l’area dei paesi svi­lup­pati si arti­coli in tre gruppi: eco­no­mie che si affac­ciano verso una pos­si­bile nuova fase di cre­scita come gli Usa, eco­no­mie che hanno supe­rato la crisi anche se non hanno ritro­vato il sen­tiero della cre­scita come Ger­ma­nia e Nord Europa, eco­no­mie che rista­gnano ed indie­treg­giano. Que­sto signi­fica che, pur di fronte ad una comune con­trof­fen­siva del capi­tale, non è ine­lut­ta­bile che i paesi più svi­lup­pati subi­scano con­tem­po­ra­nea­mente ridu­zioni del lavoro, ridu­zioni dei diritti ed inde­bo­li­mento e declino delle strut­ture pro­dut­tive. Un mix que­sto che può essere vera­mente esplo­sivo. L’Italia si col­loca nel terzo gruppo ed è sulla soglia di un’esplosione sociale.

Lo scon­tro che la agita oggi, pro­ta­go­ni­sti Cgil, Uil e governo si col­loca in que­sto con­te­sto e la par­tita appare deci­siva per il nostro futuro. Se è vero che siamo in mezzo ad una muta­zione che supera i con­fini nazio­nali è anche vero che le moda­lità scelte dal nostro governo sono di ras­se­gna­zione, al di la delle chiac­chiere su spe­ranze e futuro, ad un ridi­men­sio­na­mento di lavoro, diritti e futuro produttivo.

Aver fatto della subor­di­na­zione alle logi­che con­fin­du­striali e dello scon­tro col sin­da­cato il perno delle poli­ti­che del governo ci sta cac­ciando in un vicolo cieco. In Ita­lia non dob­biamo dimen­ti­care che, a parte alcune isole felici di una parte dell’imprenditoria che ha saputo inve­stire, inno­vare ed espor­tare, le ricette del pas­sato (con­te­ni­mento del costo del lavoro e sva­lu­ta­zioni com­pe­ti­tive), non hanno aiu­tato il capi­ta­li­smo ita­liano a cre­scere pun­tando sull’innovazione, sulla ricerca e sull’aumento della dimen­sione di impresa. Anche per que­sto, quello che abbiamo oggi di fronte è un capi­ta­li­smo indu­striale che sa solo chie­dere più libertà di licen­ziare, meno tasse, pri­va­tiz­za­zioni per fare inve­sti­menti sicuri e grandi opere nelle quali lucrare; un capi­ta­li­smo inca­pace di pro­get­tare una pos­si­bile poli­tica indu­striale di inve­sti­menti, di ricerca, di nuovi rap­porti pro­du­zione – uni­ver­sità — ricerca…

Que­sto capi­ta­li­smo non andrebbe coc­co­lato con un po’ di spic­cioli elar­giti a piog­gia accon­ten­tan­dolo e facendo copia/incolla delle sue ricette, ma sti­mo­lato e sfi­dato a fare un salto di qua­lità. Certo que­sto richie­de­rebbe un governo con una capa­cità pro­get­tuale, con un piano dei tra­sporti e della mobi­lità, con un piano di risa­na­mento ambien­tale e del ter­ri­to­rio, con un piano indu­striale ed una visione dei set­tori del futuro.

Ed invece noi abbiamo di fronte una classe indu­striale ed un governo asso­lu­ta­mente ina­de­guati alle sfide del nostro tempo. E’ in que­sto qua­dro che si col­loca lo scio­pero del 12. Per la com­ples­sità dei pro­blemi di cui abbiamo par­lato, non pos­siamo e non dob­biamo illu­derci che con esso si possa fare il mira­colo di capo­vol­gere que­sta situa­zione. Ma la “poli­tica” di que­sto governo e la sua “non poli­tica” vanno con­tra­state e fer­mate. Fare que­sto sarebbe già tanto ed una buona riu­scita delle mobi­li­ta­zioni di oggi è per que­sto essen­ziale. Impor­tante sarà, però, soprat­tutto il dopo.

Sarà quello che acca­drà nel Pd e quello che acca­drà a sini­stra. Un futuro vicino, ad oggi impre­ve­di­bile, la cui dire­zione più o meno a sini­stra dipen­derà sì dall’esito dello scio­pero, ma soprat­tutto da come sapremo rico­struire un pen­siero di sini­stra volto al futuro più che al pas­sato. Ma que­sto, in tempi di cor­ru­zioni – dege­ne­ra­zione — eva­po­ra­zione dei par­titi — asten­sio­ni­smo dila­gante, è pro­prio un altro capitolo

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