mercoledì 31 dicembre 2014
domenica 28 dicembre 2014
Lavoro zero Pubblicato il 24 dicembre 2014 · in alfapiù, società G.B. Zorzoli
Lavoro zero
G.B. Zorzoli
La rivoluzione digitale ha già comportato la distruzione
di milioni di posti di lavoro, ma ce n’est qu’un debut: ad esempio le
banche europee hanno digitalizzato fra il 20% e il 40% delle loro procedure,
con la piena digitalizzazione ridurranno del 20-25% il numero di impiegati. Nei
prossimi vent’anni, quasi metà di chi lavora nelle libere professioni potrebbe
essere sostituito da tecnologie digitali. Anche la maggior parte degli analisti
che considerano positiva la metamorfosi in corso, ammettono che per un periodo
relativamente lungo avremo più distruzione che creazione di posti di lavoro.
«Growth without jobs»
è il titolo dell’editoriale della direzione del “New York Times”, pubblicato l’1 agosto 2014 . Malgrado
l’eccezionale crescita del PIL nel secondo trimestre dell’anno (+4%), «per il
quinto mese consecutivo la settimana lavorativa media è rimasta ferma a 33,7 ore.
Gli straordinari, che una volta rappresentavano un sostegno sicuro per i
lavoratori americani, in luglio è crollato per il secondo mese consecutivo.
Nella migliore delle ipotesi, il salario orario medio nell’ultimo anno ha
tenuto il passo con l’inflazione… Fra i giovani che riescono a trovare lavoro,
molti hanno impieghi part-time o nella fascia retributiva bassa, nei quali non
utilizzano le competenze acquisite negli studi o nelle precedenti esperienze
professionali».
Concorda il presidente della Federal Reserve Janet
Yellen, che il 22 agosto 2014 , al summit fra i
responsabili delle banchi centrali, ha definito «fragile» il mercato del lavoro
americano: eccesso di disoccupati di lunga durata, troppi posti di lavoro
part-time imposti da ragioni economiche e non da scelte volontarie. Queste
valutazioni sono confermate dall’OCSE: l’indice Gini (se vale zero indica la
massima uguaglianza, se vale uno la massima disuguaglianza) negli Stati Uniti è
pari a 0,38, contro 0,34 in Italia, 0,30 in Germania, 0,29 in Francia e Olanda.
E, sempre negli Stati Uniti, il 10% più ricco della popolazione ha un reddito
5,9 volte quello del 10% più povero (4,3 in Italia, 3,5 in Germania, 3,4 in
Francia, 3,3 in Olanda).
Il denaro affluisce infatti sempre di più verso il capitale
e sempre meno verso il lavoro, ricreando una polarizzazione sociale, dove al
vertice stanno gli happy few del potere reale, soprattutto
finanziario. La quota di ricchezza in mano all’1% che sta al vertice, è
cresciuta in USA dal 9% degli anni ’70 del secolo scorso all’attuale 22%. Ed è
l’1% ai vertici della scala sociale a orientare gli investimenti, quindi lo
sviluppo di una società sempre più disarticolata in termini professionali e
umani. Secondo la cruda definizione del sociologo David Graeber, i posti di
lavoro si dividono ormai in due categorie: i pochi possessori delle competenze
richieste dal mercato e l’enorme massa dei bullshit jobs.
Non stiamo dunque
assistendo alla fine del lavoro, ma all’abolizione crescente di quelli che
richiedono competenze specifiche, sostenute da buona manualità o da una normale
capacità intellettuale. Si sta configurando un sistema economico dove, accanto
a un numero limitato di creativi altamente qualificati, che nei settori high
tech svolgeranno attività a loro volta minacciate da repentina obsolescenza,
serviranno sempre di più soltanto persone da impiegare in lavori che non
richiedono particolari professionalità. Potendo pescare in una platea molto più
vasta di donne e uomini in cerca di occupazione, precarietà e bassa
retribuzione saranno le caratteristiche dominanti.
Poiché alla lunga una situazione del genere rischia di far
saltare il banco, in assenza di cambiamenti radicali si andrà necessariamente
verso l’adozione di strumenti come il reddito di cittadinanza; ovviamente di
entità contenuta e condizionato dall’accettazione, quando serve, di lavori
occasionali. Cambiamenti radicali hanno però come prerequisito proposte
alternative credibili, cioè in grado di fare i conti, concretamente, con la complessità dell’odierno assetto
sociale., di cui oggi si avverte drammaticamente l’assenza.
The Opinion Pages | EDITORIAL from NEW YORK TIMES
Growth Without Jobs
In a statement last Wednesday — just hours
after the government reported headline-grabbing economic growth of 4 percent in
the second quarter — the Federal Reserve said it would continue to stimulate the economy
because, despite overall growth, the labor market remained weak. In a speech the same day in Kansas City , Mo. , President
Obama echoed the Fed. “I’m glad that G.D.P. is growing, and I’m glad that
corporate profits are high, and I’m glad that the stock market is booming,” he
said, (which it was before profit-taking at week’s end dented its performance).
“But what I really want to see is a guy working 9
to 5 , and then working some overtime.”
Those cautionary views were validated on Friday, when the employment
report for July showed slower job growth, flat earnings, stagnant hours and
stubbornly high long-term unemployment. The challenge now, as always, is to
translate official concern over the job market into change for the better.
The economy added 209,000 jobs last month, a
decent enough figure in and of itself, but a slow start to the third quarter
compared with the average monthly gain of 277,000 last quarter. Worse, July’s
relatively slow pace of growth may not be sustainable. Many of last month’s job
gains were in automobile manufacturing, which could reflect a statistical blip
from shorter-than-usual factory shutdowns in July rather than new positions
added.
Moreover, the upswing in the auto industry is tied to a surge in high-cost auto loans to uncreditworthy borrowers, an unstable
foundation for future growth. In addition, the sectors that generally add the
most jobs each month all slowed in July from their pace in June, including bars
and restaurants, retail, health care and temporary services. As for the
president’s vision of a 40-hour week plus overtime — well, if only. For the
fifth straight month, the average workweek for most of the labor force was
stuck at 33.7 hours. Factory overtime, once a mainstay in the lives of
working-class Americans, dropped in July for the second straight month. Average
hourly wages have, at best, kept pace with inflation over the past year. Pay is
languishing, but working longer hours is not an option.
In its statement, the Fed said it was
basically a tossup whether the economy would speed up or slow down. Faster
growth, however, generally requires a healthy real estate market and that
requires a healthy job market, especially for younger workers.
But in July, the jobless rate for workers ages 25 to 34 was 6.6 percent,
compared with 6.2 percent over all. Among young people who are working, many
are in low-wage or part-time jobs, or jobs that otherwise do not make use of
their education or experience. So it is not surprising that the sale of new
homes plummeted recently at the fastest pace in nearly a year. Sales of
existing homes have risen, a positive sign but a questionable trend given the
still-ailing job market.
L’invenzione dei lavori inutili di Christian Marazzi
L’invenzione dei lavori inutili
di Christian Marazzi
Il più grande economista del secolo scorso, John Maynard Keynes, in un suo scritto del 1930 prevedeva che entro la fine del secolo lo sviluppo della tecnologia avrebbe permesso la riduzione della settimana lavorativa a sole quindici ore. Keynes basava la sua previsione sulla base della limitatezza dei bisogni materiali.
Non solo questa sua previsione non si è avverata (la crescita dei bisogni si è rivelata inesauribile), ma la tecnologia stessa è stata utilizzata per inventare nuovi modi per farci lavorare tutti sempre di più. Un vero paradosso che viene di solito attribuito al consumismo, responsabile della creazione di un’infinità di nuovi lavori e industrie per soddisfare il desiderio di nuovi giocattoli e i piaceri più diversi.
Eppure, se si guarda all’evoluzione dell’occupazione dell’ultimo secolo si nota che tanto è crollata (come previsto) l’occupazione industriale e agricola come effetto dell’automazione, e tanto, anzi tantissimo sono aumentate le libere professioni, i lavori dirigenziali, d’ufficio, di vendita e di servizio, passando da un terzo degli impieghi complessivi a tre quarti.
I lavori che veramente sono esplosi sono quelli amministrativi, con la creazione di intere nuove industrie come quella dei servizi finanziari o del telemarketing, di settori come quello giuridico-aziendale, dell’amministrazione accademica e sanitaria, delle risorse umane e delle pubbliche relazioni. Ai quali andrebbero aggiunti gli impieghi che forniscono a queste industrie assistenza amministrativa, tecnica o relativa alla sicurezza come pure l’esercito di attività secondarie, dai toelettatori di cani ai fattorini che consegnano pizze a chi lavora tanto tempo in altri settori.
I tagli all’occupazione, i licenziamenti e i pre-pensionamenti il più delle volte riguardano lavori socialmente utili, mentre aumentano le attività amministrative e il tempo di lavoro da dedicare a seminari motivazionali, ad aggiornamenti dei profili
Facebook o a scaricare roba. Per non parlare di un altro paradosso, quello che vede i lavori che veramente giovano ad altre persone, come quello di infermieri, spazzini, badanti o meccanici, pagati una miseria.
È difficile dare una spiegazione economica a questo aumento delle attività amministrative e di controllo di lavori altrui.
Come ricorda l’antropologo David Graeber, nell’economia di mercato “questo è esattamente quel che non dovrebbe succedere”, quello che la concorrenza di mercato dovrebbe correggere. Di fatto, l’ultima cosa che deve fare un’azienda desiderosa di profitti è sborsare soldi a lavoratori di cui non ha davvero bisogno.
Forse la spiegazione c’è, non è economica ma politica e morale: liberare tempo per sé, lavorare meno per lavorare tutti e meglio, è visto con sospetto, come se comportasse la perdita di potere sulla vita degli altri. Meglio quindi inventare lavori inutili, ma utili per piegare tutti all’etica del lavoro.
mercoledì 17 dicembre 2014
Il conflitto redistributivo del capitale scatenato
altro bel contributo dal sito Eddyburg.it:
Il conflitto redistributivo del capitale scatenato
8
Uno sciopero generale che contribuisca ad arrestare la politica distruttiva del "capitalismo scatenato", necessaria premessa per la faticosa costruzione di un sistema economico sociale alternativo. Il manifesto, 12 dicembre 2014
Lo sciopero generale contro il Jobs Act e più in generale contro la legge di stabilità, mette in luce la fallimentare politica economica del governo che asseconda la deriva liberista del “capitalismo scatenato”, come, una diecina di anni fa, l’economista inglese Andrew Glynn definiva la nuova fase del capitalismo. Una risposta allo spostamento nella distribuzione dei redditi a favore del lavoro registrato negli anni sessanta-settanta.
Da allora ripristino della disciplina macroeconomica, privatizzazioni, incoraggiamento delle forze di mercato, focalizzazione delle imprese sul “valore per l’azionista” sono stati i pilastri di una feroce controffensiva: il conflitto distributivo ha cambiato segno, e, per l’effetto congiunto di minore e peggiore occupazione e di più bassi salari reali, la quota di reddito che va al lavoro è costantemente diminuita.
Quell’offensiva del capitale, che oggi tocca livelli prima impensabili in Italia, non si limita a riportare indietro le lancette della storia per tornare alla situazione preesistente. Se così procedessero i processi storici troverebbe legittimità la teoria del pendolo: uno spostamento dei rapporti di potere eccessivo ad un certo punto si ferma e si mettono in moto le forze che spingono in direzione contraria. Così si potrebbero leggere, in questo caso, la risposta del capitale di cui abbiamo parlato e quella che oggi cerca di dare il sindacato anche con lo sciopero. Ma la situazione reale è molto più complessa perché negli ultimi decenni è cambiato il mondo ed è cambiato lo stesso capitalismo.
La globalizzazione, la connessa Ascesa della finanza — titolo questo di un bellissimo e preveggente libro del caro Silvano Andriani recentemente scomparso — e, più di recente, la rivoluzione digitale hanno delineato un capitalismo che ha fatto un enorme salto di qualità. In questa nuova fase di un capitalismo per il quale non troviamo ancora una denominazione condivisa – oscillando dal finanzcapitalismo di Gallino al capitalismo patrimoniale di Piketty – gli elementi che emergono sono due.
Il primo è costituito dalla globalizzazione del mercato del lavoro che mette in competizione, in termini di costo, il lavoro delle economie sviluppate con quello delle economie emergenti. Gli effetti di questa nuova competizione sono bidirezionali: da un lato si sposta la produzione dai paesi ad elevato costo del lavoro verso quelli a costo più basso, dall’altro i lavoratori delle aree più arretrate emigrano nelle aree sviluppate per fare i lavori più pesanti ed a condizioni rifiutate dai residenti. L’effetto di questi processi sul conflitto distributivo è, per i paesi sviluppati, quello di un abbassamento dei salari e di una riduzione dei diritti. Il secondo elemento che caratterizza questa fase è la rivoluzione digitale che ha già investito pesantemente la produzione manifatturiera e che investirà sempre di più i settori del commercio e dei servizi, pubblici e privati, riducendo la quantità di lavoro necessaria e modificando profondamente, contenuti e modalità della prestazione lavorativa.
I due elementi segnalati si intrecciano tra di loro, e contribuiscono allo stesso processo: una svalutazione del lavoro impensabile fino a pochi anni fa che si manifesta a livello sovranazionale ed agisce su un terreno senza regole come quello finanziario nel quale il capitalismo scatenato è diventato sfuggente ed inafferrabile. I processi di cui stiamo parlando non sono ancora compiuti, ma in pieno svolgimento e, quindi, le situazioni che si vivono nei vari paesi sono differenziate secondo le loro storie e secondo le modalità con le quali si stanno affrontando i processi stessi.
Non è un caso che l’area dei paesi sviluppati si articoli in tre gruppi: economie che si affacciano verso una possibile nuova fase di crescita come gli Usa, economie che hanno superato la crisi anche se non hanno ritrovato il sentiero della crescita come Germania e Nord Europa, economie che ristagnano ed indietreggiano. Questo significa che, pur di fronte ad una comune controffensiva del capitale, non è ineluttabile che i paesi più sviluppati subiscano contemporaneamente riduzioni del lavoro, riduzioni dei diritti ed indebolimento e declino delle strutture produttive. Un mix questo che può essere veramente esplosivo. L’Italia si colloca nel terzo gruppo ed è sulla soglia di un’esplosione sociale.
Lo scontro che la agita oggi, protagonisti Cgil, Uil e governo si colloca in questo contesto e la partita appare decisiva per il nostro futuro. Se è vero che siamo in mezzo ad una mutazione che supera i confini nazionali è anche vero che le modalità scelte dal nostro governo sono di rassegnazione, al di la delle chiacchiere su speranze e futuro, ad un ridimensionamento di lavoro, diritti e futuro produttivo.
Aver fatto della subordinazione alle logiche confindustriali e dello scontro col sindacato il perno delle politiche del governo ci sta cacciando in un vicolo cieco. In Italia non dobbiamo dimenticare che, a parte alcune isole felici di una parte dell’imprenditoria che ha saputo investire, innovare ed esportare, le ricette del passato (contenimento del costo del lavoro e svalutazioni competitive), non hanno aiutato il capitalismo italiano a crescere puntando sull’innovazione, sulla ricerca e sull’aumento della dimensione di impresa. Anche per questo, quello che abbiamo oggi di fronte è un capitalismo industriale che sa solo chiedere più libertà di licenziare, meno tasse, privatizzazioni per fare investimenti sicuri e grandi opere nelle quali lucrare; un capitalismo incapace di progettare una possibile politica industriale di investimenti, di ricerca, di nuovi rapporti produzione – università — ricerca…
Questo capitalismo non andrebbe coccolato con un po’ di spiccioli elargiti a pioggia accontentandolo e facendo copia/incolla delle sue ricette, ma stimolato e sfidato a fare un salto di qualità. Certo questo richiederebbe un governo con una capacità progettuale, con un piano dei trasporti e della mobilità, con un piano di risanamento ambientale e del territorio, con un piano industriale ed una visione dei settori del futuro.
Ed invece noi abbiamo di fronte una classe industriale ed un governo assolutamente inadeguati alle sfide del nostro tempo. E’ in questo quadro che si colloca lo sciopero del 12. Per la complessità dei problemi di cui abbiamo parlato, non possiamo e non dobbiamo illuderci che con esso si possa fare il miracolo di capovolgere questa situazione. Ma la “politica” di questo governo e la sua “non politica” vanno contrastate e fermate. Fare questo sarebbe già tanto ed una buona riuscita delle mobilitazioni di oggi è per questo essenziale. Importante sarà, però, soprattutto il dopo.
Sarà quello che accadrà nel Pd e quello che accadrà a sinistra. Un futuro vicino, ad oggi imprevedibile, la cui direzione più o meno a sinistra dipenderà sì dall’esito dello sciopero, ma soprattutto da come sapremo ricostruire un pensiero di sinistra volto al futuro più che al passato. Ma questo, in tempi di corruzioni – degenerazione — evaporazione dei partiti — astensionismo dilagante, è proprio un altro capitolo
Lo sciopero generale contro il Jobs Act e più in generale contro la legge di stabilità, mette in luce la fallimentare politica economica del governo che asseconda la deriva liberista del “capitalismo scatenato”, come, una diecina di anni fa, l’economista inglese Andrew Glynn definiva la nuova fase del capitalismo. Una risposta allo spostamento nella distribuzione dei redditi a favore del lavoro registrato negli anni sessanta-settanta.
Da allora ripristino della disciplina macroeconomica, privatizzazioni, incoraggiamento delle forze di mercato, focalizzazione delle imprese sul “valore per l’azionista” sono stati i pilastri di una feroce controffensiva: il conflitto distributivo ha cambiato segno, e, per l’effetto congiunto di minore e peggiore occupazione e di più bassi salari reali, la quota di reddito che va al lavoro è costantemente diminuita.
Quell’offensiva del capitale, che oggi tocca livelli prima impensabili in Italia, non si limita a riportare indietro le lancette della storia per tornare alla situazione preesistente. Se così procedessero i processi storici troverebbe legittimità la teoria del pendolo: uno spostamento dei rapporti di potere eccessivo ad un certo punto si ferma e si mettono in moto le forze che spingono in direzione contraria. Così si potrebbero leggere, in questo caso, la risposta del capitale di cui abbiamo parlato e quella che oggi cerca di dare il sindacato anche con lo sciopero. Ma la situazione reale è molto più complessa perché negli ultimi decenni è cambiato il mondo ed è cambiato lo stesso capitalismo.
La globalizzazione, la connessa Ascesa della finanza — titolo questo di un bellissimo e preveggente libro del caro Silvano Andriani recentemente scomparso — e, più di recente, la rivoluzione digitale hanno delineato un capitalismo che ha fatto un enorme salto di qualità. In questa nuova fase di un capitalismo per il quale non troviamo ancora una denominazione condivisa – oscillando dal finanzcapitalismo di Gallino al capitalismo patrimoniale di Piketty – gli elementi che emergono sono due.
Il primo è costituito dalla globalizzazione del mercato del lavoro che mette in competizione, in termini di costo, il lavoro delle economie sviluppate con quello delle economie emergenti. Gli effetti di questa nuova competizione sono bidirezionali: da un lato si sposta la produzione dai paesi ad elevato costo del lavoro verso quelli a costo più basso, dall’altro i lavoratori delle aree più arretrate emigrano nelle aree sviluppate per fare i lavori più pesanti ed a condizioni rifiutate dai residenti. L’effetto di questi processi sul conflitto distributivo è, per i paesi sviluppati, quello di un abbassamento dei salari e di una riduzione dei diritti. Il secondo elemento che caratterizza questa fase è la rivoluzione digitale che ha già investito pesantemente la produzione manifatturiera e che investirà sempre di più i settori del commercio e dei servizi, pubblici e privati, riducendo la quantità di lavoro necessaria e modificando profondamente, contenuti e modalità della prestazione lavorativa.
I due elementi segnalati si intrecciano tra di loro, e contribuiscono allo stesso processo: una svalutazione del lavoro impensabile fino a pochi anni fa che si manifesta a livello sovranazionale ed agisce su un terreno senza regole come quello finanziario nel quale il capitalismo scatenato è diventato sfuggente ed inafferrabile. I processi di cui stiamo parlando non sono ancora compiuti, ma in pieno svolgimento e, quindi, le situazioni che si vivono nei vari paesi sono differenziate secondo le loro storie e secondo le modalità con le quali si stanno affrontando i processi stessi.
Non è un caso che l’area dei paesi sviluppati si articoli in tre gruppi: economie che si affacciano verso una possibile nuova fase di crescita come gli Usa, economie che hanno superato la crisi anche se non hanno ritrovato il sentiero della crescita come Germania e Nord Europa, economie che ristagnano ed indietreggiano. Questo significa che, pur di fronte ad una comune controffensiva del capitale, non è ineluttabile che i paesi più sviluppati subiscano contemporaneamente riduzioni del lavoro, riduzioni dei diritti ed indebolimento e declino delle strutture produttive. Un mix questo che può essere veramente esplosivo. L’Italia si colloca nel terzo gruppo ed è sulla soglia di un’esplosione sociale.
Lo scontro che la agita oggi, protagonisti Cgil, Uil e governo si colloca in questo contesto e la partita appare decisiva per il nostro futuro. Se è vero che siamo in mezzo ad una mutazione che supera i confini nazionali è anche vero che le modalità scelte dal nostro governo sono di rassegnazione, al di la delle chiacchiere su speranze e futuro, ad un ridimensionamento di lavoro, diritti e futuro produttivo.
Aver fatto della subordinazione alle logiche confindustriali e dello scontro col sindacato il perno delle politiche del governo ci sta cacciando in un vicolo cieco. In Italia non dobbiamo dimenticare che, a parte alcune isole felici di una parte dell’imprenditoria che ha saputo investire, innovare ed esportare, le ricette del passato (contenimento del costo del lavoro e svalutazioni competitive), non hanno aiutato il capitalismo italiano a crescere puntando sull’innovazione, sulla ricerca e sull’aumento della dimensione di impresa. Anche per questo, quello che abbiamo oggi di fronte è un capitalismo industriale che sa solo chiedere più libertà di licenziare, meno tasse, privatizzazioni per fare investimenti sicuri e grandi opere nelle quali lucrare; un capitalismo incapace di progettare una possibile politica industriale di investimenti, di ricerca, di nuovi rapporti produzione – università — ricerca…
Questo capitalismo non andrebbe coccolato con un po’ di spiccioli elargiti a pioggia accontentandolo e facendo copia/incolla delle sue ricette, ma stimolato e sfidato a fare un salto di qualità. Certo questo richiederebbe un governo con una capacità progettuale, con un piano dei trasporti e della mobilità, con un piano di risanamento ambientale e del territorio, con un piano industriale ed una visione dei settori del futuro.
Ed invece noi abbiamo di fronte una classe industriale ed un governo assolutamente inadeguati alle sfide del nostro tempo. E’ in questo quadro che si colloca lo sciopero del 12. Per la complessità dei problemi di cui abbiamo parlato, non possiamo e non dobbiamo illuderci che con esso si possa fare il miracolo di capovolgere questa situazione. Ma la “politica” di questo governo e la sua “non politica” vanno contrastate e fermate. Fare questo sarebbe già tanto ed una buona riuscita delle mobilitazioni di oggi è per questo essenziale. Importante sarà, però, soprattutto il dopo.
Sarà quello che accadrà nel Pd e quello che accadrà a sinistra. Un futuro vicino, ad oggi imprevedibile, la cui direzione più o meno a sinistra dipenderà sì dall’esito dello sciopero, ma soprattutto da come sapremo ricostruire un pensiero di sinistra volto al futuro più che al passato. Ma questo, in tempi di corruzioni – degenerazione — evaporazione dei partiti — astensionismo dilagante, è proprio un altro capitolo
sabato 13 dicembre 2014
La questione morale è politica
Sul tema di Mafiacapitale e cultura dell'illegalità diffusa Vi invio un bell'articolo pubblicato dal sito Eddyburg.it e da "il manifesto" :
La questione morale è politica
di PIERO BEVILACQUA 13 Dicembre 2014
Il paesaggio di corruttela e intreccio criminale che domina da anni la vita politica e amministrativa di Roma, a essere onesti, non dovrebbe stupirci...>>>
di PIERO BEVILACQUA 13 Dicembre 2014
Il paesaggio di corruttela e intreccio criminale che domina da anni la vita politica e amministrativa di Roma, a essere onesti, non dovrebbe stupirci...>>>
Il paesaggio di corruttela e intreccio criminale che domina da anni la vita politica e amministrativa di Roma, a essere onesti, non dovrebbe stupirci più di tanto. E' sufficiente avere buona memoria delle cronache politico-affaristiche degli ultimi 20 anni per capire una verità elementare: la corruzione, nella vita del nostro paese, non è l'eccezione, ma la norma. Lo dicono, peraltro, le statistiche internazionali. Essa emerge ogni qualvolta la magistratura scoperchia la crosta della legalità formale e mostra il corso reale degli affari. E' sufficiente affondare un po' l'unghia su qualunque superficie e zampilla l'umore purulento.
Costituirebbe tuttavia un errore interpretare il problema grave ed enorme nella sua normalità ricorrendo a categorie morali di interpretazione. Perché, come dovrebbe essere ovvio, la corruzione e la predazione sistematica del bene pubblico, sono un problema eminentemente politico. Possiamo chiederci perché tutti gli scandali esplosi negli ultimi anni vedono coinvolti uomini politici, rappresentati di partiti, eletti nelle amministrazioni locali? Perché nell'affare fraudolento, direttamente o indirettamente, è protagonista o ha comunque un ruolo di rilievo la figura del partito politico? Dovremmo ricordarci che per oltre tre decenni, nella seconda metà del '900, in quasi tutte le democrazie occidentali, i partiti politici sono stati, come diceva Gramsci, gli «organizzatori della volontà collettiva». Essi fornivano coesione sociale, rappresentanza, voce alle masse dentro lo stato. Erano dei grandi collettori d'istanze sociali e per ciò stesso educatori di legalità, insegnavano il valore del conflitto sociale come strumento collettivo di espressione e di emancipazione. La lotta sociale educa gli individui a pensarsi come corpo sociale e a trovare in essa, e non nelle scorciatoie personali, o nelle pratiche truffaldine, la via per far valere le proprie ragioni e i propri diritti. Com'è noto, da tempo, questa realtà ha fatto naufragio.
I partiti di massa sono stati divorati al loro interno dai poteri economico-finanziari. In Italia – ha scritto Luigi Ferrajoli nel II vol. dei suoi Principia juris (Laterza, 2007), un testo ricchissimo di indicazioni riformatrici – la perdita della dimensione di massa dei partiti, deriva anche «dalla crescente separazione dei partiti dalle loro basi sociali: per la loro progressiva integrazione nelle istituzioni pubbliche fino a confondersi con esse e a svuotarle e a spodestarle; per la loro trasformazione da associazioni diffuse sul territorio e radicate nella società in vaghi e generici partiti d'opinione, per la loro perdita di progettualità politica e di capacità di coinvolgimento ideale e di aggregazione sociale; per la loro sordità, il loro disinteresse e talora la loro ostilità ai movimenti sociali e alle sollecitazioni esterne». Si comprende, dunque, perché sono sempre di meno i cittadini che credono di poter far valere i propri diritti (lavoro, studio, casa, salute) attraverso le vie legali della pressione sulle proprie rappresentanze politiche: la diserzione crescente dall'esercizio del voto lo prova a sufficienza. Mentre aumenta il numero di chi cerca soluzioni informali e private ai propri crescenti problemi. Questa è da tempo la realtà di gran parte del Mezzogiorno, ma ormai costituisce l'humus ideale su cui prospera e si estende, in tutta Italia, un clientelismo di nuovo tipo, talora con propaggini criminali più o meno ampie.
Si potrebbe obiettare che nelle altre grandi democrazie al declino dei partiti di massa non ha corrisposto un pari tracollo delle strutture della legalità. L'obiezione, fondata, rinvia a specificità di lungo periodo della nostra storia nazionale, che qui non si possono neppure sfiorare. Ma si possono fornire spiegazioni sufficienti pur rimanendo nell'ambito della storia recente. Ebbene, come possiamo separare il quadro di devastazione civile e morale di Roma, offertoci dalla inchiesta giudiziaria in corso, da quanto è accaduto in Italia negli ultimi 20 anni? Come si possono separare i nomi di Carminati e Buzzi dalla cultura del sopruso e della illegalità profusa a piene mani per oltre vent'anni dal potere politico e di governo di Silvio Berlusconi? L'Italia, unico paese in Occidente, è stata lacerata da un conflitto di interessi senza precedenti e senza paragoni con altri stati civili del mondo. L'esecutivo della Repubblica è stato ripetutamente messo al servizio dei problemi giudiziari del presidente del Consiglio e degli interessi delle sue aziende, il parlamento è stato ripetutamente umiliato, gli interessi personali e quelli pubblici resi indistinguibili. E messaggi di impunità sono stati lanciati per anni agli imprenditori, con l'abolizione del reato di falso in bilancio, l'esortazione e la pratica dell'evasione fiscale, agli speculatori edilizi con i condoni e la libertà di saccheggiare il territorio, agli evasori fiscali con condoni benevoli per il rientro dei loro capitali. Quale altro incitamento alla frode dovevano ricevere gli italiani, addirittura dai vertici del potere politico, per perdere ogni fede – già scarsa per antica debolezza di disciplinamento civile – nelle regole comuni della nazione? Quale altro lasciapassare dovevano ricevere i gruppi affaristici e criminali per intraprendere le loro pratiche, in cooperazione con gli elementi più spregiudicati dei partiti?
Rammentare brevemente questo devastante passato consente di guardare con altri occhi alla reazione di Renzi di fronte ai fatti di Roma. Egli ha detto che è stanco di indignazione e che vuole i fatti. Siamo stanchi anche noi, ma innalzare le pene per chi corrompe e sequestrare i beni di chi delinque, non è sufficiente. E' certo apprezzabile in sé, ma ancora una volta mostra l'abilità del presidente del Consiglio di trasformare qualunque problema in occasione di pubblicità elettorale. La trovata, che placa un po' l'ira delle moltitudini e seda il moralismo dozzinale dei nostri media, nasconde una ben più grave realtà sostanziale. Renzi, emerso alla ribalta come un novatore, capace di riscattare la nazione dai suoi vecchi vizi è in realtà un continuatore.
E' anche lui un uomo della palude. La “rottamazione”, ottima trovata di innovazione propagandistica, gli è servita da strumento per regolare i conti nel suo partito e prenderne il comando. Non certo per innovare le vecchie regole della politica. Gli avversari utili, anche quelli con la fedina penale sporca, anche i corruttori della nazione, non andavano toccati. Forse che Renzi, diventato segretario del PD, ha spinto il partito verso un maggior radicamento sociale e territoriale? Ha portato un'etica nuova, una ventata di democrazia e trasparenza tra dirigenti, militanti, elettori? Una volta al governo ha forse messo mano alla situazione di illegalità in cui vive il paese da oltre 20 anni, con il conflitto di interessi di Berlusconi? Ha ripristinato il reato di falso in bilancio? Al contrario, ha compiuto l'operazione più vecchia e consunta della storia politica italiana: accordarsi con l'avversario. Ha siglato un patto segreto con un criminale, condannato in via definitiva nei tribunali della Repubblica. Ha continuato a tenere contatti con il plurinquisito Denis Verdini, ha messo mano alla struttura della costituzione, pur non essendo egli stato eletto, forzando un Parlamento che è espressione di una legge elettorale dichiarata incostituzionale dalla Corte.
E allora quale messaggio di legalità viene al Paese da tali scelte? Quale incitamento a continuare come prima arriva a tutti i faccendieri d'Italia ? Non dovrebbe essere evidente che Renzi, proprio lui, il grande novatore , a dispetto del suo banale nuovismo parolaio, è l'anello di congiunzione che tiene in vita la “vecchia Italia”, autorizza la conservazione del fondo limaccioso della vita nazionale? Non dovrebbe esser chiaro che la politica incarnata dal presidente del Consiglio si fonda su una immoralità costitutiva e irrimediabile, che guasta lo spirito pubblico Egli infatti non solo rimette in mare aperto l'iceberg dell'illegalità italiana, Berlusconi e i suoi, ma conduce una politica fondata sulla menzogna. Finge una politica popolare continuando di fatto la strategia ispirata dai poteri finanziari internazionali. Quella politica che ha generato la Grande Stagnazione, che continua a distruggere il nostro tessuto industriale, soffoca la vita delle amministrazioni comunali, fa dilagare disoccupazione e povertà in tante aree del paese, mette in un angolo Università e ricerca. Renzi finge opposizione ai vertici di Bruxelles, ma lo fa con le parole, perché, da vecchio esponente del ceto politico, bada prima di ogni cosa alla conservazione del suo personale potere. Non va allo scontro con i forti, picchia chi ha a portata di mano, sindacati e lavoratori, accusandoli di essere vecchi, per renderli docili agli investimenti finanziari. E'allora, quale fiducia può rinascere nei cittadini, quale valore viene ridato a legalità e trasparenza in un paese in cui lo stato, prima ancora dei cittadini, parla il linguaggio della menzogna?
SULLE REGOLE
"Esiste un paese dove trionfano il sotterfugio, la furbizia, la forza, la disonestà sotto l'apparenza delle leggi uguali per tutti, del rispetto per ogni diritto di base? Quello dove coloro i quali si attengono alle leggi formali ( che non é detto siano pochi ) sono scavalcati ogni giorno da chi non le osserva?
Si può concepire un sistema per capovolgere la situazione che non consista nel rovesciamento di quella cultura? E si può pensare che la cultura cambi " per ordine del'autorità", autorità. d'altra parte, espressione di quella stessa cittadinanza che si promuove violando le legge? La strada non é forse quella di maturarne una opposta nella propria intimità, e poi proporla agli altri, e mostrare che si può praticare, e dimostrare nello stesso tempo quali sono gli svantaggi che anche ai più furbi, ai più raccomandati, ai più forti e ai più potenti procura la società verticale?
C'é bisogno, per mostrare questi svantaggi, di richiamare la necessità di forme sempre più ghettizzate di difesa del proprio spazio e dei propri beni, la diffusione delle guerre, la progressiva distruzione delle risorse, l'esclusione continua di numeri enormi di persone dal riconoscimento e dall'armonia per il trionfo della divisione e dell'odio?
Certo un'osservanza assoluta di regole giuste non sarà mai universale.
Ognuno di noi é un essere umano, che si porta dietro ogni giorno tutte le sue imperfezioni, e che non potrà mai architettare e praticare forme di convivenza perfetta.
Certo, il male non può essere estirpato del tutto dalla storia; e la natura umana, la sua finitezza mortale é essa stessa fonte frequente di angoscia e sofferenza. A tutto questo non possono porre rimedio le regole e la loro osservanza.
In questi confini, la scelta consapevole, e la sua applicazione coerente, di tendere al modello sociale basato sul riconoscimento dell'essere umano stabilisce la direzione del percorso e qualifica ogni sua tappa. Più si procede, più si allargano le possibilità di vedere se stessi e ognuno degli altri come soggetti e non come oggetti; di essere liberi e non sottomessi, cittadini e non sudditi. Si tratta di un percorso infinito, nel quale, prima e più della meta, conta il modo di essere sulla strada, la coerenza di ogni gesto e di ogni parola rispetto al risultato finale. E' il percorso, non il traguardo, a riempire la persona del proprio valore e della propria dignità.
Tutti noi siamo sul percorso, dipende da ognuno di noi dove questo ci porterà."
tratto dalle conclusioni del libro di Gherardo Colombo " Sulle regole" Serie Bianca Feltrinelli ( 2008 )
Nel pieno della grave crisi che attraversiamo e di fronte a fatti di corruttela e criminalità come quelli che oggi, come ieri, si manifestano nel nostro Paese, credo si debba affermare che senza il rispetto delle regole non si può vivere in società. Ma occorre che le persone, i cittadini, debbono comprendere la ragioni di queste regole.
E' per questo che la discussione sulle regole, e sul modo con cui esse si costruiscono nelle sedi a ciò deputate, non può non coinvolgere anche i modelli di società a cui le regole si ispirano. Modelli verticali, basati sulla gerarchia e sulla competizione. E modelli orizzontali, più rispettosi della persona e orientati al riconoscimento dell'altro da sé. Una strada, quest'ultima, tracciata proprio oltre 60 anni fa dalla Dichiarazione universale dei diritti dell'umanità e dalla Costituzione italiana.
Credo che stiano qui le ragioni e i principi che possono guidarci nella nostra azione quotidiana, facendo la nostra parte sino in fondo e per quello che ne saremo capaci.
Fraterni saluti, Vitaliano Serra
sabato 6 dicembre 2014
domenica 23 novembre 2014
SEMPRE A PROPOSITO DI JOBS ACT E ASSEMBLEA PD BUSSERO DEL 14.11.2014
Ho riflettuto molto prima di intervenire in questo scambio di mail avviato dall’amico Rinaldi presente all’assemblea del PD sul Jobs Act del 14.11 ed ho ritenuto opportuno farlo per cercare, se possibile, di fornire una interpretazione meno superficiale alle ragioni che hanno prodotto “l’incidente dialettico” tra Rosati e il senatore Cociancich.
La serata era titolata “Jobs Act: prospettive, valutazioni e futuro” dopo una breve presentazione di Zullo c’è stata l’introduzione molto articolata di Rosati centrata sul tema, ha fatto seguito l’intervento di Cociancich che ha invece spaziato sulle cose buone fatte e quelle contenute nella legge di Stabilità dal Governo, e che ha posto molti argomenti interessanti, ma ha evitato palesemente di entrare nel merito delle norme oggetto della legge delega sul lavoro appunto denominata Jobs Act, di fatto evitando di fornire risposte alle domande venute fuori dal dibattito e dai contributi degli astanti.
Tutte questioni e domande venute dai contributi degli astanti e a cui si chiedevano risposte o almeno spunti di ulteriore riflessione.
A tutto ciò il nostro senatore ha risposto proponendo e riproponendo un vero e proprio “ atto di fede e di speranza” verso le “ progressive e meravigliose sorti del mercato e degli investimenti privati” che sdoganati definitivamente i lacci e lacciuoli dell’art. 18, la famosa “libertà di licenziare” in forma pressoché assoluta e senza quei noiosi vincoli del reintegro, esclusivamente monetizzando la perdita del posto di lavoro e di unico reddito per chi vive solo del suo lavoro, perfino parlando ( francamente a sproposito di quanto avviene in Polonia, Paese che non ha l’Euro e come si faceva una volta in Italia adotta il trucco della svalutazione della sua moneta nazionale.
Quando poi Rosati che è consigliere regionale del PD e Segretario "IV Commissione - Attività produttive e occupazione Regione Lombardia " e "V Commissione - Territorio e infrastrutture", oltre che ex. Segretario Generale della Camera del Lavoro Metropolitana milanese, rientrando nel tema specifico della serata e delle “ prospettive, valutazioni e futuro del Jobs Act” ha cercato di evidenziare per informare gli intervenuti dei LIMITI OGGETTIVI contenuti nel provvedimento di delega del Governo, il senatore Cociancich è sbottato accusando di “faziosità” e di “falsità” Rosati, di lì la scintilla e l’angusto battibecco tra i due.
Quindi ricapitolando:
1) il Jobs Act NON ha coperture finanziarie sufficienti a fornire garanzia di reddito a chi non ha lavoro, a chi lo perderà intervallando periodi di lavoro precario a periodi di disoccupazione, e a chi l’ha già perso e non riesce a trovarne un altro, anzi le scarse risorse disponibili ridurranno pesantemente le attuali forme di garanzia al reddito ai cassintegrati e licenziati in mobilità;
2) il Jobs Act nel concreto prevede:
ART. 18 E STATUTO DEI LAVORATORI
1 “previsione per le nuove assunzioni del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all'anzianità di servizio”. Con questa misura – che non sarebbe in via sperimentale ma a regime da subito -il Jobs Act distrugge quel che resta dell’art. 18, già ampiamente manomesso dalla legge Fornero. Oggi l’art. 18 prevede il reintegro del lavoratore licenziato soltanto nel caso di licenziamento discriminatorio e laddove il giudice verifichi che di un licenziamento disciplinare non sussista il fatto (caso assai difficile da dimostrare). Nei licenziamenti economici (soppressione della mansione) e in gran parte di quelli disciplinari al lavoratore già oggi non resta che il risarcimento economico. Il Jobs act vuole eliminare del tutto il reintegro. Con il contratto a tutele crescenti, anche nel caso di assunzione a tempo indeterminato, entro i primi anni potrai essere licenziato in qualsiasi momento con un indennizzo proporzionato all’anzianità di servizio, senza quindi il reintegro. E la tutela del reintegro sembra essere esclusa anche alla fine del periodo, visto che il testo -non a caso -non ne parla in modo esplicito;
2 “individuare e analizzare tutte le forme contrattuali esistenti, anche in funzione di eventuali interventi di semplificazione delle medesime”. Scritto così, non è affatto scontato, come si vuole invece far credere, che il contratto a tutele crescenti sostituisca tutte le altre forme di lavoro precario e a termine. E' già difficile che vengano cancellate quelle di fatto meno utilizzate. Del tutto illusorio pensare che venga abrogato il tempo determinato, il contratto di somministrazione e la para-subordinazione, soltanto per citare quelli di fatto più utilizzati;
3 “revisione della disciplina dei controlli a distanza” (art. 4 dello Statuto). Oggi il controllo dei lavoratori a distanza tramite videocamere o altri sistemi elettronici è vietato. Il Jobs act vuole abolire o comunque indebolire questa norma, sarà così possibile ai datori di lavoro di spiare a distanza i lavoratori, con evidenti ricadute disciplinari;
4 “revisione della disciplina delle mansioni” (art. 13 dello Statuto). Con questa norma si vuole permettere al datore di lavoro di demansionare un lavoratore -con la relativa riduzione di salario -in caso di riorganizzazione, ristrutturazione o conversione aziendale. Ti diranno che se non vuoi perdere il posto di lavoro, devi essere disponibile a ridurre il tuo salario e la tua professionalità;
5 introduzione in via sperimentale del “compenso orario minimo per il lavoro subordinato e le collaborazioni coordinate e continuative”. Questa potrebbe in linea teorica essere una misura positiva, se non fosse che si chiarisce subito che sarà soltanto per quei settori dove non ci sono contratti nazionali e quindi di fatto del tutto scollegato da questi. Anzi, rischia di essere uno strumento per scardinare definitivamente i contratti nazionali;
6 “possibilità di estendere il ricorso a prestazioni di lavoro accessorio” (tramite i voucher, che oggi sono previsti per colf, baby sitter etc) “per le attività lavorative discontinue e occasionali in tutti i settori”, ampliando quindi la possibilità di lavorare senza diritti né pagamento dei contributi.
AMMORTIZZATORI SOCIALI
cassa integrazione:
1 “impossibilità di autorizzare le integrazioni salariali in caso di cessazione di attività aziendale o di un ramo di essa”. Già ora, dopo la riforma Fornero, è molto complicato ottenere la cassa integrazione nei casi in cui l'azienda sia cessata o fallita. Con il Jobs act sarà semplicemente impossibile e a quei lavoratori non resterà che l'indennità di disoccupazione;
2 “semplificazione delle procedure burocratiche, considerando anche la possibilità di introdurre meccanismi standardizzati di concessione”: significa, per esempio, possibilità di superare le procedure obbigatorie di consultazione sindacale quando l'azienda debba far ricorso agli ammortizzatori sociali;
3 “necessità di regolare l’accesso alla cassa integrazione solo a seguito di esaurimento delle possibilità contrattuali di riduzione dell’orario di lavoro”: significa che prima di attivare la cassa integrazione, l'azienda può utilizzare tutte le ferie, i permessi, la banca ore che dovrebbero essere invece a disposizione del lavoratore e della lavoratrice;
4 “revisione dei limiti di durata, rapportati ai singoli lavoratori ed alle ore complessivamente lavorabili in un periodo di tempo prolungato”: significa che la cassa integrazione, così come l'aspi (la nuova indennità di disoccupazione introdotta dalla Fornero), avranno durata variabile, dipendente dall'anzianità di servizio dei singoli lavoratori. Si passa da una logica di tutela collettiva e universale a una tutele sempre più individuale;
5 “riduzione degli oneri contributivi ordinari e rimodulazione degli stessi tra i settori in funzione dell’utilizzo effettivo”: significa che l'indennità sarà diversa -non soltanto a seconda di ogni lavoratore -ma anche per ogni settore, con il rischio che siano penalizzati proprio quei settori che hanno avuto più bisogno di cassa integrazione;
indennità di disoccupazione:
1 “rimodulazione dell'aspi con omogeneizzazione della disciplina ai trattamenti brevi, rapportando la durata alla pregressa storia contributiva del lavoratore”: significa che la aspi sarà diversa per ogni lavoratore a seconda dei contributi versati;
2 “incremento della durata massima per i lavoratori con carriere contributive più rilevanti”: è un prolungamento dell'aspi ma soltanto per quelli che hanno una lunga anzianità di servizio... forse gli esodati!
3 “estensione dell'aspi ai lavoratori con contratto di collaborazione coordinata e continuativa (…) con un periodo almeno biennale di sperimentazione a risorse definite”: significa che la possibilità di estendere l'indennità di disoccupazione ai para-subordinati, tanto propagandata, è in realtà vincolata alle risorse che verranno stanziate, quindi tutta da verificare!
4 “introduzione di massimali in relazione alla contribuzione figurativa”: l'importo dell'aspi varierà a seconda della contribuzione figurativa, quindi sarà minore per quei lavoratori e quelle lavoratrici che hanno periodi più lunghi di ammortizzatori sociali alle spalle. Se non verrà specificato diversamente, questa norma sarà penalizzante anche per i periodi di maternità e congedo parentale, quindi in larga misura per le donne;
5 “eventuale introduzione, dopo la fruizione dell'aspi, di una prestazione, eventualmente priva di copertura figurativa, limitata ai lavoratori, in disoccupazione involontaria, che presentino valori ridotti dell’indicatore della situazione economica equivalente, con previsione di obblighi di partecipazione alle iniziative di attivazione proposte dai servizi competenti”. Non è un reddito minimo di cittadinanza, perchè spetterebbe soltanto a chi ha perso il lavoro e in ogni modo viene chiarito che questa norma verrà sperimentatasoltanto se ci saranno risorse sufficienti;
6 “eliminazione dello stato di disoccupazione come requisito per l’accesso a servizi di carattere assistenziale”;
QUANTO ALLA LEGGE DI STABILITA’ ( di cui il senatore Cociancich snocciola soloalcuni dati va come sotto meglio evidenziato l’insieme dei provvedimenti più importanti e “pesanti” )
- PERICOLO TASSE LOCALI. Le coperture? Ci sono, ha assicurato il ministro dell'Economia Pier Carlo Padoan. Che però non ha potuto escludere la controindicazione dell'aumento delle tasse regionali («Può darsi»).
- TFR IN BUSTA PAGA? TASSE ORDINARIE. Nessuna riduzione fiscale per il Tfr che verrà liquidato in busta paga. Potrà essere dato mensilmente dal primo gennaio e la richiesta, se fatta, sarà irrevocabile fino al 2018. L'importo sarà assoggettato a tassazione ordinaria.
- La norma si matura nel corso dell'anno e scatterà per le retribuzioni dal primo marzo 2015 al 30 giugno 2018.
- Esclusi dalla possibilità i lavoratori pubblici, i lavoratori domestici e quelli del settore agricolo. Bisogna lavorare da almeno 6 mesi.
- STATALI, BLOCCO DEL CONTRATTO PER TUTTO IL 2015. Il blocco del contratto degli statali viene prorogato per un altro anno, fino al 31 dicembre 2015.
- Rinviato di un anno, fino al 2018, anche il pagamento dell'indennità di vacanza contrattuale e il blocco degli automatismi stipendiali per il personale non contrattualizzato.
- Magistrati, avvocati e procuratori dello Stato, personale militare e delle Forze di polizia e diplomatici sono esclusi dal blocco.
- TASSE SULLE RENDITE DEI FONDI PENSIONE DALL'11 AL 20%. Passa dall'11 al 20% la tassazione sui rendimenti dei fondi pensione «dal periodo d'imposta 2015».
- Sui redditi derivanti dalle rivalutazioni dei fondi per il trattamento di fine rapporto la tassazione passa dall'11 al 17%.
- DAL 2016 POSSONO AUMENTARE IVA E BENZINA. La legge di Stabilità sterilizza, togliendoli, i tagli per 3 miliardi previsti alle agevolazioni fiscali già dal 2015, ma - come sorta di clausola di salvaguardia - prevede che dal 2016 possano aumentare l'Iva e le accise della benzina.
- Coinvolta anche la Pubblica amministrazione se dovesse arrivare l'ok dell'Ue.
- STOP AGLI INCENTIVI PER L'ACQUISTO DI AUTO 'VERDI'. Niente più incentivi nel 2015 per l'acquisto di auto a basse emissioni con la rottamazione di veicoli usati.
- Annullati gli stanziamenti da 45 milioni per il 2015 costituiti in un apposito fondo presso il Mise.
CLAUSOLA TAGLIA SANITÀ. Clausola 'taglia-sanità' se le Regioni non troveranno un accordo per ripartire i 4 miliardi di spending review a loro carico. La prevede la bozza della legge di Stabilità, che precisa che senza intesa, interverrà il governo «considerando anche le risorse destinate al finanziamento corrente del Servizio sanitario nazionale».
A proposito di tagli alla sanità, visto che l’amico Rinaldi ne accenna nella sua domanda iniziale, va detto che a proposito della “obbligatorietà” di ridurre la spesa pubblica, ciò si rivela ormai un luogo comune, anche se è dimostrato da tanti studi che gli effetti recessivi che ne conseguono sono molto più gravi di quelli derivanti da aumenti delle entrate. Tuttavia tagliare la spesa sanitaria è ancora una scelta poco popolare. Così il governo Renzi con la legge di stabilità per il 2015 si è limitato a levare 4 miliardi alle regioni (art. 35), scaricando su queste ultime la responsabilità di decidere dove tagliare. Che importa poi se la sanità rappresenta più del 70% delle uscite delle regioni, e dunque dovrà essere colpita per forza. Infatti l’art. 39 della stessa legge di stabilità, che pure recepisce le cifre di finanziamento della sanità sulle quali era stato raggiunto l’accordo tra Governo e Regioni il 10 luglio scorso (Patto per la salute 2014-2016), segnala sommessamente che tali cifre potranno essere riviste a seguito dei tagli. In questo modo viene sostanzialmente calpestato un Patto che era stato il frutto di mesi di negoziati intergovernativi, ed era stato raggiunto dopo più di un anno e mezzo dalla scadenza del precedente. Del resto, da parte centrale era stata già inserita nell’accordo, subito dopo l’indicazione dell’importo del finanziamento previsto per la sanità (112,1 miliardi per il 2015 e 115, 4 per il 2016), l’inquietante condizione “salvo ulteriori modifiche che si rendessero necessarie in relazione al conseguimento degli obiettivi di finanza pubblica e a variazioni del quadro macroeconomico”, condizione sufficiente a mettere a repentaglio la principale conquista delle regioni, ovvero l’impostazione per cui, dopo anni di tagli, “I risparmi derivanti dall’applicazione delle misure contenute nel Patto rimangono nella disponibilità delle singole regioni per finalità sanitarie” (decisione peraltro un po’ beffardamente ribadita dalla legge di stabilità).
È stato più volte sottolineato che la spesa sanitaria pubblica in Italia è più bassa di quella degli altri grandi paesi europei: solo durante la crisi la quota ha superato il 7% del PIL, collocandosi al 7,1% nel 2012, contro il 9% della Francia, l’8,6% della Germania, il 7,8% del Regno Unito; anche gli Stati Uniti - un Paese con un sistema sanitario privato costosissimo -, arrivavano all’8%, secondo dati OCSE
La Legge di Stabilità prefigura una manovra da 36 mld, come impieghi aggiuntivi. Le risorse risparmiate, assieme al maggiore deficit, saranno destinate per metà, 18 mld, a minori tasse per imprese e lavoro (Irap e decontribuzione assunzioni per le imprese, copertura 80 euro e sostegno a partite iva per i lavoratori), ed un poco alle famiglie. Viene previsto l’impiego del TFR su base volontaria, sperimentale e da metà 2015, fatto salvo l’impegno delle banche ad anticipare le cifre a fronte di certificati di garanzia dello Stato per 100 milioni. In questo caso si pone un problema costituzionale. Infatti, lo Stato non finanzierà questa misura per i dipendenti pubblici. Per finanziare l’estensione di ammortizzatori sociali sono destinati 1,5 mld, quelli annunciati nel job act. Quasi 7 mld son previsti per coprire spese prevista a legislazione vigente e 3 per eliminare le clausole di salvaguardia del governo Letta. La ricerca, la scuola e la giustizia si dovranno accontentare di poco più di 1 mld di risorse aggiuntive, cosicché si evince che la stabilizzazione dei precari (2,5 mld) avverrà in gran parte con recupero di risorse nella scuola stessa. Interventi per le aree metropolitane, Roma e Milano, e risorse per cofinanziamenti europei sommano 1,35 mld. Il residuo di 3,4 mld è il tesoretto previsto ed accantonato nel caso, presumibile, la Commissione Europea contesti la manovra e richieda almeno di ridurre il rapporto deficit/Pil di circa 0,2 punti percentuali.
La manovra economica sembra più una azzardo che il programma economico di governo. Tutto ciò comporta un rischio. Non solo si effettua una redistribuzione della domanda tra componente pubblica e componenti private, senza assicurare una domanda aggiuntiva, ma più rilevante è che si ha una sostituzione di domanda certa con domanda incerta. Il governo pubblicizza una grande azione di fiducia collettiva su famiglie e soprattutto imprese, perché ora non vi sono più scuse: “consumate ed investite a più non posso, che dal pantano usciremo solo grazie a voi”. Neppure si fa leva sulla domanda estera. Infatti, anche il modello bavarese è in crisi profonda. Tutto si gioca sul terreno della ripresa degli spiriti animali degli imprenditori affrancati da un governo che intende delegiferare su tutto e di più, dallo Sblocca Italia al Jobs Act. Dovrebbero consumare ed investire tutto ciò che hanno risparmiato e guadagnato negli anni della crisi, magari indebitandosi se necessario, banche permettendo. E le imprese dovrebbero assumere flotte di lavoratori con il discount, grazie a contributi sociali zero e licenziamento facile entro i tre anni allo scadere della promozione, garantirà il contratto a tutele progressive previsto dal jobs act.
Il governo è consapevole che la crisi che percorre il paese è profonda, lambendo la depressione. Per essere onesti l’Italia è in depressione dal 2008, gli italiani pure son depressi. Nonostante lo scenario economico accertato da tutti gli istituti internazionali, il governo rimane però fiducioso su alcune misure, e non potrebbe essere diversamente. Il pilastro delle politiche del governo è quello di stimolare gli investimenti. Senza investimenti (è il refrain di Filippo Taddei) il paese non può uscire dalla crisi. Come non essere d’accordo. Ma la domanda è: chi deve fare gli investimenti e perché investire?
Il governo non ha solo sottolineato che la spesa pubblica è inefficiente, sulla qual cosa ci si potrebbe anche lavorare, ma è pure inefficace, quindi più che inutile è dannosa perché drena risorse che il privato userebbe al meglio. Quindi se non si ri-avviano gli investimenti privati non si uscirà dalla crisi. Il punto di arrivo sono gli investimenti privati da stimolare, in quanto quelli pubblici non producono nessun effetto significativo, e se lo producono rischia di essere pure negativo.
Ma gli investimenti privati sono pesantemente condizionati dalle aspettative. Renzi parla di fiducia, che non è proprio un sinonimo, che il governo intende alimentare via riduzione del costo del lavoro, delle tasse e un incremento dei consumi; financo l’ipotesi di utilizzare il TFR rientra in questa logica. Il taglio delle spese e delle tasse produce un effetto limitato? Vero. La carta canta, soprattutto per le tasse, gli effetti espansivi son modesti; un poco più effetti elevati sono quelli per la spesa a dir il vero che è domanda certa, ma in tal caso son negativi, dato i tagli.
Ma non è questo il punto. Se lo scenario di riduzione delle tasse e del costo del lavoro è credibile, l’austerità espansiva assieme alla precarietà espansiva nel tempo darà i suoi frutti. Come interpretare, diversamente, le mirabolanti proiezioni di crescita di lungo periodo della riduzione delle tasse e delle privatizzazioni di partecipate pubbliche? Un bel problema.
Il punto della politica economica del governo, così come della Commissione Europea, è la sfiducia nel ruolo pubblico e più precisamente al pubblico come soggetto istituzionale capace di tenere in tensione la domanda effettiva. Keynes è in soffitta. La sua idea era che lo Stato intervenga per fare cose che il privato non fa, e nella crisi sono molte le cose che il privato non fa, investire ad esempio. Ma per Renzi lo Stato si deve ritirare, anche nella crisi, e lasciar fare al privato.
Nel frattempo sono sprecate risorse pubbliche che potrebbero avere ben altra destinazione, magari favorendo quei piccoli interventi di ripristino ambientale che sarebbero essenziali dato lo stato di salute del nostro territorio. Si potrebbero usare le risorse per industrializzare la ricerca pubblica e privata per aumentare la produttività del capitale investito, cioè intervenire sul punto più debole dell’industria italiana. Poi investire in conoscenza, anche nei luoghi di lavoro perché l’innovazione non è solo tecnologica ma anche organizzativa e riguarda qualità e condizioni di lavoro, flessibilità funzionale che sostiene la produttività. Ma il governo non si cura affatto di ciò; il lavoro è declinato solo in flessibilità di mercato, quella dei rapporti di lavoro “usa e getta”.
Il problema è la filosofia di fondo che guida l’azione del governo. Lo stesso jobs act è lo specchio fedele delle policy governative. Noi creiamo le condizioni per la crescita, voi dateci una mano con gli investimenti. Ma lasciare oggi la soluzione dei problemi ai cosiddetti “capitani coraggiosi” è un azzardo. Avrebbe anche un senso se avessimo un capitalismo dallo “sguardo lungo”, ma l’industria italiana da anni ha dato prova di “sguardo molto corto”.
La fiducia del governo è immensa rispetto al mercato, ma il mercato è purtroppo abitato da troppi capitani coraggiosi ben poco lungimiranti.
Non basta ridurre le tasse ed essere anche certi che queste misure siano adottate. Occorre perseguire l’obiettivo della piena occupazione, e non assumere il lavoro come mero residuo del processo di ristrutturazione per rilanciare l’offerta.
Occorre quindi un tessuto produttivo, forse anche uno civile-morale, capace di affrontare le sfide del XXI secolo e uscire dalla più grave crisi capitalistica senza demolire del tutto quel che di buono è stato costruito in questa parte del mondo nell’ultimo secolo grazie alle battaglie e e lotte democratiche del movimento dei lavoratori e della sinistra organizzata.
23 novembre 2014
Vitaliano Serra
domenica 16 novembre 2014
Considerazioni sul Jobs Act
Considerazioni a margine della riunione PD di Bussero di ieri sera 14 novembre 2014:
- al di là del finalino un po' fuori dalle righe tra i due relatori, peraltro abbastanza giustificato dalle intemperanze prima di Carlo Lotta verso Leo Tancredi, e poi dello stesso senatore PD Roberto Cociancich, nei confronti di Onorio Rosati, consigliere regionale lombardo del PD, trascinato anch'egli dalla tensione e forse dalla stanchezza dopo una giornata molto piena e faticosa ( manifestazione FIOM/CGIL, Assemblea di solidarietà al SUNIA e al PD per l'assalto in zona Corvetto );
penso che:
- la serata é stata nel complesso utile ed interessante, ha fatto comprendere la vera situazione e le vere ragioni della contrapposizione in corso tra le due anime del PD;
- si é ben compreso quale é il problema centrale irrisolto ( e a mio parere irrisolvibile in un contesto di politica economica liberista qual'é quella perseguita dall'attuale Governo a guida PD ) della proposta di Jobs Act e cioé la assoluta mancanza di risorse finanziarie a copertura del fabbisogno reale che necessiterà nel momento in cui ( cosa sulla quale siamo penso tutti d'accordo ) occorre dare un reddito minimo garantito a tutta quella massa di persone ( giovani precari in particolare ma anche a tutti gli espulsi dal ciclo produttivo, compresi gli esodati, i licenziati e i futuri licenziandi - breve nota : ci vorrebbero almeno 30 miliardi di € annui per coprire davvero tutto il fabbisogno a copertura situazioni precarie fino a crescita avvenuta del PIL e relativa ripartenza della situazione economica e produttiva - ma qui non ci sono in campo messi dal Governo con la Legge di Stabilità che solo le risorse dell'attuale copertura di CIG 1,5 miliardi annui + altri 2 miliardi ( che sono già esauriti dalla copertura della CIG in deroga che solo per il 2013 ammonta a 1,7 miliardi di € );
- inoltre come hanno ben evidenziato i contributi di Vito Caruso, Pietro Di Leo e Giuseppe Novello, qui si parla anche di principi e di democrazia citando a proposito sia la Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Umanità dell'ONU del 1948, la Costituzione Italiana e gli esempi di gran parte dei Paesi a civiltà democratica europea, e i principi non possono essere ritenuti "roba da rottamare", perché a furia di rottamazioni ( di cui si giustifica la necessità adducendo la irragionevole "ragione" che "il mondo é cambiato e quindi dobbiamo cambiare anche il nostro approccio alla realtà " , ovviamente da costoro non viene assolutamente presa in considerazione l'idea che si possa anche mettere un freno ad una idea di mondo puramente dominata dal denaro e dal profitto - fa nulla se poi oggi a dire queste cose sia il Papa in persona - ripensando ad un diverso approccio alla realtà per frenarne gli eccessi e ad esempio per mettere in discussione gli stessi parametri che impongono scelleratamente una logica legata alla crescita infinita del PIL ) si rischia di rottamare la Democrazia stessa ( in quanto non consona ad un mondo sempre più veloce, e in cui le lungaggini imposte dalla partecipazione democratica e dall'informazione critica vengano considerate troppo lunghe e contraddittorie quindi inefficienti ) , oltre che procedere verso una catastrofe planetaria che lasceremmo, questa si in eredità, ai nostri figli e nipoti.
- quanto agli interventi dei renziani di casa nostra ( a parte Enzo Marino che ha fornito una sua lettura "blairiana" dell'azione di Governo, in cui la sinistra e i suoi principi fondanti si stemperano nella logica di poter "temperare" il liberismo ( non il capitalismo di cui ce ne sono molte varianti comprese quelle di tradizione socialdemocratica ), cosa a mio parere francamente ardua se non proprio impossibile ), gli interventi di Massini e Zerbini ( stendo un velo pietoso sulle elucubrazioni di Valzasina ), sono stati la semplice e banale espressione di un "atto di fede" nel nuovo " conducator fiorentino ", l'ennesimo uomo della provvidenza e l'ennesima illusione ottica ( per loro che sono stati "comunisti" nel PCI del centralismo democratico, e della sudditanza culturale alla "real politik" sovietica, a differenza del sottoscritto che invece non c'era in quel PCI e lo criticava , da sinistra, anche per quegli aspetti degenerativi e regressivi incompatibili per la democrazia ), e politica.
A chi vorrà approfondire e ne avrà la voglia ed il tempo, invio in allegati una serie di documenti sui temi oggetto della riunione di ieri sera compresi i pdf della Legge di stabilità, e del decreto Legge sul Jobs Act.
Come sempre disponibile a confrontarmi nel merito di tutto ciò.
Spero di farvi cosa gradita.
Fraterni saluti
Vitaliano Serra
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