mercoledì 15 ottobre 2014

Tutti i limiti del Jobs Act del PD di Renzi.



Caro Gianni, appena rientrato dalla bella Toscana ( nonostante Matteo Renzi )ho ultimato di vedere i materiali del PD che hai inviato nei giorni passati e spero di fornire a te e a tutti quelli che hanno sopportazione delle mie lunghe tiritere, una mia esauriente chiarificazione di questo spinosissimo tema.
Quali sono gli effetti del provvedimento approvato nella drammatica direzione del Pd. E perché a mio parere sanciscono se ce ne fosse ancora stato bisogno la netta e drastica rottura di una concezione ancorché minimamente di sinistra ( ed intendo come sarebbe ovvio pensare di sinistra perché guidato da un ideale socialista e non meramente liberale come artificiosamente fa Fassino – quello che nel 2007 ci diceva che “non arrotoleremo le nostre bandiere" - nella sua sorprendente intervista tra i materiali di cui sopra – ma ormai non mi sorprende più nulla del PD - ) del e nel Partito che fu Democratico. E su cui invito tutti/e a riflettere con grande attenzione.
La paventata scissione tra maggioranza e minoranza del partito non si è materializzata e il documento presentato da Renzi ha potuto contare su 130 voti favorevoli contro 11 astenuti e 20 contrari. La durezza dei toni usati da esponenti del calibro di Pierluigi Bersani e Massimo D’Alema, i quali sono sembrati colpiti più dal metodo del segretario che non dal merito del documento presentato, ha messo in luce i tratti di uno scenario da fine corsa per coloro che si consideravano i padri nobili della socialdemocrazia italiana.
Di fronte ai loro occhi si è consumato un dibattito alla fine del quale fra un tecnicismo e qualche distinguo è stato approvato un documento che solo qualche anno fa sarebbe stato impensabile discutere nella direzione di quel partito. Il rovesciamento di natura quasi antropologica operato da Renzi ha visto, tra le altre cose, l’inscrizione del diritto di licenziare (liberamente e senza perdere tempo con giudici e tribunali) tra le stelle polari del nuovo corso democratico. Si è dunque completato quel percorso dal sapore blairiano che, avviato nella seconda metà degli anni 90 dalla stessa vecchia guardia - D’Alema anzitutto - che ieri gettava strali sul segretario, ha portato all’eliminazione di qualunque residuo di cultura laburista ancora presente nel Pd.
Ma vediamo che provvedimento è uscito dalla direzione e quali sono stati i principali oggetti del contendere tra maggioranza e minoranza del Pd.
A soli due anni dal pesante intervento con cui l’ex ministro Fornero, con l’appoggio determinante del PD pre renziano, cominciò lo svuotamento, di fatto, dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori (rendendo il licenziamento per motivi economici parte di quella fattispecie definita dal legislatore “giusta causa” o “giustificato motivo oggettivo”) la delega nelle mani del governo prevede un ulteriore accelerazione sul piano della deregolamentazione del mercato del lavoro. L’introduzione del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, che andrebbe immediatamente a regime senza passare per alcuna fase sperimentale, coinciderà con l’eliminazione di qualunque possibilità di applicazione dell’articolo 18 ad eccezione dei casi di discriminazione (strumento retoricamente e sistematicamente utilizzato da chi vuole superare le regole di tutela della stabilità dei rapporti di lavoro, senza avere idea di quanto sia difficile provare la natura discriminatoria di un recesso) o di licenziamento per motivi disciplinari (rispetto ai quali il segretario intende confrontarsi con i sindacati) in cui la reintegra sarebbe ancora prevista.
In questi casi solo la perfetta ignoranza dei reali rapporti di forza tra padroni/ datori di lavoro e lavoratori, tanto più se nella miriade di piccole e medie fabbriche italiane, può non far comprendere cosa succederà ( ma succede già oggi senza la necessità di altre leggi in proposito ). Basta chiedere ai molti lavoratori di piccole aziendine ( tranne qualche solita eccezione controcorrente ) quale sia il livello dei rapporti. “Se ti va bene è così se non fuori dalle balle”. La tiritera che ai datori di lavoro dispiace licenziare è francamente più vicina alle teorie deamicisiane da “libro cuore” che alla vera e pura realtà. Vessazioni, demansionamenti senza regole, versamento dei salari un tanto al chilo, lavori extra in nero, contratti fantasma, ecc. ecc. sono la norma e risulta facilissimo mettere il proprio lavoratore indigesto nelle condizioni di dover andarsene con le proprie gambe ( nei settori dell’edilizia, dei servizi, del commercio al dettaglio, e non solo si verificano ormai quotidiani soprusi che una volta quando la sinistra e il sindacato erano forti e seppure presenti in gran parte solo nelle medie e grandi aziende anche nelle piccole fabbriche ci stavano un po’ più attenti nell’attuare ).

Con questo tipo di contratto, entro i primi 3 anni, il lavoratore potrà essere licenziato in qualsiasi momento con un indennizzo proporzionale all’anzianità di servizio, quindi con una miseria di buonuscita, e senza quindi il reintegro. E la tutela del reintegro sembra essere esclusa anche alla fine del periodo, visto che il testo, non a caso, non ne parla in modo esplicito. Su questo punto c’è stato chi, come Massimo D’Alema, in un sussulto d’orgoglio ha provato a ricordare la disparità delle forze in campo tra padroni e lavoratori ma, l’aver osato utilizzare un appellativo simile per definire gli imprenditori, gli è valso l’ennesima accusa di passatismo e di scarso contatto con l’attuale realtà del Partito che fu democratico. Cesare Damiano, presidente democratico della Commissione lavoro della Camera, ha tentato di riportare la discussione su un piano di buonsenso ricordando che la reintegra è contenuta, esattamente come in Italia, in quasi tutti gli ordinamenti giuridici europei compreso quello tedesco dove essa ha addirittura un applicazione più ampia includendo le imprese a partire dai dieci dipendenti. Ma nulla è stato recepito ( e ci mancava altro ).

La delega prevede, inoltre, una revisione della disciplina delle mansioni contenuta oggi nell’articolo 13 dello Statuto. Con questa norma si aprirebbe la strada, riportando le lancette dell’orologio indietro di più di quaranta anni, alla possibilità di demansionamento del lavoratore (con le ovvie conseguenze in termini di riduzione del salario- si perché vuoi vedere cosa succederà quando altri lavoratori nella stessa mansione prenderanno meno salario di quelli che eventualmente saranno demansionati a fare quel tipo di lavoro ) in caso di riorganizzazione, ristrutturazione o conversione aziendale. Questo punto della delega è di fatto un enorme incremento del potere ricattatorio del datore di lavoro. Tuttavia, in un mercato del lavoro come quello immaginato da Renzi dove “l’imprenditore è un lavoratore” e nessuno dovrebbe avere interesse a ricattare l’altro, tutti (quelli appartenenti al fortunato e sempre più esclusivo mondo degli occupati) saranno felici di cooperare per aumentare produttività e benessere collettivo. Si spera, ma il mondo delle meraviglie esiste solo nel paese di Crozza.

Con la revisione della disciplina dei controlli a distanza si va invece verso quel futuro fatto di tecnologia e innovazione tanto caro al Presidente del Consiglio. L’uso della tecnologia previsto dal Jobs Act, tuttavia, non sembra essere legato alla volontà di migliorare le condizioni di lavoro o di ridurre i rischi per la salute e la sicurezza dei lavoratori come sarebbe auspicabile visti i drammatici dati sugli incidenti e le morti sul lavoro nel nostro paese. Al contrario, la delega prevede la rimodulazione della norma che oggi vieta il controllo dei lavoratori a distanza tramite videocamere o altri sistemi elettronici consentendo di fatto ai datori di lavoro di spiare a distanza i lavoratori, con evidenti ricadute etiche e disciplinari.

A proposito di ammortizzatori sociali poi occorre segnalare che la legge delega non potrà essere a costo 0 come preconizzano tutti gli interventi dell’assemblea di Area Dem di cui stiamo trattando, da Mirabelli, alla Parente, da Fiano a Fassino. La delega al di là di ribadire – come ha fatto il ministro Poletti - che per ora ci sono solo le risorse derivanti dall’abolizione della CIG in deroga con un capitolo di spesa che non supera 1,5 miliardi di euro l’anno, quando tutti sanno che ce ne vorrebbero almeno 23 di miliardi.
La parte meno indigesta e, per questo, maggiormente pubblicizzata della delega al governo prevede: l’istituzione di un sistema universale di ammortizzatori sociali, l’introduzione di un salario minimo per i lavoratori non interessati dalla contrattazione collettiva nazionale e il disboscamento della selva di contratti precari che lo stesso Partito Democratico ha contributo ad ampliare nel corso degli ultimi venti anni. Per quanto riguarda la volontà di istituire una rete di ammortizzatori sociali attraverso cui, come affermato da Renzi, “Lo Stato si occuperà di qualunque lavoratore che perda il proprio posto di lavoro”, la contraddizione con i piani di riduzione della spesa pubblica (ad oggi le risorse previste da Renzi per questo capitolo di spesa sono pari a un miliardo e mezzo di euro) e ciò che ci aspetta con l’adozione del Fiscal Compact è a dir poco macroscopica. Almeno su questo punto, vi è stata la manifestazione di una forte preoccupazione da parte della maggioranza degli intervenuti in direzione ( D’Alema su tutti ).

Relativamente alla volontà di istituire un “compenso orario minimo per il lavoro subordinato e le collaborazioni coordinate e continuative” la misura è, in linea teorica, da salutare positivamente. Tuttavia, viene chiarito sin da subito che sarà soltanto per quei settori dove non si applica il contratto nazionale e quindi, di fatto, del tutto scollegato da questi. In una fase in cui a detta di molti anche il Contratto Collettivo Nazionale è da annoverare tra le cause di tutti i malanni economici che affliggono il paese, il compenso minimo previsto dal Jobs Act rischia di essere un nuovo strumento per scardinare definitivamente gli stessi contratti nazionali.

La vaghezza della delega in merito alla riduzione delle forme contrattuali para-subordinate non dà molte certezze da questo punto di vista. In realtà, non vi è alcuna garanzia in merito all’abrogazione del tempo determinato, del contratto di somministrazione o delle forme para-subordinate più utilizzate dalle imprese che si opporrebbero immediatamente se vedessero messe a rischio quelle forme contrattuali che oggi garantiscono loro i più ampi spazi di potere e libertà.
E temo che non si fermino neppure qui, già è partita la grancassa mediatica sulle troppe assenze per malattia ( con la puntualizzazione che troppe richieste di malattia si hanno nella giornata di lunedi ) e come sempre succede in questi casi prima o poi punteranno all’abolizione della malattia in alcuni giorni per poi tentare di rivedere, in nome della produttività e della moralizzazione ( dei lavoratori ovviamente non delle corruttele padronali ), il tutto ovviamente per tutelare i giovani e dargli un futuro ( si da schiavi ).

Quel che colpisce, per concludere, è che gli stessi che oggi si stracciano le vesti, hanno contribuito alla costruzione di quella malintesa cultura liberal in virtù della quale si sancisce l’uguaglianza tra diseguali o, se si preferisce, si garantisce la tanto cara “eguaglianza delle opportunità” e della “meritocrazia” a chi parte con dotazioni iniziali distanti anni luce.

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