venerdì 5 giugno 2015

Marco Dotti: Una testa ben piena o una testa ben fatta?

Marco Dotti: Una testa ben piena o una testa ben fatta?

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Una testa ben piena o una testa ben fatta?

Il terzo istruito di Michel Serres

di Marco Dotti

l450xh300 png l450xh300 pnglib ecole 99ccd 29eb2Nel ventiseiesimo capitolo del primo libro dei Saggi,Michel de Montaigne scriveva: «Non c’è ragazzo delle classi medie che non possa dirsi più sapiente di me, che non so nemmeno quanto basta a interrogarlo sulla sua prima lezione».  Che cosa accadrebbe, si chiedeva Montaigne, se a quella lezione si fosse in qualche modo costretti? Non ci si troverebbe – «assai scioccamente», puntualizzava – vincolati a una costrizione ancora più grande? Non saremmo costretti a servirci di «qualche argomento di discorso più generale, in base al quale esaminare l’ingegno naturale dei ragazzi: lezione sconosciuta tanto a loro quanto a me»? Il saggio che Montaigne pone al centro della sua idea di educazione è ricordato soprattutto per un’altra affermazione, che ha assunto il ruolo di massima e come ogni massima ha subito il non sempre fausto destino di essere più citata, che compresa. Montaigne affermava, infatti, che è meglio una testa ben fatta, che una testa ben piena.
Parlando di «tête bien faite» e contrapponendola alla «tête bien pleine» intendeva riferirsi prima di tutti al precettore, all’insegnante e, per estensione, anche al ragazzo che dovrebbe essere assecondato nel desiderio. Altrimenti, scrive, concludendo la propria dissertazione, «non si fanno che asini carichi di libri». Ma che cos’è un «asino carico di libri»? Che cos’è, oggi? E che cosa significa, sempre oggi, nell’educazione, nell’istruzione e nella ricerca, in sostanza nella scuola e nella società, puntare a una «tête bien faite»?
Abbozzare l’ennesima riforma? Rattoppare ciò che il moderno ha lacerato? Lacerare ciò che di poco moderno vediamo? Oppure “investire in innovazione” – espressione sempre in voga e sempre al limite del patetico – quel tanto che basta per contenere le proprie paure? Quali paure? La paura di non incontrare quel “terzo” – i cui desideri sono poco o nulla decodificabili, finché ci si serve di un discorso binario, basato sulla logica “io-altro” – che sono, oramai, i ragazzi? Paura di non incontrare o di incontrare un terzo che supponiamo possa presentarci il conto? Se il mondo che abitiamo è sempre più ostile, allora tutti i nostri sforzi anche educativi non sono configurabili come tappe propedeutiche all’invisibilità presente e futura? È di questo che abbiamo paura?
Le domande le pone Michel Serres, nel suo ultimo libro, Non è un mondo per vecchi. Perché i ragazzi rivoluzionano il sapere (trad. di Gaspare Polizzi, Bollati-Boringhieri 2013). Serres ricorda che quello tra «tête bien faite» e «tête bien pleine», almeno ai tempi di Montaigne, è ancora un rapporto, una dialettica seppure incrinata, non una vera opposizione. Se il filosofo nato a Bordeaux nel 1533 – agli albori dell’era Gutenberg – si fosse trovato a spiegare in che modo una testa può divenire “ben fatta”, osserva Serres, sarebbe stato costretto a disegnare «uno scomparto da riempiere», magari con meno “cose”, magari con più idee, magari con altre modalità e relazioni, ma è chiaro che prima o dopo «si sarebbe riaffacciata la testa piena».
In questo, il nostro assertore della testa ben fatta, si sarebbe ritrovato come quel Boucicaut che riempiendo gli scaffali del suo supermercato, dopo l’iniziale successo aveva visto cadere la curva dei propri affari. Sappiamo però – e lo sappiamo da Emile Zola, che nel 1883 lo pose al centro del suo undicesimo romanzo, Au Bonheur des dames – che il mercante Aristide Boucicaut semplicemente cambiando la disposizione delle proprie mercanzie, realizzando corridoi disposti come un labirinto intercettò un desiderio che andava al di là del semplice spettacolo della merce e risollevò i propri commerci. Commercio a parte, conclude Serres, la lezione da trarre è che l’ordine può ingabbiare: favorisce il movimento, ma poi lo raggela. Il caos, il disparato possiedono virtù che la ragione non conosce.  Ci troviamo esattamente a questo punto, sospesi tra un ordine che impedisce il movimento e un movimento senza conformazione d’ordine.
Senza ordine, è chiaro, cambia la memoria. Senza lettura, certi neuroni non si attivano, ma altri entrano per la prima volta in movimento. Cambia la memoria perché cambia un mondo, così come cambiò ai tempi di Montaigne, quando nessuno storico si sarebbe più sognato di conoscere Tucidide o Tacito par cœur: bastava un’economia dello spazio, che permettesse di individuare luoghi e scaffalature del volume. Costruiti archivi (relativamente) accessibili, ritenere in qualche luogo della carne o dei nervi il contenuto del volume equivaleva a produrre una sorta di ingorgo connettivo (la testa ben piena) o a praticare una prova di forza sugli altri e su di sé. Oggi, questa testa ben fatta, forse, la si rappresenterebbe indicando un palmare, un computer, uno smartphone o un tablet e la capacità di usarli «in maniera intelligente». Anche questa espressione, «in maniera intelligente», rischia di essere fuorviante. Interpretiamo il mondo delle nuove tecnologie servendoci di quanto a Montaigne serviva per criticare il vecchio mondo delle mnemotecniche e delle retoriche: la pagina.
«Il formato-pagina», scrive Serres, «ci domina al punto, e lo fa così a nostra insaputa, che le nuove tecnologie non ne sono ancora uscite. Mentre gli innovatori di ogni genere inseguono il libro elettronico, l’elettronica non si è ancora liberata del libro, anche se coinvolge tutt’altro che il libro e il formato transtorico della pagina».
Serres non è un profeta di smaterializzazioni prossime o future. Si attesta su una faglia e ne coglie gli slittamenti con una scrittura evocativa, ma mai inaccessibile. Risale a ventidue anni fa la pubblicazione del suo lavoro più specificamente dedicato all’educazione, Le tiers instruit, tradotto in Italia per i tipi di Marsilio col titolo Il mantello di Arlecchino. Il “terzo istruito: l’educazione dell’età futura. Il libro sul “terzo” era diviso in tre parti, rispettivamente dedicate all’allevare (nella risonanza del termine, il  francese élever rende meno grezza l’idea), istruire e educare. Oggi, in qualche modo, l’idea di apprendimento come metissage e ibridazione, di educazione come costituzione di un “terzo” diverso sia dall’ “uno” che dall’ “altro”, sembrano confermarsi nelle cose. Serres riprende così la propria idea della necessità di osservare questo “terzo” che “si” istruisce con un bricolage che ricorda il mantello di Arlecchino, aprendosi al mondo, consegnandosi a un’avventura continua e a una continua mutazione. Una mutazione dolce che ci vede vivere assieme «in quanto figli del libro e nipoti della scrittura». Questo guardando indietro, osservando le origini. Ma guardando avanti?
Per osservare bene, non bisogna avere paura e ricadere nel vizio epistemologico di riempire un vuoto. A detta dell’autore francese, da trent’anni docente a Stanford e da sempre sostenitore del libero accesso in rete, è proprio qui la questione da dirimere e le domande di prima ne presuppongono un’altra: perché abbiamo paura del vuoto? Perché siamo colti da quest’ansia di sostituzione? Serres racconta allora una storia, tratta dalla Leggenda aurea di Jacopo da Varagine. Anche questa è una storia nota, ma nell’economia della sua riflessione serve per esemplificare al meglio il punto in cui ci troviamo e da cui, anche a partire da vecchie questioni come quella à la Montaigne, originano diramazioni impreviste che talvolta svuotano le precedenti, talvolta le caricano di nuovi significati. Accanto alla testa ben fatta e alla testa ben piena, Serres ricorda la testa mozzata di Dionigi, primo vescovo di Lutetia – Parigi –  nel Terzo secolo. Catturato, torturato, infine condannato a salire sulla sommità di una collina che oggi conosciamo col nome di Montmartre, Dionigi venne decapitato a metà della salita.
Svogliati e stanchi, i soldati rinunciarono a compiere per intero il percorso e comminarono la pena a mezza via. Ma Dionigi si rialzò, prese in mano la propria testa, e camminò fino alla cima.
A questa dimensione acefala, non sostitutiva ma costitutiva del sapere guarda con attenzione Michel Serres. Quando la ragazzina a cui idealmente ci si rivolge e dà il titolo originale al libro – Pollicina o Petite-Poucette, anche qui in un gioco sull’abilità di scrivere su supporti mobili servendosi del pollice – accende il proprio computer, ha sia una testa ben piena, per l’enorme e sconcertante riserva di informazioni a cui può attingere, sia una testa ben fatta, per il surplus di intelligenza e velocità che le connessioni permettono. Ma ha anche una dimensione “altra”, perché la sua testa, o le sue due teste, Pollicina le tiene fuori di sé. Siamo tutti come la ragazzina di Serres che, per vivere in un mondo inevitabilmente “decollato”, è costretta a diventare intelligente.
Ragazzi, giovani, adolescenti: termini mobili, si dirà, soprattutto in un paese che alternativamente considera “giovane” un presidente del consiglio di 47 anni e “vecchio” un laureato di 27. Ma anche qui è Serres a puntualizzare, in un altro libro, Genesi (Il Melangolo, 1988) che cosa intenda con questa categoria.
«Non crediate che la giovinezza abbia la pelle vergine e il viso liscio per delle semplici ragioni biochimiche. Queste stesse ragioni hanno le loro ragioni. Più il corpo è giovane e più è capace del multiplo». È nello spazio sempre più dilatato di questo multiplo, oltre i confini di un banale tempo cronologico, che  Serres colloca il proprio progetto. Si può dissentire, ma non è un’idea da poco.

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