giovedì 14 febbraio 2013

IL MIO LAVORO TRA LA LA GENTE DEI QUARTIERI POPOLARI

IL MIO LAVORO TRA LA GENTE
“Ultima mansione: Building Manager dell’ALER milanese, in realtà Operatore Sociale ( ma anche  per oltre 10 anni sindacalista del SUNIA  e CGIL e responsabile regionale del settore ERP ) in contesti dove oltre al sapere tecnico e amministrativo occorre avere sensibilità umana e una cultura sociale, con mezzi scarsi,risorse minime, e poteri inesistenti. Resta il privilegio di una grande esperienza umana e professionale, tra tanto “popolo” con tanti problemi, ingiustamente ritenuto marginale. Esperienza che  il 30 marzo 2010 si chiude con il mio pensionamento  a conclusione di un percorso di  oltre  41 anni di lavoro iniziato all’età di 16 anni e 1/2”

NEI LUOGHI DEL DISAGIO METROPOLITANO

LA MIA ESPERIENZA TRA GLI ABITANTI DELLE

 CASE POPOLARI DI MILANO E PROVINCIA

Il documento che segue questo mio, pur datato, é un diario di bordo della prima lunga e significativa parte dell’importante esperienza di realizzazione di un Contratto di Quartiere ( metodologia innovativa nata e non a caso negli anni del Governo dell’Ulivo tra il 1996 e il 2000 e frutto di una unità d’azione dei vari livelli istituzionali ( Ministero, Regione Provincia, Comune e ALER con il protagonismo sociale di base e intermedio (associazioni degli inquilini, comitati, sindacati e parrocchie, ecc. ).
Io sono giunto ad assumermi responsabilità operative per l’ALER milanese in un contesto di Contratto di Quartiere – CdQ -  ( ameno quello riguardante il Q.re S.Eusebio ) già nella fase terminale per quanto attiene il risanamento manutentivo segnato da importanti successi che hanno in parte trasformato l’immagine del quartiere.
Oggi siamo nella fase di partenza del secondo CdQ riguardante le 5 Torri di Via del Carroccio. Inoltre seguo il CdQ di Cernusco s/N alla Melghera-Via Don Sturzo ( 192 nuclei familiari ). Realtà diverse ma legate dall’essere la casa di tanti cittadini a basso reddito e spesso soggetti con problematiche sociali anche gravi. Non è la prima volta che mi occupo di realtà popolari, quando era sindacalista del SUNIA, il Sindacato Inquilini, tra la seconda metà degli anni ’80 e i primi anni ’90. Ho seguito  quartieri milanesi come Quarto Oggiaro, Mazzini e Molise-Calvairate, Ponte Lambro e Argonne, e poi quartieri di Sesto San Giovanni e Pioltello, di Cologno e Corsico, di San Giuliano e di Monza e molti altri luoghi di vita e di realtà popolare e proletaria. Piena di problemi, ma anche di grande dignità e umanità.
Ma è dell’esperienza di Cinisello Balsamo che voglio qui scrivere.
Il mio diario di bordo parte nell’autunno del 2007 un po’ in punta di piedi, ma è dal gennaio 2008 che mi è stato affidato ufficialmente questo compito operativo.
Il quartiere di S. Eusebio si presenta al nuovo arrivato come un fabbricato enorme, un quadrilatero di circa 100 metri di lunghezza  per 100 di larghezza, un grande quadrilatero di cemento, con all’interno un ampio giardino comune, poi le 5 Torri al di là della Via Alberto da Giussano, circondate dalla Via del Carroccio, (  più qualche palazzina più “vivibile”, ma sempre un po’ “sgarrupata”. Contesto urbano nel complesso abbastanza vivibile, ampi spazi di verde limitano l’impatto del cemento che comunque è predominante. La realtà sociale si dissimula durante le ore diurne, in particolare al mattino, panni stesi alle finestre, anziani che gironzolano, donne con bambini a seguito come chiocce, a far la spesa, di giovani neppure l’ombra, chi a scuola, chi al lavoro, chi dorme, i meno allineati. Resti qua e là di bivacchi notturni. Evidenti invece i danni arrecati alle cose comuni, citofoni e pulsantiere mancanti, vetrate fracassate, portoni d’ingresso scale divelti, ascensori sporchi, manate, calci,, sfoghi di rabbia mal repressa, noia che sfocia in vandalismo, genitori assenti, forse incapaci a reggere le fila di famiglie dissestate. Questo ma anche solidarietà, comunanza di interessi, impegno gratuito, voglia di riscatto, rabbia per istituzioni che forse non capiscono, forse impreparate, spesso troppo burocratizzate, formali. Realtà familiari appunto complesse, dove all’indigenza economica ( precari, disoccupati, spesso lavoranti in nero….muratori, artigiani, di tutto un po’ ) si assommano disagi familiari, handicap, ritardi….a volte drammi. Difficile la convivenza tra realtà diverse, culture vecchie e nuove che si sopportano e talvolta si integrano. A Cinisello le istituzioni, Comune anzitutto, ma anche ALER, Provincia e Regione,   comunque sono in questi anni state presenti, hanno coinvolto e guidato, favorito il protagonismo dei cittadini e fornito supporto e investito risorse. L’associazionismo di quartiere in particolare al S. Eusebio è stato protagonista, Pina Del Conte, Armando Del Pianta, Andrea Del Mastro, un vero “monumento” all’impegno civico  disinteressato, cioè gratuito, e poi Greco, Oliviero, e uno degli ultimi arrivi nel quartiere il sig. Bari, coraggioso nel chiedere rigore a difesa di un maggiore civismo, contro gli atteggiamenti sopraffattori di alcuni, e il menefreghismo di altri….e subito le minacce, l’auto che va a fuoco a seguito di una assemblea spontaneamente organizzata nella propria scala, una delle più difficili. Le denunce alla Polizia, non seguite da alcun provvedimento concreto, la ricerca di una sponda al Comune e all’ALER, la frustrazione disincantata per l’esortazione a vivere il proprio protagonismo civile più “sottotraccia”, come io stesso gli ho consigliato più volte a fronte di uno scaricabarile tra istituzioni che restano spesso come di cera di fronte all’evidenza dei problemi. Ma anche di fronte alla complessità degli stessi. Si perché risolvere il problema di queste realtà metropolitane comporterebbe una più complessa e forte azione istituzionale nel suo complesso. Si i blitz repressivi non servono a nulla se non sono parte di un progetto più ampio che si proponga di affrontare tali disagi con azioni congiunte di tutti gli interlocutori istituzionali, associazionistici e dei cittadini stessi. E’ positivo che a Cinisello si siano messi periodicamente attorno allo stesso tavolo tutti gli interessati, ma a questo livello occorre dare una continuità su tutti fronti.
Comune, Regione, Provincia devono continuare ad investire risorse per portare in queste realtà presenza istituzionale, cultura, socialità, formazione,  lavoro; le Forze dell’Ordine devono essere messe nella condizione, non solo formale, ma concretamente operativa, di presidiare il territorio, renderlo operativamente sicuro con più uomini, più mezzi, più risorse, più intelligence; l’ALER proprietaria dei fabbricati deve investire risorse maggiori in presenza operativa in questi quartieri, deve stare sulla palla come si direbbe in  gergo calcistico, deve investire in manutenzione, deve migliorare la qualità dei propri servizi, deve avere nei suoi operatori una mentalità ed una cultura socialmente più strutturata, perché in queste realtà non si può stare “sulla palla” con la mentalità burocratica o col pregiudizio del tanto pagano poco e non si meritano  più di quel che hanno perché sono vandali, morosi, abusivi, sporchi, incivili… e via via sempre più nel baratro dell’inciviltà zoticona sono terroni, extracomunitari, negri. E che se ne stiano a casa loro.
In realtà in questi quartieri a Cinisello come a Quarto Oggiaro, a Pioltello come alla Barona,  c’è tantissima brava gente, operosa, dignitosa, solidale. Che merita dalle istituzioni e da tutti gli altri cittadini rispetto e disponibilità d’animo, non pregiudizi assurdi ed incivili. Far vivere bene , meglio la gente di queste realtà metropolitane è conveniente per tutti, anche economicamente. Quartieri popolari ben gestiti sono di gran lunga vantaggiosi e producono per tutti maggiore sicurezza sociale, rispetto a impossibili “banlieu” o ghetti emarginati ed emarginanti che rischiano di esplodere causando danni a tutto il sistema sociale, oltre che essere ingiusti per chi li subisce.
Con questo spirito ho sempre affrontato la mia esperienza in queste realtà, da quando nel lontano 1984 iniziai ad occuparmi di case popolari da sindacalista del SUNIA il sindacato inquilini legato alla CGIL, al Quartiere Mazzini al Corvetto e al Molise –Calvairate , da Quarto Oggiaro a Ponte Lambro, da Corsico a Rozzano, da San, Giuliano al Gratosoglio, dal Forlanini a  Pioltello, da Gorgonzola al Giambellino,  dove conobbi decine di attivisti, di cittadini benemeriti silenziosamente protagonisti del civismo cittadino dalla tenace compagna Orlandi, al mitico Brina, alla indomita Franca Caffa, a Mercedes  colonna del SUNIA ea tanti e tanti personaggi, miti, combattivi, dignitosi, semplici e intelligenti. E poi via via nelle esperienze successive, con lo IACP e poi con l’ALER,  a Monza, a Paderno Dugnano, a Lissone come a Cassano d’Adda, a Sesto come a Vimodrone, le Autogestioni di alcuni servizi come le pulizie e le aree verdi, filo rosso di una mia continuità operativa dal Sindacato in qualità di suo dirigente, all’ALER in qualità di operatore tecnico-amministrativo, da una parte all’altra della barricata, in quanto tale opportunità conquistata dal SUNIA nei primi anni ’80 con la prima vera legge regionale per la gestione delle case popolari la 91/92 del 1983 rappresentava e rappresenta un modo per responsabilizzare gli inquilini, per renderli maggiormente protagonisti nel rapporto con il proprio costo casa cui sono tenuti a far di conto.

VERSO IL TERMINE DI UN’ESPERIENZA DI LAVORO  (scritto nel 2009 )

Oggi sono quasi giunto al termine di un percorso, un po’ perché al 30 marzo del nuovo anno fa 40 anni che ho iniziato a lavorare 15 in una multinazionale, 10 direttamente nel Sindacato, e il resto tra le case popolari. Ho cercato sempre di darmi una ragione del lavoro che facevo, per non subirlo passivamente, ma invece per dargli un impronta personale, ribelle alle gerarchie, spesso vissute come limitate e limitanti,generoso nell’impegno, ben oltre le indicazioni contrattuali. Ciò, come esperienza vuole mi ha coperto di soddisfazioni interiori, ma anche di forti insoddisfazioni economiche. Ho pagato per quasi tutta la mia carriera lavorativa la mia libertà di pensiero e di azione. Le persone con la mente e lo spirito  liberi, non  sono molto funzionali all’impianto culturale gerarchico aziendale e spesso politico. Chi possiede una personalità forte e libera viene vissuto con diffidenza e sospetto, a partire dalle classi dirigenti, spesso anche dai colleghi. Si tenta di vincolarli a regole asfittiche, inutili, a ordini e regolamenti funzionali più all’autoreferenzialità di chi ha il potere direttivo, che alla funzionalità e all’efficacia del lavoro/servizio che si avrebbe il compito di realizzare. L’esperienza sindacale, dalle prime lotte in fabbrica nei primi anni ’70, la decisiva battaglia contro la chiusura dello stabilimento nei primissimi anni ’80, con l’occupazione della fabbrica e la parziale autogestione , il divenire, a fronte della deresponsabilizzazione progressiva della dirigenza aziendale, decisa a chiudere l’attività produttiva a Milano, dell’esperienza sindacale in esperienza di gestione diretta a salvaguardia delle proprie liquidazioni, ha sedimentato in me l’idea che in fin dei conti se devo lavorare per vivere, è meglio che lo faccia con impegno e dignità. Da allora prima il Sindacato CGIL e poi SUNIA, con la stessa logica, trovando per fortuna vicino a me, in alcuni casi persone altrettanto libere e dinamiche. In altri casi non è stato così e mi ha fatto molto male. Quindi lo IACP e l’ALER, un mondo lavorativo diverso, per molti versi bloccato, più attento alla forma che alla sostanza. Un impatto molto difficile, che in un certo momento ha prodotto in  me rifiuto e reazione, ansia e perfino panico. Sono stato male, mi sentivo inutile in una realtà inutile. Poi faticosamente la risalita, e quindi la ripresa di un ruolo e di una dignità, seppure con molti limiti, e una specie di ritorsione che ho pagato con il blocco di ogni gratificazione economica, proprio nel momento in cui a gran parte dei colleghi venivano concesse gratificazioni categoriali ed economiche, perfino direttive. Non appartenevo al carro dei vincenti e neppure a quello dei finti perdenti. Ma mi sono ripreso un ruolo, fino ad oggi.
E vivo sempre a testa alta e schiena dritta.


MA SE FOSSI IL PRESIDENTE DELL’ALER O L’ASSESSORE REGIONALE ALLA CASA COSA FAREI PER I QUARTIERI POPOLARI ?

In verità io qualche anno fa ho proprio rischiato, non di fare il Presidente dello IACP milanese, troppa grazia, ma di fare il consigliere di amministrazione, le condizioni avrebbero potuto esserci, infatti nel 1990 quando rivestivo il ruolo di responsabile regionale lombardo e provinciale milanese per il settore pubblico del sindacato SUNIA alla fine di un estenuante e positiva vertenza con la Regione Lombardia per la modifica della L.R. 91/92 -1983 con la ratifica in Consiglio Regionale della Legge 28/1990 a cui ho partecipato nel gruppo di lavoro congiunto  Regione, CRIACP e Sindacati Inquilini, sotto il coordinamento dell’allora Assessore Regionale Giovanni Verga, era giunto il tempo del rinnovo delle cariche politiche allo IACP milanese e come era previsto allora i sindacati dell’utenza erano membri di diritto del Consiglio di Amministrazione, era ultimato il ruolo del membro uscente il socialista Bonfà, membro della segreteria regionale SUNIA e toccava per logiche politiche di quell’epoca ad un comunista sostituirlo ( il SUNIA era un sindacato vicino alla CGIL e quindi si ispirazione socialcomunista ). Io che ne ero il Responsabile del settore pubblico avrei potuto e dovuto esserne il candidato più naturale, ancorché avessi un’età ancora relativamente giovane – 38 anni -. Anche qui logiche politiche e anche alcuni veti, nemmeno troppo velati,  posti dalla componente socialista che avendo la Presidenza dello IACP di allora – Presidente Collio ( ancorché per averlo conosciuto abbastanza bene non mi pareva interessato a tale questione )– e molta parte dei dirigenti e forse anche da qualche personaggio del PCI milanese, mi preferì anche per la maggiore anzianità di servizio la compagna Graziella Corona, che poi fu anche l’ultima rappresentante dei sindacati nel CdA IACP nell’arco di un paio d’anni si decise, anche col mio impegno in tal senso all’abbandono della cogestione dello IACP che ormai si stava orientando verso una privatizzazione sostanziale ed un progressivo abbandono della logica pubblica per andare verso la costituzione in Lombardia delle ALER.
Quindi nessuna meraviglia, penso di aver avuto già in serbo, se ne avessi avuto l’opportunità di proporre il mio costruttivo contributo con alcune modifiche sostanziali ai meccanismi di gestione delle case popolari milanesi che avrebbero potuto evitare, è mia profonda opinione, il progressivo degrado e molti dei problemi ad esso connessi che si sono poi puntualmente verificati negli anni successivi, ma questa è un altra storia, impossibile e anche inutile da ricordare.

Ma se fossi il Presidente dell’ALER che farei?
Per maggiore comodità ne puntualizzo gli aspetti più significativi.
Anzitutto ripristinerei a tutto tondo il ruolo sociale e pubblico dell’azienda, Se non c’è una disposizione prevalente al servizio sociale di strutture di questo tipo, il rischio è di valutarne l’efficacia soltanto attraverso il parametro economico. Cos’è in fondo il ruolo sociale di una azienda che deve assegnare e gestire case per i ceti sociali meno abbienti, presuppone che non si possa oggettivamente pensare di trarne, non dico profitto aziendale, ma neppure bilanci in pareggio. Infatti le entrate del monte canoni non sono mai sufficienti a coprire il fabbisogno gestionale  e manutentivo. Esiste sempre un delta da coprire o con tagli di servizi o di qualità degli stessi, oppure attraverso una copertura extra entrate da parte di altre istituzioni statali ( era così con gli ex-IACP ). Oggi si copre il fabbisogno con programmi di vendità di alcuni quartieri o con entrate extra  ( Contratti di Quartiere, finanziamenti ad hoc ). Ma siccome chi finanzia ( regione, comuni, governo )  ha bisogno di ritorni d’immagine sostanzialmente a breve, per poi incassare consenso elettorale, la linea prevalente è quella di  intervenire soprattutto sull’estetica dei fabbricati ( facciate, tetti, balconi, ecc. ) lasciando in subordine una serie di problemi più “nascosti”, tubazioni interne, impianti, etc. Non sempre è così, a molto spesso. Da molto tempo penso che bisognerebbe monitorare l’effettivo fabbisogno complessivo del patrimonio pubblico, stabiline il costo complessivo e le priorità d’intervento e quindi avviare un piano di finanziamento a breve, medio e lungo periodo.
      Ridurrei il numero di Dirigenti alle figure essenziali per il funzionamento direttivo legando i loro stipendi a ben individuati obiettivi di miglioramento funzionale dell’azienda, quindi stabilirei con l’aiuto delle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dell’utenza un organigramma funzionale in cui vengano individuate le funzioni organizzative e gestionali tecniche ed amministrative sulla base degli obiettivi di fondo che si intende raggiungere, quindi ribaltando la logica attualmente in uso ( ma anche prima era così ) secondo cui si scelgono prima le persone cui affidare una funzione e poi si definisce la funzione che deve svolgere. La logica inversa di scelta delle funzioni, cosa e come si vuole ottenere e poi si seleziona le persone che si ritiene professionalmente più adatte, sia sulla base dei loro curricula, sia sulla base della loro attitudine a svolgere un determinato ruolo.
      Rivedrei, magari operando proposte all’altezza di un’azienda che gestisce il più grande patrimonio immobiliare nazionale, le normative d’appalto a partire da quelli dei servizi perché più diretti all’utenza e quindi più facili da definire puntando se possibile ad evitare il ricorso al massimo ribasso e limitando in modo dettagliato il ricorso al subappalto, quindi opererei potenziando i sistemi di controllo sui servizi appaltati ( ma lo stesso andrebbe fatto sui lavori manutentivi e costruttivi ) con staff di controllo più ampi e dotati di maggiori mezzi di valutazione e verifica.
     Investirei sull’autogestione dei servizi attraverso  cui è provato si può responsabilizzare di più e meglio gli utenti, aumentando e migliorando il supporto tecnico e amministrativo.
    Amplierei lo spettro di intervento costruttivo proponendo progetti integrati di edilizia sociale, a  canone moderato, a riscatto, in vendita con tipologie costruttive tecnologicamente d’avanguardia, ma soprattutto indirizzate a più tipologie d’utenza ( redditi bassi, single, giovani coppie, anziani, studenti, redditi medi ) in cui non prevalga la stanzialità, ma la mobilità per fasi della vita.
   Avvierei una profonda revisione delle polizze assicurative garantendo maggiore trasparenza nel ricorso ai rimborsi, alla ricerca guasti fabbricato, ai livelli di franchigia.
    Definirei un elenco fornitori di ditte o aziende di cui servirsi nei diversi campi di intervento, pubblico, aperto e dinamicamente legato al giudizio degli utenti in fase di bilancio annuale stabilendone un percorso di qualità studiato appositamente da una commissione internazionale  di esperti.
   Valuterei l’incentivazione del personale a svolgere bene il proprio lavoro attraverso premi di qualità legati al gradimento da parte dell’utenza, in termini di efficacia, disponibilità ed educazione.
   Stabilirei esami attitudinali del nuovo personale da assumere in quanto penso che occorra avere specifiche attitudini alla relazione ed al rapporto empatico in tutti quei lavori che hanno a che fare col pubblico, anche, è ovvio per i gruppi dirigenti. La persona giusta al posto giusto ! I percorsi di carriera devono essere proposti e costruiti su tali attitudini, e prevedere anche possibilità di passare ad altro incarico nelle situazioni di disagio del lavoratore o dirigente a permanere in quella determinata posizione, vi sono molte funzioni non di front-office, che possono essere utilizzate in tali casi, andrebbero soltanto individuate e definiti i relativi percorsi. Molti lavori di front-office possono risultare usuranti se operate per tempi troppo lunghi.
  Propenderei per interventi di reinternalizzazione di alcuni lavori, come il ripristino di alcune squadre di pronto intervento manutentivo da usare in operazioni di vera e propria emergenza ( interventi notturni e festivi ) con specializzazioni tali da poter anche se il caso verificare il lavoro in opera  delle ditte appaltatrici.  
     Rafforzerei il settore ispettivo con addetti formati ad hoc capaci di svolgere operazioni di prevenzione abusivismo, ma anche preparati alla mediazione dei conflitti e alla prevenzione del vandalismo, fenomeno che andrebbe affrontato con maggiore attenzione e forza .
     Affronterei in stretta collaborazione con tutti i Comuni sedi di patrimonio ALER il tema della morosità avviando percorsi di conoscenza del fenomeno attraverso anche la disponibilità dei servizi sociali locali, per ben distinguere gli utenti indigenti ( i cui debiti risultassero inesigibili parzialmente o totalmente )  da quelli furbi e disonesti, e avvierei una progressiva bonifica dei quartieri con azioni mirate ma molto dure ( in questo caso la collaborazione delle forze dell’ordine e quella data dalla volontà politica delle amministrazioni locali sarebbero ovviamente determinanti ).
    Solleciterei pratiche di progettazione sia edilizie che impiantistiche ( che vanno a mio parere effettuate in grande unità ) innovative e d’avanguardia procedendo a concorsi pubblici in cui far partecipare a gara le varie università italiane ed europee.
    Avvierei una forte campagna di sensibilizzazione nei quartieri sulla educazione ambientale e sul civismo comportamentale, adeguatamente supportata da figure di educatori e mediatori culturali, perché penso che solo attraverso tali progetti squisitamente culturali si possa far riacquisire ai cittadini la consapevolezza del bene comune di cui godono da salvaguardare.
    E forse non finisce qui !
   


ALLE ORIGINI DEI CONTRATTI DI QUARTIERE DI CINISELLO BALSAMO
Uno sporco lavoro di quartiere
Il Contratto di Quartiere a Cinisello Balsamo.

di Massimo Bricocoli

Integrazione delle politiche, programmi urbani complessi, coinvolgimento attivo degli abitanti,
innovazione nella pubblica Amministrazione e nella gestione dell’edilizia residenziale pubblica.
Queste sono le parole chiave attorno ai quali è centrato l’attuale dibattito sulle politiche di
riqualificazione urbana dei quartieri. Questi sono gli annunci che tracciano i contorni della
rappresentazione delle politiche pubbliche contemporanee e che mascherano quelle logiche di
chiusura, di asimmetria e di conflitto che costituiscono aspetti imprescindibili dell’azione pubblica.
Quella del “Contratto di Quartiere” di Cinisello Balsamo è un’esperienza in cui attraversare il
conflitto è stata la condizione per produrre la possibilità di un cambiamento.
In queste pagine è narrata l’esperienza di un “Contratto di Quartiere”, ovvero uno specifico programma di
recupero urbano, promosso e finanziato dal Ministero dei Lavori Pubblici nel 1997 con lo scopo di
riqualificare “quartieri segnati da diffuso degrado delle costruzioni e dell’ambiente urbano e da carenze di
servizi in un contesto di scarsa coesione sociale e di marcato disagio abitativo”2. La formula del “Contratto di
quartiere” ha introdotto numerosi elementi di novità nelle politiche pubbliche di rigenerazione urbana dei
quartieri in Italia, laddove introduce una serie di indirizzi e linee di intervento che si propongono di
accreditare anche nel nostro Paese formule da tempo sperimentate nelle nazioni del nord Europa e dagli
stessi programmi comunitari, primo tra tutti, Urban.
Tra queste: l’assunzione di un approccio “integrato” (urbanistico, sociale ed economico) alla rigenerazione
urbana, il finanziamento di interventi su base concorsuale e dunque competitiva (ovvero l’attribuzione e la
distribuzioni di fondi ai Comuni sulla base di un bando a cui ciascun governo locale partecipa presentando
singoli progetti), la sperimentazione di forme di partecipazione degli abitanti e dei soggetti locali nel processo
decisionale e nell’attuazione del programma, la definizione di accordi partenariali tra diversi soggetti pubblici
e tra pubblico e privato, per l’intervento congiunto sull’ambito territoriale (in questo caso un quartiere)
definito. Inoltre, il Decreto ministeriale prevede la designazione di un responsabile unico di procedimento,
che assuma e coordini le opportune iniziative per il raggiungimento degli obiettivi del progetto. La formula del
“contratto” prevede che la proposta di progetto preliminare da sottoporre al Ministero sia condivisa da una
pluralità di soggetti aderenti che in qualche modo si impegnano ad investire risorse (economiche e/o umane)
per la realizzazione degli interventi.
Nel 1998, il Comune di Cinisello è dunque promotore di una proposta di Contratto di Quartiere relativa al
quartiere di Sant’Eusebio. Nei tempi molto stretti previsti dal bando di concorso, viene elaborato un progetto
preliminare che viene rapidamente sottoscritto da 13 diversi soggetti istituzionali e locali3: La logica con cui si
è aderito al programma nazionale e si partecipa al concorso corrisponde ad un pensiero di questo tipo: “non
si può perdere un’occasione così preziosa e sebbene il progetto non sia stato discusso e condiviso in modo
ampio, ci sarà poi tempo per farlo successivamente”.
Il progetto per Sant’Eusebio risulta ai primi posti tra le 40 proposte selezionate sulle 112 presentate e viene
dunque finanziato con 9 milioni di euro (a cui si aggiungono ulteriori finanziamenti pubblici di Comune, Aler e
Regione per un totale di circa 13,5 milioni di euro). Avuta conferma del finanziamento, nella primavera del
1 Queste note fanno riferimento all’esperienza che ho maturato come consulente dell’amministrazione comunale di
Cinisello Balsamo nell’ambito dell’attività del Gruppo di Coordinamento in cui lavoro assieme a: Lides Canaia, Sandro
Balducci, Angelo Foglio, Gabriele Rabaiotti, Franco Salvador e Paolo Toselli. La responsabilità del testo e delle opinioni
espresse è invece esclusivamente mia!
2 Cfr.Decreto Ministro dei Lavori Pubblici del 22 ottobre 1997.
3 Ministero dei Lavori Pubblici, Regione Lombardia, Comune di Cinisello, ALER (Azienda Lombarda Edilizia
Residenziale), ASNM (Agenzia Sviluppo Nord Milano), Sicet (Sindacato Inquilini), Circoscrizione Comunale, Comitato
Inquilini, Parrocchia e altre 4 Associazioni locali di volontariato.

1999 il Sindaco Gasparini, da qualche tempo alla ricerca di un valido funzionario pubblico cui assegnare
l’incarico di capoprogetto e di responsabile unico del procedimento, chiama dal Comune di Vicenza Lides
Canaia, un architetto (giovane e molto energica) con una ricca esperienza nell’ambito della pianificazione
urbanistica tradizionale ma anche di progettazione partecipata e programmi urbani innovativi maturata
interamente dentro la pubblica Amministrazione. Viene così costituito l’Ufficio Contratto di Quartiere, alle
dirette dipendenze del Sindaco e per un intero anno composto da…una sola persona! Da quel momento
vengono avviate le complesse procedure burocratiche che hanno consentito via via la definizione di accordi
formali tra i diversi soggetti istituzionali e, in particolare, viene costituito un gruppo di lavoro tecnicoburocratico
per la definizione di un accordo tra il Comune di Cinisello (soggetto promotore) e ALER (ente
proprietario e gestore del patrimonio residenziale) e quindi attivato presso il Comune di Cinisello un Gruppo
di Coordinamento finalizzato all’attuazione del Contratto di Quartiere, costituito da un gruppo misto
composto dallo staff interno del Comune (la responsabile, un educatore professionale, un architetto),
consulenti esterni per il coordinamento e il supporto dei processi partecipativi, il responsabile di ALER.
1. San’Eusebio, periferia nord
S.Eusebio è un quartiere residenziale situato nella periferia nord della città di Cinisello Balsamo, cresciuto a
partire dagli anni ’60 e contraddistinto dalla presenza incombente di due interventi di edilizia residenziale
pubblica, con i quali è spesso identificato, denominati “il Palazzone” e “le 5 torri” realizzati nel 1974 per dare
una risposta alla forte domanda di alloggi indotta dalle ondate di immigrazione interna. Il complesso di
edilizia pubblica corrisponde a circa 370 alloggi, per un totale di circa 1400 abitanti. Il Palazzone, in
particolare ha una dimensione totalmente fuori scala rispetto al contesto: un grande edificio a corte, 288
alloggi, distribuiti su 15 scale e otto piani su pilotis.
E' stato costruito nel 1974 ed era destinato a nuclei famigliari numerosi, per questo le tre tipologie di alloggi
presenti sono di grandi dimensioni (115, 98 e 81 mq) rispetto agli standard dell'edilizia pubblica.
Nel corso degli anni, il palazzo è stato segnato da un processo cumulativo di degrado e dalla concentrazione
di varie forme di disagio: economico, sociale ed edilizio. Gli anni più difficili in cui il palazzo era divenuto
anche un centro di attività criminali (il quartiere era divenuto uno dei principali centri di spaccio dell’area
metropolitana e il Palazzone era considerato una sorta di “fortino” controllato dalla rete criminale), sono
superati, ma la sua connotazione come territorio ‘ai margini’ è stata aggravata dalle carenze nella
manutenzione edilizia, dalle difficoltà gestionali, e dai contestuali fenomeni dell’occupazione abusiva degli
alloggi che via via risultavano liberi e di crescita incontrollata della morosità. Per le famiglie che vi abitano o
che vi hanno abitato, è stato impossibile sottrarsi al confronto con i problemi che negli anni hanno investito il
quartiere. Alcuni si sono trasferiti, riuscendo ad accedere a situazioni abitative migliori, altri sono rimasti e si
sono misurati più da vicino con le difficoltà. Se numerose famiglie sono state in grado di articolare un
processo di crescita e di ‘emancipazione’ altre sono invece state segnate più pesantemente da esperienze di
tossicodipendenza, spaccio, contrabbando, carcere, disoccupazione, povertà. Sant’Eusebio è stato però
anche un vivace campo di azione di numerosi comitati, della parrocchia e dei diversi gruppi auto organizzati
che hanno lavorato, nel dibattito politico e nel confronto con le parti sociali, per migliorare la qualità degli
spazi di vita e per valorizzare il proprio territorio. Tramite numerose azioni sul campo sono riusciti a
“contenere il danno” e a tessere reti di salvataggio per la comunità locale. Non sono mancate le iniziative di
accesa protesta, come ad esempio quella mirata a rompere l’isolamento del quartiere dal resto della città
attraverso l’estensione della corsa dell’autobus di linea da anni richiesta: dopo avere percorso tutte le
“strade” formali e le procedure ordinarie, gli abitanti del quartiere hanno deciso di dirottare ripetutamente
l’autobus e di farlo proseguire sino al quartiere. L’esito concreto di tale azione è che oggi l’autobus che dalla
Stazione Centrale di Milano porta a Cinisello Balsamo ha il suo capolinea proprio nel quartiere. D’altra parte,
un esito collaterale delle diverse proteste agite dagli abitanti ha involontariamente contribuito ad accrescere
la cattiva fama del quartiere e la sua stigmatizzazione. Ancora oggi per molti “esterni” S. Eusebio è sinonimo
di ghetto, degrado, pericolo, criminalità.
In estrema sintesi, il progetto di Contratto di Quartiere finanziato dal Ministero prevedeva interventi congiunti
sia alla “Cinque torri” che al ”Palazzone”, ma in realtà concentrava gli interventi su quest’ultimo prevedendo:
- un intervento di manutenzione straordinaria complessiva degli stabili, con l’introduzione di nuovi
ascensori e di una nuova rete di impianti e la ristrutturazione ‘leggera’ di tutti gli alloggi e degli spazi
comuni,
Animazione Sociale, mensile del Gruppo Abele, marzo 2002, n. 3
3
- un intervento di ristrutturazione ‘pesante’ con il frazionamento/ricomposizione di un terzo degli alloggi
per ottenere abitazioni più adeguate alla domanda di alloggi pubblici,
- la trasformazione di alcuni alloggi con l’introduzione di particolari caratteristiche distributive e
tecnologiche da destinare a nuove tipologie di utenza (ragazze madri, studenti, telelavoro),
- la progettazione e la costruzione di un nuovo edificio per la localizzazione e l’attivazione di funzioni di
carattere sociale e di servizio, la promozione di attività commerciali e artigianali finalizzati a promuovere
la nascita di nuove imprese e posti di lavoro.
Una serie di primi incontri del “Gruppo di coordinamento” sono stati dedicati ad una lettura e comprensione
dei contenuti del progetto e alla definizione di una struttura organizzativa che consentisse l’implementazione
efficace del progetto. In buona sostanza, si trattava di “rendere attuabile” un intervento in un contesto in cui
ci si misurava con condizioni iniziali molto difficili: grande sfiducia nelle istituzioni, marginalità sociale e
segregazione fisica nei confronti del contesto, conflittualità tra gli abitanti, resistenza a qualsiasi forma di
cambiamento. E’ stato quindi avviato un intenso lavoro per verificare la fattibilità, attuabilità del progetto
preliminare finanziato in relazione a condizioni ed esigenze dei soggetti coinvolti nel percorso attraverso:
- la costituzione di gruppi di lavoro integrato tra le diverse istituzioni coinvolte (in particolare tra Comune di
Cinisello e ALER) per la definizione dettagliata di tutte le operazioni tecniche previste dal progetto e di
tutte le procedure amministrative necessarie alla sua gestione,
- un intenso lavoro di coinvolgimento degli abitanti e dei soggetti locali, riuniti in un “Laboratorio di
Quartiere” che comprende i firmatari del Contratto di Quartiere e la cui attività è stata articolata in 4
gruppi di lavoro dedicati ai diversi ambiti di intervento: GRUPPO SPAZI PUBBLICI (nuove spazi per la
comunità e servizi), GRUPPO LAVORO (occupazione e nuove attività economiche), GRUPPO CASA
(interventi sugli alloggi e problematiche abitative), GRUPPO INFO&EVENTI (newsletter, animazione e
feste).
2. Il piano di mobilità degli inquilini…
Nel corso della primavera 2000 prima le riunioni del Gruppo di Coordinamento, poi le riunioni del Laboratorio
di Quartiere e del Gruppo Casa, hanno portato da un lato ad individuare i responsabili dei diversi ambiti di
intervento e dall’altro ad una prima strutturazione del lavoro sul campo. Chi scrive è stato individuato come
responsabile del “Progetto Casa”, ovvero del coordinamento dei processi partecipativi in relazione agli
interventi sugli alloggi. E’ all’esperienza maturata in questo ruolo che sono dedicate le pagine che seguono.
In particolare, per quanto riguarda gli interventi sugli alloggi, il progetto di ristrutturazione edilizia dell’edificio
interessa tutti i 288 alloggi distribuiti su otto piani e 15 scale e prevede due modalità di ristrutturazione,
leggera e pesante:
- nel primo caso si tratta di una serie di interventi di messa a norma e di miglioria generale degli alloggi,
- nel secondo caso è prevista l’individuazione di “moduli” di ristrutturazione per una riduzione della
dimensione di un terzo dei 288 alloggi mirata a meglio rispondere alle esigenze degli abitanti attuali e
alla domanda di alloggi di edilizia popolare più in generale e a favorire lo sviluppo di nuovi modi d’uso
degli alloggi( comunità/alloggio per anziani, alloggi per studenti…).
Attualmente molti alloggi risultano eccessivamente grandi rispetto alle reali esigenze degli inquilini. La
determinazione del canone di affitto è in parte sì proporzionale alle condizioni di reddito del nucleo famigliare
ma risulta altresì legata alle dimensioni dell’alloggio (soprattutto per quanto riguarda le spese), con il risultato
che il canone di affitto può risultare eccessivo per le disponibilità della famiglia. Nel quartiere non esistono
alloggi di edilizia pubblica di piccole dimensioni e questo fa sì che nessuno chieda di cambiare per il timore
di essere trasferito altrove. Il risultato è una sorta di “trappola” per cui molte famiglie si trovano a sostenere
costi mensili assai elevati ed altre cadono facilmente in situazioni di debito nei confronti di ALER Il debito
complessivo delle circa 360 famiglie di Palazzone e 5 Torri nei confronti di Aler è pari a circa 750 milioni di
euro! Il progetto individuava dunque 9 scale (su 15) e all’interno di queste, colonne di alloggi della stessa
tipologia sui quali procedere con il frazionamento degli attuali alloggi da 113 metri quadrati (e la
realizzazione di due alloggi corrispondenti di 74 e 37 mq) e la ricomposizione di alcune coppie di attuali
Animazione Sociale, mensile del Gruppo Abele, marzo 2002, n. 3
4
alloggi da 98 e 81 metri quadrati (e la realizzazione di tre nuovi alloggi corrispondenti di taglio variabile tra i
57 e i 74 metri quadrati.
L’inserimento di nuovi ascensori e di una nuova rete di distribuzione degli impianti garantiva la realizzabilità
tecnica e una futura flessibilità. Pur in rispondenza di un obiettivo generale ampiamente giustificato e in
prima battuta condivisibile, la scelta delle scale, delle colonne e delle tipologie di alloggi sulle quali
intervenire era stata in realtà condotta secondo una razionalità e principi di fattibilità esclusivamente di tipo
tecnico-economica. Per poter realizzare i lavori e frazionare gli alloggi era inoltre necessario definire un
“piano della mobilità” cioé una serie di cambi alloggio che prevedono il trasferimento (definitivo, non
temporaneo!) delle famiglie in un altro alloggio, sempre all’interno del palazzo e corrispondente alle esigenze
della famiglia. Il progetto preliminare prevedeva cioè che l’attuazione dei lavori fosse così strutturata:
- individuazione di alloggi già liberi nel palazzo, da ristrutturare e rendere disponibili per la prima mobilità,
- selezione di una prima scala su cui effettuare i lavori,
- spostamento di tutti gli inquilini della prima scala negli alloggi disponibili,
- ristrutturazione e realizzazione dei nuovi alloggi,
- trasferimento nei nuovi alloggi realizzati degli inquilini della seconda scala su cui intervenire, e così via…
Nelle riunioni informali del Gruppo di Coordinamento l’iniziale difficoltà nel comprendere lo sviluppo previsto
del piano di mobilità ha lasciato ben presto spazio all’incredulità e allo sconcerto di fronte a quello che a noi
sembrava…una vera e propria ‘macchina da guerra’!
3. Il progetto come spazio di conflitto
Considerata la necessità di avviare al più presto una relazione diretta con gli abitanti, si è deciso di proporre
una serie di riunioni cosiddette “di scala” nel corso delle quali, di volta in volta, illustrare il Contratto di
Quartiere e il progetto di ristrutturazione del “palazzone” agli inquilini delle singole scale. Nel corso delle
riunioni si sarebbe inoltre provveduto a distribuire il questionario che il Gruppo di Coordinamento aveva
elaborato per raccogliere indicazioni sui diversi interventi da realizzare nel quartiere e verificare esigenze e
disponibilità al cambio alloggio delle singole famiglie. In particolare, queste riunioni risultavano essenziali per
la definizione del programma di lavori sugli alloggi e per questo si era deciso che a condurle fosse il
responsabile del Gruppo Casa, cioè io… Per comunicare al meglio queste riflessioni ritengo efficace
affidarmi alla forza della forma narrativa, all’intensità che solo un racconto può consentire:
Le riunioni iniziano alle 20.30 e finiscono tardissimo, oltre la mezzanotte, cosicché dopo la prima riunione in
cui abbiamo dovuto accettare un passaggio in auto per tornare a Milano, io e Lides Canaia, siamo costretti a
rinunciare ai mezzi pubblici e a chiedere un’auto in prestito ad un’amica. Gli incontri si svolgono nell’unica
sala disponibile, al piano terra del Palazzone. La partecipazione è molto elevata, ad ogni riunione
partecipano 20, 30 persone. Spesso genitori anziani, con figli adulti e nipotini.
Con Lides mettiamo a punto alcune regole di base: lei svolge una presenza “istituzionale” e io conduco la
riunione.. Io sostanzialmente propongo che almeno mezz’ora/tre quarti d’ora mi siano riservati per illustrare il
Contratto di Quartiere e il progetto e che tutte le domande e questioni siano rimandate a dopo. Promettiamo
di ascoltare tutti coloro che avranno degli interventi da fare. L’impegno, da parte mia, nell’illustrare la “bontà”,
il buon senso, le finalità pubbliche del progetto era al massimo. Altrettanto lo sforzo di parlare in termini
chiari, espliciti e con un linguaggio non tecnico. Da subito, mi viene chiesto di alzare il tono della mia voce:
non si sente. Racconto:
- il programma ministeriale, il processo di selezione, la “vittoria” e il finanziamento assegnato a Cinisello
- gli obiettivi generali di intervento sul quartiere
- il progetto di nuovi spazi per attività comunitarie e servizi
- gli interventi di manutenzione ordinaria e, infine, aiutandomi con una sezione della scala in cui abitano i
presenti, gli interventi di frazionamento sugli alloggi.
Immaginate venti, trenta, persone, in ascolto, spesso in perfetto silenzio. Poi, dopo l’illustrazione del
progetto: fuoco e fiamme, il caos. In un attimo il clima si surriscalda, la gente urla, si sovrappongono gli
interventi. Di recente ho ritrovato i testi dei verbali che, con molto rigore, Paolo Toselli (l’educatore
professionale dello staff del Comune) ha redatto per ogni serata. Ecco un estratto:
Animazione Sociale, mensile del Gruppo Abele, marzo 2002, n. 3
5
Riunione Scala “a”
- Questioni: “Mio figlio è schizofrenico e da dieci anni non lascia la propria stanza da letto. Non possiamo
cambiare alloggio”, “Ma voi chi siete? Noi vogliamo qui il Sindaco!! Il presidente di Aler!”, “Io il mio
appartamento l’ho completamente rifatto, venite a vederlo! Io non mi muovo!”, “Ho speso 20 milioni per
rifare la cucina,…siete impazziti”, “Il box me lo devono dare come quello che lascio”, “Avete tenuto conto
delle questioni tecniche e non di quelle umane”, “Tornando agli inizi noi siamo stati ghettizzati”, “Io vi
denuncio, io vado da un avvocato, non è giusto che io debba cambiare scala”, “Voi dite così, poi faranno
quello che vogliono loro”, “Io non mi fido di niente”, “Io dalla ‘a’ non mi sposto”, “Non sono discorsi da
fare di sera bisogna farli di giorno (altri non sono d’accordo)”, “Ci chiamate scala per scala per paura del
nostro numero complessivo”, “Ci mettono l’uno contro l’altro!”, “In passato i lavori sono stati fatti male,
hanno messo le piastrelle storte, “Problema dei muri divisori sistemati nei sottotetti per contrastare
spaccio dei tossici e che adesso implica un pericolo perché in caso di incendio non si può scappare
verso le altre scale”
- Domande: “Siamo in 3 più una ragazza disabile che ogni tanto si sta in casa con noi. Come facciamo a
scrivere nel questionario quanti siamo in famiglia?”“Al posto delle attività commerciali perché non
pensate ai nostri alloggi marci?”, “Quando inizieranno i lavori?”, “Io voglio tornare nella casa dove ho
vissuto da 25 anni”, “Ho sei bambini dove andrò a finire?”, “Siamo peggio degli zingari”, “Cambiare lo
stato di residenza sui documenti quanto costa?”, “Nella nuova casa ci metteranno africani e
marocchini?”
- Situazione: Continua la presenza di un inquilino aggressivo e contrario che partecipa a tutte le riunioni;
Qualcuno dice che ci sono famiglie che ospitano abusivamente più persone; Preoccupazioni per atti di
vandalismo: in questa scala è stato bruciato l’ascensore e dopo averlo sistemato è stato subito
danneggiato di nuovo. La signora Cannavacciolo verso la fine si è alzata gridando nei nostri confronti,
poi si è scusata dicendo che voleva provocandoci, metterci alla prova.
- Disponibilità: un ragazza, giovane neosposa vive con il marito e la mamma, è interessata a dare una
mano ma è in una situazione di debito con ALER. Rosaria, del comitato inquilini, indica un gruppo di
suore alla Sister Act disponibili ad animare con musical (incasso per beneficenza)
Tornando a Milano in auto, stremati, all’una, a volte anche alle due di notte, con Lides ripercorriamo sempre
con attenzione la situazione: “hai visto quella donna che scena che ha fatto? Aveva un volume di voce
pazzesco! Ma secondo te era autentica o stava recitando una parodia?”, “quel tipo con il cappello mi ha fatto
quasi paura quando si è alzato e si è avvicinato”, “è evidente che gli abitanti non sapevano nulla del
progetto, il comitato inquilini non era evidentemente rappresentativo quando ha firmato il Contratto di
Quartiere”. Ai commenti sulle impressioni della serata, riunione dopo riunione iniziamo ad interessarci al
significato e ai contenuti degli interventi degli abitanti. Negli appunti di quelle riunioni rileggo ora alcune delle
innumerevoli e svariate questioni che ci venivano poste a raffica e che danno il senso del disorientamento e
della difficoltà (per tutti) di quel momento:
Riunione dopo riunione, tutte queste questioni diventano materiale “vivo” su cui lavorare. Il giorno dopo,
mentre io sono spesso alle prese con altre attività, Lides si attiva in Comune, presso Aler, talvolta presso il
Ministero per verificare le segnalazioni, per prendere seriamente in considerazione le richieste che gli
abitanti avanzano. Io, per quanto allenato alla gestione di gruppi, forse per un innato istinto non violento e
per un preteso desiderio di ‘civiltà’ nello svolgimento di riunioni, entro in crisi: “qui tutti hanno voci possenti e
urlano come forsennati, sembra valere la regola che il più forte è chi urla di più”. E’ giusto? È possibile?
Come posso gestire creativamente il conflitto? Dopo qualche riunione, rinuncio al controllo e decido di
iniziare ad urlare anche io, con tutto il fiato che ho in gola. Ricevo il benestare, l’approvazione di alcuni amici
e colleghi con i quali mi consulto in quei giorni: l’arte di ascoltare è un’arte “gentile” ma “ferma” e attiva e nel
mio caso richiede una provvisoria revisione della mia natura non-violenta. Se si fa ascolto attivo è inevitabile
che vengano messe in discussione (dal contesto) le proprie abitudini, consuetudini, finanche il proprio “stile”
ed è questa una condizione fondamentale per essere a propria volta “apprezzati” (Sclavi, 2000). Per essere
capito (e apprezzato) era davvero necessario che anche io urlassi e che usassi toni aggressivi. Non mi era
mai successo prima. Adesso mi sembra l’unico modo per stabilire un clima di rispetto reciproco.
Così, ho capito che solo urlando avrei potuto comunicare che ero un interlocutore attendibile, che proprio
una componente non verbale (il volume!) poteva essere decisiva.
Animazione Sociale, mensile del Gruppo Abele, marzo 2002, n. 3
6
Per “noi” urlare significava “impossibilità di ascolto reciproco, aggressione, sconfitta, inciviltà”, per “loro”
significava “metterci alla prova, verificare la nostra reale disponibilità a prenderci cura del quartiere e,
ancora, a... giocare sul serio con loro!”. Per fortuna, avevamo a disposizione 15 riunioni e, come in un
esercizio di fenomenologia sperimentale, dopo una serie di tentativi per prova ed errore (dentro la nostra
cornice) siamo riusciti ad... uscire dalla nostra frame, a capire come comportarci in quell’ambiente culturale e
a rendere più efficace la comunicazione!. Un quartiere degradato manda in continuazione ai suoi abitanti il
messaggio: “Tu non, sei degno di riconoscimento e rispetto”, “Tu non esisti, non servi a nulla”. Oltre il trauma
del cambio alloggio, oltre il timore di perdere la casa, la domanda che gli abitanti ponevano - urlando - era
una domanda di riconoscimento e rispetto. Da questo punto di vista, la presenza assidua e
progressivamente capace di ascolto attivo della responsabile del progetto è stata decisiva, proprio in quanto
figura istituzionale e responsabile del potere comunale. Certamente è stato fondamentale riconoscere i segni
contraddittori attraverso i quali alcuni abitanti, via via, dimostravano di darci un minimo di credito: alcuni al
termine della riunione, ci salutano con una stretta di mano. Ricordo ancora un uomo, che il giorno
precedente era entrato a incontro terminato e aveva protestato con violenza e il giorno successivo ha
seguito l’incontro e, uscendo, si è complimentato del nostro lavoro attraverso un’altra inquilina, dicendo di
aver fatto una brutta figura il giorno prima.
4. Dalla superficie piatta alla sfera pubblica
Al termine delle 15 riunioni, il conflitto sui contenuti del progetto era in ogni caso al suo apice. Dopo 25 anni,
per queste persone, cambiare alloggio, pur rimanendo nello stesso palazzo ma in una scala diversa,
comporta un trauma. Profondo. Molto più forte di quanto noi, paladini di un astratto interesse pubblico,
fossimo consapevoli e pronti a riconoscere. Gli abitanti erano disposti a tutto per evitare lo spostamento: di lì
a poco, si è costituito un ampio fronte di contestazione generalizzato contro il Contratto di Quartiere che è
culminato con la Costituzione di una nuova Associazione Inquilini e con un’assemblea pubblica di scontro
con i soggetti politici molto infuocata. Un momento di grande crisi e difficoltà. La domanda era: che fare? La
contrapposizione netta degli abitanti minacciava la possibilità di mantenere il finanziamento del Contratto e
di poter realizzare lavori di ristrutturazione che, quelli si, tutti riconoscevano come importanti. Una volta che il
Sindaco ha dato il suo consenso e supporto a proseguire nella sfida, si è lavorato su due fronti:
Il fronte tecnico e procedurale:
La competenza dei responsabili del Contratto di Quartiere (del Comune e di Aler) e la loro abilità nel
muoversi “in verticale” su tutta la gamma delle relazioni tra il quartiere e le diverse istituzioni ed enti di
governo ha via via reso possibile l’adeguamento del progetto in rispondenza di una serie di variazioni
negoziate con gli abitanti (ad esempio ridefinendo la collocazione del centro polifunzionale all’esterno della
corte e, ancora, prevedendo che il frazionamento degli alloggi sia realizzato solo in corrispondenza di una
disponibilità degli abitanti e alla condizione di non ridurre il numero complessivo di frazionamenti).
Il fronte del quartiere:
Con il Laboratorio di Quartiere viene, più o meno consapevolmente, intrapresa una via che porta a: ascoltare
e comprendere fino in fondo le ragioni di tutti coloro che sono coinvolti (anche quelle che appaiono assurde,
incomprensibili, irragionevoli) e a legittimare le posizioni e i punti di vista alla condizione che dai casi specifici
si possano trarre generalizzazioni, in rispondenza di problemi e beni di cui si risconosce cioè una rilevanza
collettiva. Sul piano del lavoro in quartiere, in un clima di crescente collaborazione tra i diversi soggetti del
Laboratorio di Quartiere, è stato quindi chiesto e concordato l’avvio di contatti diretti e individuali con le
singole famiglie per: verificare la possibile disponibilità al cambio alloggio, verificare specifiche esigenze
della famiglia (es. presenza di disabili o persone con ridotta capacità motoria, preferenze di scala e di piano,
eventuali legami con vicini di casa che si chiede di mantenere, elementi di progettazione dell’alloggio),
concordare le condizioni ed eventualmente i tempi del cambio alloggio.
Quello prodotto nell’ambito del Contratto di Quartiere è un conflitto in cui le relazioni sociali, di appartenenza
e di coalizione, oppure di frizione, differenza e conflitto si sono esplicitate in un ambito propriamente
pubblico. In questo senso, attraverso la forza di relazioni “face to face”, il conflitto ha assunto una forza
progettuale e propositiva in opposizione alla forza distruttrice del più consueto conflitto configurato tra
istituzioni burocratiche. Il lavoro svolto in particolare dalla responsabile del progetto quale regista di
connessioni verticali tra i diversi soggetti decisionali ha dato spessore al lavoro orizzontale svolto in quartiere
ed è stata costantemente riconosciuta la “dimensione istituzionale in cui sono in gioco questioni collettive,
Animazione Sociale, mensile del Gruppo Abele, marzo 2002, n. 3
7
scelte collettive su beni e problemi comuni”, ovvero (attraverso il conflitto e la negoziazione del progetto) si è
riusciti a ‘bucare’ la superficie orizzontale di un mondo sociale che tende all’appiattimento e a ri-generare
una dimensione di res publica: la terza dimensione, quella - per restare nella metafora geometrica - della
‘sfera pubblica’ (De Leonardis, 2001).
5. Scala per scala, porta a porta…
Dal giugno 2000, settimana dopo settimana, io e Angelo Foglio (l’architetto dello staff comunale) prendiamo
appuntamenti telefonici e giriamo nel palazzo, famiglia per famiglia. Raccontiamo il progetto e gli interventi
previsti, le garanzie offerte dal piano della mobilità e, soprattutto, si ascolta a tutto campo. Raramente è
capitato che si parlasse solo della “casa”. Le famiglie del quartiere sono spesso interessate da una
cumulazione di problematiche di disagio che richiedono di essere quantomeno ascoltate (se non trattate) in
modo complessivo nel momento in cui si procede a prefigurare un cambio alloggio e una conoscenza diretta
dei singoli casi si è rivelata presto fondamentale. Ben presto ci rendiamo conto che ogni incontro dà
l’occasione di costruire una crescente familiarità e di scoprire qualcosa di nuovo: racconti di storia del
quartiere e di vita personale, drammi, problemi e difficoltà familiari,...ricette di cucina regionale in mezzo alle
risate ma anche agli sfoghi e ai pianti.
Nel quartiere, ci siamo guadagnati l’appellativo di “geometri del Comune” e, dopo un iniziale spiazzamento
(siamo entrambi architetti e anche “specializzati”…) riconosciamo in questa definizione l’apprezzamento di
chi guarda al nostro lavoro come pragmatico, fattivo, speso sul campo.
In molti, fuori dal quartiere (dentro il Comune, dentro Aler, dentro l’Università), guardano al nostro come ad
un lavoro di “bassa cucina”, in cui due tecnici si spendono in un lavoro “sociale”, da “assistenti sociali”, senza
neppure “averne la qualifica”...
Consapevoli (e affatto ingenui) proseguiamo in un lavoro che continua ad apparire come “l’unico possibile”
dato il contesto: ovvero data la multidimensionalità dei problemi e la tempistica del progetto.
In una riunione di qualche tempo fa, commentava Gianni Del Conte, un inquilino, sino a qualche mese fa tra
i più aggressivi nei nostri confronti e tra i più sensibili: “andare casa per casa era l’unico modo per voi che
venivate da fuori, per capire veramente come sono le situazioni in questo quartiere. In passato, l’ho fatto
addirittura anche io, che abito qui, per organizzare le attività del calcio: dovevo passare casa per casa!”
La risorsa che è andata costruendo è preziosa non solo ai fini di questo progetto, ma anche per il futuro,
perché quello che si è sperimentato è un modo diverso di lavorare del Comune di Cinisello e di Aler, che
consente di iniziare a prendere di petto, ad affrontare e risolvere problemi e situazioni che, proprio perché
complessi e non risolvibili attraverso procedure ordinarie sono rimasti finora irrisolti e si sono andati
drammaticamente cumulando. E’ il caso di tutti quegli inquilini che, pur avendo la necessità di un alloggio più
piccolo e adeguato alle proprie esigenze si sottraevano (per mancanza di fiducia) al cambio alloggio, con il
rischio di scontare ancora una volta quella incapacità di scegliere “la cosa giusta al momento giusto” che
spesso è alla base dei loro stessi guai. O è il caso paradossale di alcuni alloggi occupati abusivamente: da
un lato gli inquilini invocano una regolarizzazione e la possibilità di pagare il corrispettivo canone e invece
vivono per anni (sino al caso limite di 14) nella paura di un possibile sgombero imminente, dall’altra Aler
(proprietaria degli alloggi) non riconosce gli occupanti, è vincolata a procedure generali e...continua a non
incassare alcun affitto. In questo senso, certamente la nostra presunzione è quella di poter costruire (a
partire da uno specifico) buone pratiche di gestione di problemi complessi che possano essere occasione di
apprendimento per le istituzioni. Il programma “né in debito né in credito” che è stato concordato con l’ufficio
legale di Aler prevede un percorso di accompagnamento delle famiglie con problemi di morosità nella
regolarizzazione. Per Aler, risulta la prima esperienza pilota in cui si avvia un programma di rientro del debito
attraverso un percorso di informazione e supporto nelle procedure anziché di natura legale. Alcuni risultati,
certamente inattesi, sono letteralmente stati incassati, laddove alcune famiglie cogliendo la dimensione del
cambiamento nella gestione del quartiere e l’occasione di un possibile cambio alloggio, hanno provveduto
spontaneamente ad avviare pratiche di pagamento del debito accumulato.
Animazione Sociale, mensile del Gruppo Abele, marzo 2002, n. 3
8
6. Ri-generare relazioni, produrre cambiamento. Un lavoro “sporco”
A partire dall’esperienza del Contratto di Quartiere di S. Eusebio, mi sembra di poter individuare una grande
quantità di stimoli e input relativamente alla riflessione sui processi di attuazione dei programmi urbani
complessi e sulla cultura delle amministrazioni. In particolare, i seguenti punti raccolgono alcune prime
riflessioni:
- in un processo di riqualificazione di un quartiere “difficile”, i soggetti coinvolti (funzionari, tecnici,
operatori ed “esperti” assoldati dentro la Pubblica Amministrazione, ma anche i soggetti politici e gli
abitanti) si cimentano in presa diretta non tanto e non solo con particolari oggetti di conoscenza (i
quartieri e le popolazioni che li abitano, la conservazione versus il rinnovo dell’edilizia e/o del tessuto
sociale, la sicurezza e la percezione del rischio da parte dei cittadini) ma soprattutto con i vincoli delle
proprie routines cognitive,
- quelle stesse routines cognitive che dentro le singole istituzioni precostituiscono sentieri per l’azione,
disattivano le capacità di scelta e di azione razionale e sconfinano spesso nell’ottusità e nella incapacità
pratica di risolvere problemi (De Leonardis, 1998; 2001) sono messe a dura prova dalla pressione del
lavoro sul campo e dalla centralità di problemi di natura complessa e multidimensionale (oggetti che non
sono oggetti “esclusivi” di nessuna delle istituzioni/settori coinvolti),
- le forti pressioni che derivano da un processo partecipativo sono una risorsa fondamentale perché
rappresentano un “catalizzatore” di cambiamento delle modalità con cui le istituzioni operano sul
territorio, nella direzione di una nuova burocrazia che muove dalla razionalità burocratica alla razionalità
di scopo, che ridefinisce in modo sistemico la propria azione a partire dalla contingenza dei problemi,
che affronta il nodo apparentemente paradossale del rispetto dei tempi e delle procedure con la capacità
di ascolto e i processi partecipativi,
- un processo partecipativo stimola un approccio ‘problem oriented’ una modalità di lavoro che rompe in
modo diretto le consuetudini di lavoro, che propone attività e co-responsabilità tra settori, tra istituzioni,
tra soggetti contro un approccio tradizionale del sistema “ruolo-mansionario”. Questo richiede un
cambiamento culturale prima ancora che organizzativo, cioé una lotta contro il mito della ‘pulizia’ …
- per l’efficacia di un processo partecipativo è strategica l’integrazione stretta con un parallelo processo di
elaborazione burocratica, tecnica e amministrativa del progetto, ovvero una collaborazione e
un’interazione costante tra consulenti, tecnici e funzionari dell’amministrazione pubblica e soggetti locali
(De Maillard, 2000),
- la produzione di soluzioni tecniche e gestionali più appropriate e più efficienti in termini economici è una
delle fonte fondamentale per legittimare e accreditare un processo partecipativo (Breckner, 1995) e i
risultati di maggior valore stanno spesso negli effetti collaterali e nei cambiamenti durevoli che esso può
innescare come catalizzatore di cambiamento.
Per gestire il lavoro in quartiere non ci siamo potuti sottrarre e - in opposizione ai principi generali di
ortodossia professionale centrata sulla purezza di competenze e ruoli (e rovesciando con sarcasmo le parole
di un’assistente sociale integralista che rifiuta per principio tale condizione) - “ci siamo dovuti sporcare” e
prenderci cura del trattamento di questioni e problemi a tutto campo, spesso in modo intrusivo (ovvero
sollecitando noi le famiglie e non viceversa restando in attesa). Per diventare ‘agenti di cambiamento’ e
lavorare con gli abitanti e con gli altri soggetti locali, ci siamo dovuti calare nel campo, abbiamo dovuto
conoscere e imparare ad usare la lingua, soggiornare lungamente, costruire familiarità, imparare il modo di
connettersi. Abbiamo dovuto “abbassare la soglia” e accogliere a tutto tondo le questioni che si ponevano.
Tutto questo non può essere riferito ad un “metodo”, una “tecnica”. A Sant’Eusebio è divenuto uno stile. E’ lo
stile che regola le relazioni, gli scambi, emotivamente molto intensi, tra tutti i diversi soggetti. Non si è
rinunciato ad urlare, anzi abbiamo tutti imparato a farlo e a distinguere cosa si cela dietro a quell’urlo: rabbia,
bisogno, passione, motivazione, determinazione…..
Lavorando nel quartiere e ‘porta a porta’, il nostro lavoro si è configurato inevitabilmente come lavoro di
manipolazione attiva del corpo sociale, di generazione e ri-generazione di relazioni, comunicazioni,
cooperazione, conflitti. In un programma di rigenerazione urbana non c’è modo di muoversi entro i confini
dettati dalla nozione e dalla retorica della “presa in carico”: se una famiglia non risultava “essere in carico” ai
servizi (questione affatto semplice da verificare) tanto più siamo stati tenuti ad occuparcene, anche in
assenza di una esplicita domanda da parte della famiglia stessa: come puoi non occupartene se il loro
alloggio è soggetto a ristrutturazione pesante e la loro posizione debitoria li priva di fatto di alcuni margini di
scelta e contrattazione? Il nostro lavoro in quartiere ha aperto interrogativi circa la nostra identità (architetti?
operatori sociali?) ma anche circa la natura ‘sociale’ dei servizi sociali (solo di recente ho avuto modo di
Animazione Sociale, mensile del Gruppo Abele, marzo 2002, n. 3
9
accreditare questa che per me era solo una ‘intuizione da campo’ e, in questo senso, certificare come
l’assunzione della natura dei servizi sociali come ri-generatori di relazioni sia tutto tranne che acquisita).
Il paradosso che emerge agli occhi di chi – come me - è impegnato all’intersezione tra le politiche e tra le
discipline (“urbane”, “sociali”…) è che agli occhi dei “tecnici” attività di ascolto, di incontro, di colloquio “porta
a porta” come quella che ho narrato sono considerate “cose da assistenti sociali” mentre in realtà, purtroppo,
la strutturazione dei Servizi Sociali del Governo Locale permane spesso centrata su una logica che sembra
scontrarsi pesantemente con le condizioni in cui prendono forma le pratiche di rigenerazione urbana e i
programmi complessi (lavoro multipartner, centratura sugli obiettivi piuttosto che sul mansionario, tempi
definiti per il processo decisionale). Mi riferisco all’impostazione e all’organizzazione dei servizi sociali sulla
base di “categorie” di disagio e di bisogno (minori, giovani, anziani, disabili, etc.), di ‘segretezza totale’ nel
trattamento dei singoli casi anche a fronte di paradossali evidenze, della nozione e della retorica della “presa
in carico” (torno a ripetere: “e chi in carico non è?”), nonché di un ostinato mito spersonalizzante e di difesa
rispetto ai rischi dello “sporcarsi” sul terreno. In questa impostazione per molti versi imperante colgo il rischio
che si perda facilmente di vista la dimensione complessiva che alcune problematiche hanno a livello locale,
le risorse che potrebbero essere utilmente attivate, che comprometta fortemente la possibilità stessa di
un’integrazione delle pratiche e quindi delle politiche. Se si assume la coesione sociale come riduzione del
rischio di marginalità, contenimento dei potenziali di conflitto e contesto favorevole al potenziamento e alla
valorizzazione delle capacità, allora essa è un obiettivo centrale per la durevolezza dei processi di
rigenerazione. Se una finalità centrale delle politiche e delle pratiche di rigenerazione urbana è ”la
promozione e il supporto di percorsi che coniugano l’autonomia dei diversi soggetti e la costruzione di
soggetti collettivi variegati che animano il ricostituirsi del tessuto locale, la contaminazione progettuale e
l’apprendimento delle esperienze” (Bifulco et al., 2001), al lavoro (sociale) che questo richiede, noi
“pianificatori urbani”, non ci sottrarremo!

Ripubblico qui di seguito una lezione molto bella di Elisabetta Forni, tratta dalla scuola estiva di eddyburg la rivista –magazine  dell’urbanista Edoardo Salzano ,perché mi sembra utile e calzante completamento di un discorso sui quartieri popolari e su un loro ripensamento culturale, politico e progettuale.
Vitaliano Serra 19.11.2009

La città come

con-vivenza




Autore:   Elisabetta Forni

Il testo della lezione alla prima sessione della “Scuola estiva di pianificazione di eddyburg”, 2008
Mi è stato chiesto di riflettere con voi sul difficile rapporto tra i bambini e la città contemporanea; sulle ragioni che la rendono invivibile per loro, come del resto per molte altre categorie sociali ‘deboli’, e su cosa fare per rendere il contesto urbano un luogo del ben-essere per tutti e della con-vivenza.

In effetti, i bambini rappresentano una sintesi sia delle debolezze sociali che toccano in vari modi altre categorie di cittadini sia delle intolleranze che i gruppi dominanti manifestano nei confronti del ‘diverso’ .

Come ampiamente dimostrato dagli studi Piagetiani in avanti, la condizione infantile è caratterizzata da limiti (seppur temporanei) di tipo percettivo, motorio e cognitivo dovuti alla gradualità dello sviluppo di certe facoltà psico-fisiche. Ciò li rende tanto vulnerabili ad una città organizzata intorno al sistema del trasporto automobilistico privato di massa quanto altri soggetti portatori di vari handicap; non controllano per niente, o male, mezzi comunicativi quali il linguaggio, la lettura e la scrittura, come molti soggetti che giungono nel paese/città di immigrazione parlando solo la propria lingua o dialetto e come le persone semi-analfabete di ritorno; sono guardati come ‘diversi’ e considerati ‘indesiderati’ o ‘fuori posto’ in molti spazi pubblici, allo stesso modo dei mendicanti e degli homeless (negli USA ci sono ristoranti che esibiscono il cartello “ingresso vietato ai cani e ai bambini”, mentre i mendicanti sono tenuti alla larga mettendo i lucchetti ai bidoni della spazzatura per evitare ai clienti la ‘disgustosa’ scena del frugale pasto a base di avanzi recuperati); e perfino laddove lo spazio pubblico sembrerebbe orientato ad accoglierli, le recinzioni entro le quali è loro consentito muoversi e giocare fanno più pensare a strategie di contenimento, come quelle riservate ai cani (trovo singolare che nei giardini e parchi urbani ci siano comunque più recinti per bambini che per cani: non dovrebbe essere il contrario?). In effetti, non ha torto la madre di una bambina che ho intervistato, quando afferma indignata che: “sono più considerati i cani dei bambini”. Della recinzione come atto violento, finalizzato al contenimento dei poveri ci parla anche nel suo intervento l’urbanista Paola Somma e tornerò tra breve sul tema.

Nelle nostre città adultocentriche, tutto quello che disturba ciò che è stato definito il “normale ordine del consumo” e che viene percepito come un rischio genera intolleranza e panico. Sui mezzi pubblici, l’arrembaggio di un gruppo di ragazzini un po’ chiassosi è visto con profonda irritazione o timore dai passeggeri adulti, e soprattutto anziani, e in strade pedonali dello shopping quali la storica via Garibaldi a Torino, se i vigili urbani colgono in flagrante due ragazzini a giocare a pallone, gli sequestrano il ‘corpo del reato’, essendo vietato dal regolamento urbano giocare a palla per strada, mentre giocare a spruzzarsi addosso l’acqua della fontana di Piazza Statuto è costato ad un altro bambino che ho intervistato un calcio nel sedere da parte di un passante. Stesso discorso proibizionista vale per i ragazzini che usano gli skate-boards, in una teoricamente felice combinazione di gioco e mezzo di trasporto, e che vengono invece sanzionati dagli agenti del traffico..

Molte delle giustificazioni degli adulti e delle istituzioni alle misure di contenimento sopra esemplificate (così come molte altre, quali l’accompagnamento sistematico, preferibilmente in auto, dei bambini a scuola e alle attività extra-scolastiche sempre sotto il controllo di adulti, oppure la predilezione per la TV e il Videogame ‘baby-sitter’ entro le protettive mura domestiche) suonano poco convincenti se non addirittura false. Tipico esempio di ciò che il sociologo norvegese Johan Galtung, autorevole studioso di conflitti e di non violenza, chiama ‘violenza culturale’. Così come il proibire l’uso della strada ai bambini o il centellinare risorse pubbliche alla riqualificazione dei quartieri degradati rappresentano esempi calzanti di violenza ‘strutturale’

Ritengo che i primi due insiemi di  parole-chiave proposti da Ilaria Boniburini come traccia concettuale da seguire per analizzare la invivibilità urbana collimino perfettamente con quanto sto provando ad argomentare attraverso le teorie galtunghiane .

La triade ‘povertà, disagio, degrado’, riassume adeguatamente l’esito della ‘violenza strutturale’ , intesa come quella violenza che non necessariamente è causata dall’azione ‘diretta’ di una persona ma che è invece “insita nella struttura e manifestatesi sotto forma di potere diseguale e, di conseguenza, di disuguali opportunità di vita” (Galtung, 1969, p. 114). E’ quella che fa dire ad una madre nera di un quartiere-ghetto di Chicago: “qui non ci sono bambini. Hanno visto troppo per essere bambini” (Forni, 2002, p.96).

La seconda triade di parole-chiave cui si riferisce Ilaria Boniburini - linguaggio, discorso, potere – introduce alla perfezione il concetto di violenza ‘culturale’, intesa come “quegli aspetti della cultura…che servono a giustificare e legittimare la violenza diretta e la violenza strutturale” (Galtung, 1990, p.291).

La città contemporanea viene insomma associata ad arte al senso di insicurezza e paura provocato dalla microcriminalità presentata come dilagante e spietata, anche quando i dati ufficiali indicano trend decrescenti dei delitti più gravi. Le conseguenti politiche di contenimento, recinzione e repressione vengono giustificate come necessarie ed efficaci, quando invece hanno ben poca forza deterrente e non fanno altro che riempire all’inverosimile le carceri di disgraziati senza speranza di riscatto sociale, una volta scontata la pena.

La ‘cultura della paura’ ha dunque la capacità di dirottare l’attenzione e la preoccupazione dell’opinione pubblica lontano dalle vere cause dell’ insicurezza e della invivibilità urbana, evitando conflitti sociali intollerabili per l’ordine economico dominante e perdita di consenso da parte dei gruppi politici espressi da tali forze economiche.

La società flessibile o ‘liquida’, per usare l’ormai famosa espressione coniata da Zigmunt Bauman, prodotta dalla violenza strutturale di un liberismo senza freni e senso etico, ha infatti tolto a molti la certezza di poter contare sia su un lavoro sicuro e giustamente remunerato sia su una con-vivenza urbana degna di questo nome. Ciò che da sempre ha segnato la superiorità della città rispetto ad altre forme di occupazione territoriale è stato la sua varietà, di persone, attività, luoghi. È il concetto di città ‘open minded’ , che rimanda alla dimensione pubblica dello spazio urbano, al sistema delle piazze e delle vie che tali piazze connettevano, in una trama che includeva tutti e che faceva vivere di profonda umanità e bellezza anche i luoghi più lontani dal centro storico.

La città fordista e poi il suo declino, lo sprawl urbano e la crisi attuale, sono le tappe che hanno segnato il declino di quel modello. Ed è così che oggi i centri urbani , piccoli e grandi, sempre più divisi tra zone affluenti e zone emarginate, svenduti alla speculazione immobiliare in cambio del piatto di lenticchie degli oneri di urbanizzazione e sempre più ossessionati da esagerate paure, stanno svendendo il basilare principio della democrazia: la con-vivenza .

Anche la necessità di cambiare radicalmente modello di sviluppo, o addirittura di adottare i principii della ‘decrescita serena’ proposti da Serge Latouche (2008) per evitare la catastrofe ambientale, viene continuamente affermata senza però che Città, Regioni e Stato prendano misure veramente adeguate all’urgenza del caso.

In compenso, si continua ciclicamente a denunciare la invivibilità delle nostre città prodotta da vecchi e nuovi capri espiatori, facili da additare e demonizzare : prostitute, zingari, homeless, tossicodipendenti e spacciatori, baby-gangs, pedofili, immigrati, etc. E tanto più basso il livello culturale, sociale ed economico di una società che produce crescenti disuguaglianze, nuove povertà e ingiustizie, tanto maggiore sarà l’efficacia della violenza culturale. Quella violenza che viene esercitata quando, ad esempio, si giustifica la schedatura delle impronte digitali dei soli bambini zingari (guarda caso) per, si dice, tutelarli rispetto a violenze ed abusi.

C’è un libro recentemente pubblicato, La città fragile (Rosso e Taricco, 2008), i cui interpreti rientrano tutti senza scampo nella categoria che i sociologi hanno denominato del capro espiatorio, o ‘nemico appropriato’. Nel leggerlo ho pensato a Georges Pelecanos, il famoso giallista, che in una recente intervista ci ammoniva a “non guardare mai dall’alto in basso un uomo, a meno che tu non lo stia aiutando a rialzarsi”.

Ed è esattamente questo che gli autori hanno fatto con prostitute, zingari, senza fissa dimora di una città italiana come tante, Torino: li hanno aiutati a rialzarsi per farceli incontrare, guardare negli occhi (magari anche in quelli strappati dalle orbite e messi sott’alcool dell’albanese Munira), riconoscere come non-altri rispetto a noi, ossia come persone. Sono loro i più appropriati ad incarnare i nostri ‘nemici’ perché sono indifendibili e ingiustificabili. Minacciano i nostri valori, la nostra sicurezza quotidiana prodotta dai comportamenti devianti, predatori, immorali che ci infliggono quasi mai direttamente, più spesso per sentito dire dal vicino di casa, dal collega di lavoro o dall’amico, dalla televisione. E sono comportamenti ingiustificabili, in quanto, si pensa, dettati sostanzialmente dal rifiuto di integrarsi e ‘rimboccarsi le maniche’ in una società come la nostra dove il mito del self-made man integerrimo continua ad avere la sua presa e si alimenta delle ceneri del Welfare State. A poco servono i richiami dei sociologi alla ben più costosa (per la collettività) criminalità detta dei ‘colletti bianchi’(vedi il caso Parmalat o le morti sul lavoro) o di rari illuminati amministratori pubblici sul rischio di strumentalizzazione politica di queste paure per mantenere o conquistare consensi elettorali facili. Di fronte alla forza mediatica e alla strumentalizzazione politica del disagio generalizzato, prodotto da un futuro economico, sociale ambientale sempre più incerto, è difficile far passare argomenti convincenti sugli interventi complessi su scala urbana necessari per contrastare più efficacemente la micro-criminalità.

Le micro-storie narrate in prima persona dai loro protagonisti ci aiutano anche ad entrare in quei vuoti urbani che generalmente temiamo di avvicinare e che troviamo ben descritti attraverso l’efficace metafora della lettura della mano, della quale le donne zingare sono grandi esperte:

Noi li chiamiamo zingari, e con lo stesso disprezzo loro ci chiamano gaje. Secondo loro, sulla mano c’è tutto, strade e sentieri. Ogni mano è una mappa e racconta una storia. Immaginate che la linea della vita sia una tangenziale su cui corrono i TIR. Di fronte, cè una via che comincia e finisce nel nulla: via della Fortuna. Siamo al confine tra una piccola e una grande città. La periferia della prima - il quartiere Promontorio – si trova sul rilievo tra il pollice e la tangenziale . Nel palmo, un pianoro con capannoni industriali, posteggi, ipermercati, stadio e supercarcere. Sul polso volano gabbiani. Sotto, c’è una grande discarica. Fra la tangenziale e la via della Fortuna, proprio dove corre il confine, c’è uno spiazo d’asfalto ed erba stentata, ove si vedono uomini, fili da stendere, auto scrostate, sedie da campeggio, stufe a legna, poltrone sfondate e roulotte disposte a ferro di cavallo. I rom sono lì: a tre km dal supercarcere , dove hanno certamente un cugino, a due dallo stadio, dove prendono l’acqua e a meno di uno dalla grande discarica, che per loro è una specie di hard discount” (Ibid., p.12).

Il modo semplice e diretto adottato per entrare a contatto con questo mondo altro-da-noi, è il ‘viaggio’ in tram, dall’atollo lucente del centro urbano, gentrificato e videosorvegliato al capolinea perso nel nulla. Ma il capolinea di questo testo, scarno e denso insieme, è tutt’altro che un punto di arrivo: apre scenari, ci aiuta a sperimentare uno sguardo diverso su un mondo che ci spaventa anche perché dentro di noi sappiamo quanto sottile e rapida da oltrepassare sia la ‘linea d’ombra’ oltre la quale il nostro ‘esserci nel mondo’ potrebbe subire quella “crisi della presenza” di cui parlava Ernesto De Martino e che riprenderò tra breve. A ricordarcelo è l’uomo senza casa e senza nome, soprannominato Sandokan, che ci congeda dall’ultimo racconto (non a caso intitolato Senza) . Lo trovarono morto assiderato su una panchina dove si era fermato una notte per riposarsi dicendo a sé stesso :”Due minuti, non uno di più. Invece si assopì”.

Ma forse la città fragile può nascondere anche qualità preziose e insostituibili, come ci suggerisce Patrick Chamoiseau : “Texaco era ciò che la città conservava dell’umanità della campagna. E l’umanità è quel che c’è di più prezioso per una città. E di più fragile” (Chamoiseau, 1994, p.287). Per provare allora a descrivere la città vivibile che abbiamo perduto e che dovremmo ricreare, e con ciò affrontare il terzo e ultimo insieme di parole-chiave: benessere, vivibilità, urbanité , mi verranno in aiuto altri frammenti di testi. Li ho scelti tra autori che, pur avendo affrontato il tema da differenti punti di vista disciplinari e generi di scrittura –antropologico, letterario, urbanistico, architettonico, psicanalitico - esprimono a mio parere visioni stupendamente accattivanti del benessere prodotto dal con-vivere lo spazio , e in particolare da tre aspetti che ritengo essenziali : l’appaesamento, la sacralità e la bellezza.

Ciò che fa sentire al riparo dalla crisi del ‘non esserci nel mondo’ è parte di quello che è stato chiamato da Leroi-Gourhan ‘appaesamento’ (1977):

“La pratica dell’appaesamento, vale a dire il processo di modellamento dello spazio della vita, è per la specie umana un processo fondamentale, radicale proprio nel senso di costitutivo di radici” (Signorelli, 1983).

Lo individuiamo grazie agli abitanti del Rione Terra nel centro storico di Pozzuoli, evacuati (o deportati?) a Monterusciello :

Le porte del Rione Terra erano sempre aperte e ci stavano un sacco di entrate! Il Rione Terra era fatto come…un monte” Signorelli, 1989, p.18)

Mia nonna aveva la casa proprio vicino al Tempio di Se rapide, ci stava un fabbricato con la finestrella e lei mi spiegava che anticamente c’era il mercato degli schiavi….che poi là vedevi pure gente che passeggiava e si riunivano pure i vecchierelli, che si facevano la chiacchierata (Antonio C,, 27 anni, pescatore)” (ibid., 1983, p.19)

Ne troviamo tracce significative anche nella storia del contadino calabrese che Ernesto De Martino convince a salire sulla sua auto per farsi indicare come raggiungere un luogo non segnato sulla mappa : “la sua diffidenza si andò via via tramutando in angoscia, perché ora, da finestrino da cui sempre guardava, aveva perduto la vista del campanile di Marcellinara, punto di riferimento del suo spazio domestico. Per quel campanile scomparso, il povero vecchio si sentiva completamente spaesato: e solo a fatica potemmo condurlo sino al bivio giusto e ottenere quel che ci occorreva sapere. Lo riportammo poi indietro in fretta , secondo l’accordo: e sempre stava con la testa fuori dal finestrino, scrutando l’orizzonte, per veder riapparire il suo campanile. Finché quando finalmente lo vide, il suo volto si distese e il suo vecchio cuore si andò pacificando, come per la riconquista di una patria perduta. Giunti al punto dell’incontro, si precipitò fuori dall’auto senza neppure attendere che fosse completamente ferma , scomparendo selvaggiamente senza salutarci, ormai fuori dalla tragica avventura che lo aveva strappato dallo spazio esistenziale del campanile di Marcellinara” (De Martino, 2002, 480-481).

Lo ritroviamo nello slum di Fort-de-France chiamato Texaco, descritto nell’omonimo romanzo, in cui si narra di un urbanista incaricato di progettarne la distruzione, ma poi convinto a conservarlo dai suoi abitanti, e in particolare dalla carismatica ‘fondatrice’ Marie-Sophie:

Lei mi insegnò a rileggere i due spazi della nostra città creola: il centro storico, che vive delle esigenze nuove del consumo, e la cortina di occupazione popolare, ricca della profondità della nostra storia. Fra quei luoghi, il palpito umano che circola. Al centro si distrugge il ricordo, per ispirarsi alla città d’Occidente e rinnovare. Nella corona si sopravvive di memorie. Al centro ci si perde nel moderno del mondo; qui si portano alla luce vecchissime radici, non profonde e rigide ma diffuse, profuse, sparse nei tempi con quella leggerezza conferita dalla parola. Questi poli, collegati alla volontà delle forze sociali, strutturarono coi loro conflitti i volti della città” (Chamoiseau, 1994, p.174).

Per il richiamo alla sacralità della città, vi invito alla lettura integrale delle bellissime pagine che vi dedica Enzo Scandurra e mi limito qui a riprenderne un breve passo:

In un certo senso la città è già di per sé un luogo sacro, in quanto oikos, casa, dimora. Questo ‘sacro’ non è quello che viene conferito alla città dall’essere luogo delegato e privilegiato di una religione…. Il sacro di cui parlo è - per dirla con Lévy-Strauss – ciò che attiene all’ordine del mondo, ciò che garantisce questo ordine. Sacro è ciò che ci difende dal rischio del caos, dall’angoscia del nulla… e custodisce, o perpetua, un ordine antico e inviolabile” (Scandurra, 2007, p. 130)

Infine, la bellezza, alla quale lo psicanalista James è una politica che si sottrae ‘alle battaglie di un realizzarsi finalistico’ e recupera ‘i criteri dell’estetica – unità, linea, ritmo, tensione, eleganza- che possono …offrirci un nuovo insieme di qualità’. Come fanno quelle creature degli abissi marini nascoste alla vista, mai percepite eppure dotate di colori scintillanti e di una bellezza senza scopo, cioè della vera bellezza. Che non ha un fine, non ha intenzionalitàHillman ha dedicato un volume (2002) e della quale dialoga con l’architetto Truppi in un altro libro dedicato all’anima dei luoghi.

La politica della bellezza “” (Truppi, 2004, p.139).

E a proposito della voracità di massa che ha fatto man bassa degli spazi pubblici, Franco Cassano ha auspicato che : ”quando avremo restituito a tutti le strade, le spiagge e i giardini, quando saremo guariti dalla ricerca ossessiva della separazione e della distinzione…allora la bellezza tornerà a visitarci” (Cassano, 1996)

Se è vero, come sostiene Truppi, che il malessere che l’individuo sta vivendo dipende molto dall’esterno, ebbene la ‘politica della bellezza’, con la sua enfasi sulla qualità e cura dei luoghi suggerisce una risposta positiva e convincente al male di vivere. E l’attenzione per l’esterno è anche garanzia della sostenibilità (ambientale e perciò anche urbana), ossia della trasmissione alle generazioni future dei saperi e delle pratiche necessarie al con-vivere.

L’ultima parola ad un bambino di Torino, abitante dell’estrema periferia nord-est, chiamata non a caso Barriera di Milano e molto vicina al campo nomadi descritto ne La città fragile. Quando gli abbiamo chiesto cosa pensa della zona dove vive, la sua risposta è stata tanto breve quanto incisiva, un piccolo capolavoro di saggezza, come spesso solo i bambini sanno fare. Ha detto:

Mi piacerebbe che ci fossero più cose e che l’ambiente fosse bello”.

Nessun commento:

Posta un commento