Ho riflettuto molto prima di intervenire in questo scambio di mail avviato dall’amico Rinaldi presente all’assemblea del PD sul Jobs Act del 14.11 ed ho ritenuto opportuno farlo per cercare, se possibile, di fornire una interpretazione meno superficiale alle ragioni che hanno prodotto “l’incidente dialettico” tra Rosati e il senatore Cociancich.
La serata era titolata “Jobs Act: prospettive, valutazioni e futuro” dopo una breve presentazione di Zullo c’è stata l’introduzione molto articolata di Rosati centrata sul tema, ha fatto seguito l’intervento di Cociancich che ha invece spaziato sulle cose buone fatte e quelle contenute nella legge di Stabilità dal Governo, e che ha posto molti argomenti interessanti, ma ha evitato palesemente di entrare nel merito delle norme oggetto della legge delega sul lavoro appunto denominata Jobs Act, di fatto evitando di fornire risposte alle domande venute fuori dal dibattito e dai contributi degli astanti.
Tutte questioni e domande venute dai contributi degli astanti e a cui si chiedevano risposte o almeno spunti di ulteriore riflessione.
A tutto ciò il nostro senatore ha risposto proponendo e riproponendo un vero e proprio “ atto di fede e di speranza” verso le “ progressive e meravigliose sorti del mercato e degli investimenti privati” che sdoganati definitivamente i lacci e lacciuoli dell’art. 18, la famosa “libertà di licenziare” in forma pressoché assoluta e senza quei noiosi vincoli del reintegro, esclusivamente monetizzando la perdita del posto di lavoro e di unico reddito per chi vive solo del suo lavoro, perfino parlando ( francamente a sproposito di quanto avviene in Polonia, Paese che non ha l’Euro e come si faceva una volta in Italia adotta il trucco della svalutazione della sua moneta nazionale.
Quando poi Rosati che è consigliere regionale del PD e Segretario "IV Commissione - Attività produttive e occupazione Regione Lombardia " e "V Commissione - Territorio e infrastrutture", oltre che ex. Segretario Generale della Camera del Lavoro Metropolitana milanese, rientrando nel tema specifico della serata e delle “ prospettive, valutazioni e futuro del Jobs Act” ha cercato di evidenziare per informare gli intervenuti dei LIMITI OGGETTIVI contenuti nel provvedimento di delega del Governo, il senatore Cociancich è sbottato accusando di “faziosità” e di “falsità” Rosati, di lì la scintilla e l’angusto battibecco tra i due.
Quindi ricapitolando:
1) il Jobs Act NON ha coperture finanziarie sufficienti a fornire garanzia di reddito a chi non ha lavoro, a chi lo perderà intervallando periodi di lavoro precario a periodi di disoccupazione, e a chi l’ha già perso e non riesce a trovarne un altro, anzi le scarse risorse disponibili ridurranno pesantemente le attuali forme di garanzia al reddito ai cassintegrati e licenziati in mobilità;
2) il Jobs Act nel concreto prevede:
ART. 18 E STATUTO DEI LAVORATORI
1 “previsione per le nuove assunzioni del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all'anzianità di servizio”. Con questa misura – che non sarebbe in via sperimentale ma a regime da subito -il Jobs Act distrugge quel che resta dell’art. 18, già ampiamente manomesso dalla legge Fornero. Oggi l’art. 18 prevede il reintegro del lavoratore licenziato soltanto nel caso di licenziamento discriminatorio e laddove il giudice verifichi che di un licenziamento disciplinare non sussista il fatto (caso assai difficile da dimostrare). Nei licenziamenti economici (soppressione della mansione) e in gran parte di quelli disciplinari al lavoratore già oggi non resta che il risarcimento economico. Il Jobs act vuole eliminare del tutto il reintegro. Con il contratto a tutele crescenti, anche nel caso di assunzione a tempo indeterminato, entro i primi anni potrai essere licenziato in qualsiasi momento con un indennizzo proporzionato all’anzianità di servizio, senza quindi il reintegro. E la tutela del reintegro sembra essere esclusa anche alla fine del periodo, visto che il testo -non a caso -non ne parla in modo esplicito;
2 “individuare e analizzare tutte le forme contrattuali esistenti, anche in funzione di eventuali interventi di semplificazione delle medesime”. Scritto così, non è affatto scontato, come si vuole invece far credere, che il contratto a tutele crescenti sostituisca tutte le altre forme di lavoro precario e a termine. E' già difficile che vengano cancellate quelle di fatto meno utilizzate. Del tutto illusorio pensare che venga abrogato il tempo determinato, il contratto di somministrazione e la para-subordinazione, soltanto per citare quelli di fatto più utilizzati;
3 “revisione della disciplina dei controlli a distanza” (art. 4 dello Statuto). Oggi il controllo dei lavoratori a distanza tramite videocamere o altri sistemi elettronici è vietato. Il Jobs act vuole abolire o comunque indebolire questa norma, sarà così possibile ai datori di lavoro di spiare a distanza i lavoratori, con evidenti ricadute disciplinari;
4 “revisione della disciplina delle mansioni” (art. 13 dello Statuto). Con questa norma si vuole permettere al datore di lavoro di demansionare un lavoratore -con la relativa riduzione di salario -in caso di riorganizzazione, ristrutturazione o conversione aziendale. Ti diranno che se non vuoi perdere il posto di lavoro, devi essere disponibile a ridurre il tuo salario e la tua professionalità;
5 introduzione in via sperimentale del “compenso orario minimo per il lavoro subordinato e le collaborazioni coordinate e continuative”. Questa potrebbe in linea teorica essere una misura positiva, se non fosse che si chiarisce subito che sarà soltanto per quei settori dove non ci sono contratti nazionali e quindi di fatto del tutto scollegato da questi. Anzi, rischia di essere uno strumento per scardinare definitivamente i contratti nazionali;
6 “possibilità di estendere il ricorso a prestazioni di lavoro accessorio” (tramite i voucher, che oggi sono previsti per colf, baby sitter etc) “per le attività lavorative discontinue e occasionali in tutti i settori”, ampliando quindi la possibilità di lavorare senza diritti né pagamento dei contributi.
AMMORTIZZATORI SOCIALI
cassa integrazione:
1 “impossibilità di autorizzare le integrazioni salariali in caso di cessazione di attività aziendale o di un ramo di essa”. Già ora, dopo la riforma Fornero, è molto complicato ottenere la cassa integrazione nei casi in cui l'azienda sia cessata o fallita. Con il Jobs act sarà semplicemente impossibile e a quei lavoratori non resterà che l'indennità di disoccupazione;
2 “semplificazione delle procedure burocratiche, considerando anche la possibilità di introdurre meccanismi standardizzati di concessione”: significa, per esempio, possibilità di superare le procedure obbigatorie di consultazione sindacale quando l'azienda debba far ricorso agli ammortizzatori sociali;
3 “necessità di regolare l’accesso alla cassa integrazione solo a seguito di esaurimento delle possibilità contrattuali di riduzione dell’orario di lavoro”: significa che prima di attivare la cassa integrazione, l'azienda può utilizzare tutte le ferie, i permessi, la banca ore che dovrebbero essere invece a disposizione del lavoratore e della lavoratrice;
4 “revisione dei limiti di durata, rapportati ai singoli lavoratori ed alle ore complessivamente lavorabili in un periodo di tempo prolungato”: significa che la cassa integrazione, così come l'aspi (la nuova indennità di disoccupazione introdotta dalla Fornero), avranno durata variabile, dipendente dall'anzianità di servizio dei singoli lavoratori. Si passa da una logica di tutela collettiva e universale a una tutele sempre più individuale;
5 “riduzione degli oneri contributivi ordinari e rimodulazione degli stessi tra i settori in funzione dell’utilizzo effettivo”: significa che l'indennità sarà diversa -non soltanto a seconda di ogni lavoratore -ma anche per ogni settore, con il rischio che siano penalizzati proprio quei settori che hanno avuto più bisogno di cassa integrazione;
indennità di disoccupazione:
1 “rimodulazione dell'aspi con omogeneizzazione della disciplina ai trattamenti brevi, rapportando la durata alla pregressa storia contributiva del lavoratore”: significa che la aspi sarà diversa per ogni lavoratore a seconda dei contributi versati;
2 “incremento della durata massima per i lavoratori con carriere contributive più rilevanti”: è un prolungamento dell'aspi ma soltanto per quelli che hanno una lunga anzianità di servizio... forse gli esodati!
3 “estensione dell'aspi ai lavoratori con contratto di collaborazione coordinata e continuativa (…) con un periodo almeno biennale di sperimentazione a risorse definite”: significa che la possibilità di estendere l'indennità di disoccupazione ai para-subordinati, tanto propagandata, è in realtà vincolata alle risorse che verranno stanziate, quindi tutta da verificare!
4 “introduzione di massimali in relazione alla contribuzione figurativa”: l'importo dell'aspi varierà a seconda della contribuzione figurativa, quindi sarà minore per quei lavoratori e quelle lavoratrici che hanno periodi più lunghi di ammortizzatori sociali alle spalle. Se non verrà specificato diversamente, questa norma sarà penalizzante anche per i periodi di maternità e congedo parentale, quindi in larga misura per le donne;
5 “eventuale introduzione, dopo la fruizione dell'aspi, di una prestazione, eventualmente priva di copertura figurativa, limitata ai lavoratori, in disoccupazione involontaria, che presentino valori ridotti dell’indicatore della situazione economica equivalente, con previsione di obblighi di partecipazione alle iniziative di attivazione proposte dai servizi competenti”. Non è un reddito minimo di cittadinanza, perchè spetterebbe soltanto a chi ha perso il lavoro e in ogni modo viene chiarito che questa norma verrà sperimentatasoltanto se ci saranno risorse sufficienti;
6 “eliminazione dello stato di disoccupazione come requisito per l’accesso a servizi di carattere assistenziale”;
QUANTO ALLA LEGGE DI STABILITA’ ( di cui il senatore Cociancich snocciola soloalcuni dati va come sotto meglio evidenziato l’insieme dei provvedimenti più importanti e “pesanti” )
- PERICOLO TASSE LOCALI. Le coperture? Ci sono, ha assicurato il ministro dell'Economia Pier Carlo Padoan. Che però non ha potuto escludere la controindicazione dell'aumento delle tasse regionali («Può darsi»).
- TFR IN BUSTA PAGA? TASSE ORDINARIE. Nessuna riduzione fiscale per il Tfr che verrà liquidato in busta paga. Potrà essere dato mensilmente dal primo gennaio e la richiesta, se fatta, sarà irrevocabile fino al 2018. L'importo sarà assoggettato a tassazione ordinaria.
- La norma si matura nel corso dell'anno e scatterà per le retribuzioni dal primo marzo 2015 al 30 giugno 2018.
- Esclusi dalla possibilità i lavoratori pubblici, i lavoratori domestici e quelli del settore agricolo. Bisogna lavorare da almeno 6 mesi.
- STATALI, BLOCCO DEL CONTRATTO PER TUTTO IL 2015. Il blocco del contratto degli statali viene prorogato per un altro anno, fino al 31 dicembre 2015.
- Rinviato di un anno, fino al 2018, anche il pagamento dell'indennità di vacanza contrattuale e il blocco degli automatismi stipendiali per il personale non contrattualizzato.
- Magistrati, avvocati e procuratori dello Stato, personale militare e delle Forze di polizia e diplomatici sono esclusi dal blocco.
- TASSE SULLE RENDITE DEI FONDI PENSIONE DALL'11 AL 20%. Passa dall'11 al 20% la tassazione sui rendimenti dei fondi pensione «dal periodo d'imposta 2015».
- Sui redditi derivanti dalle rivalutazioni dei fondi per il trattamento di fine rapporto la tassazione passa dall'11 al 17%.
- DAL 2016 POSSONO AUMENTARE IVA E BENZINA. La legge di Stabilità sterilizza, togliendoli, i tagli per 3 miliardi previsti alle agevolazioni fiscali già dal 2015, ma - come sorta di clausola di salvaguardia - prevede che dal 2016 possano aumentare l'Iva e le accise della benzina.
- Coinvolta anche la Pubblica amministrazione se dovesse arrivare l'ok dell'Ue.
- STOP AGLI INCENTIVI PER L'ACQUISTO DI AUTO 'VERDI'. Niente più incentivi nel 2015 per l'acquisto di auto a basse emissioni con la rottamazione di veicoli usati.
- Annullati gli stanziamenti da 45 milioni per il 2015 costituiti in un apposito fondo presso il Mise.
CLAUSOLA TAGLIA SANITÀ. Clausola 'taglia-sanità' se le Regioni non troveranno un accordo per ripartire i 4 miliardi di spending review a loro carico. La prevede la bozza della legge di Stabilità, che precisa che senza intesa, interverrà il governo «considerando anche le risorse destinate al finanziamento corrente del Servizio sanitario nazionale».
A proposito di tagli alla sanità, visto che l’amico Rinaldi ne accenna nella sua domanda iniziale, va detto che a proposito della “obbligatorietà” di ridurre la spesa pubblica, ciò si rivela ormai un luogo comune, anche se è dimostrato da tanti studi che gli effetti recessivi che ne conseguono sono molto più gravi di quelli derivanti da aumenti delle entrate. Tuttavia tagliare la spesa sanitaria è ancora una scelta poco popolare. Così il governo Renzi con la legge di stabilità per il 2015 si è limitato a levare 4 miliardi alle regioni (art. 35), scaricando su queste ultime la responsabilità di decidere dove tagliare. Che importa poi se la sanità rappresenta più del 70% delle uscite delle regioni, e dunque dovrà essere colpita per forza. Infatti l’art. 39 della stessa legge di stabilità, che pure recepisce le cifre di finanziamento della sanità sulle quali era stato raggiunto l’accordo tra Governo e Regioni il 10 luglio scorso (Patto per la salute 2014-2016), segnala sommessamente che tali cifre potranno essere riviste a seguito dei tagli. In questo modo viene sostanzialmente calpestato un Patto che era stato il frutto di mesi di negoziati intergovernativi, ed era stato raggiunto dopo più di un anno e mezzo dalla scadenza del precedente. Del resto, da parte centrale era stata già inserita nell’accordo, subito dopo l’indicazione dell’importo del finanziamento previsto per la sanità (112,1 miliardi per il 2015 e 115, 4 per il 2016), l’inquietante condizione “salvo ulteriori modifiche che si rendessero necessarie in relazione al conseguimento degli obiettivi di finanza pubblica e a variazioni del quadro macroeconomico”, condizione sufficiente a mettere a repentaglio la principale conquista delle regioni, ovvero l’impostazione per cui, dopo anni di tagli, “I risparmi derivanti dall’applicazione delle misure contenute nel Patto rimangono nella disponibilità delle singole regioni per finalità sanitarie” (decisione peraltro un po’ beffardamente ribadita dalla legge di stabilità).
È stato più volte sottolineato che la spesa sanitaria pubblica in Italia è più bassa di quella degli altri grandi paesi europei: solo durante la crisi la quota ha superato il 7% del PIL, collocandosi al 7,1% nel 2012, contro il 9% della Francia, l’8,6% della Germania, il 7,8% del Regno Unito; anche gli Stati Uniti - un Paese con un sistema sanitario privato costosissimo -, arrivavano all’8%, secondo dati OCSE
La Legge di Stabilità prefigura una manovra da 36 mld, come impieghi aggiuntivi. Le risorse risparmiate, assieme al maggiore deficit, saranno destinate per metà, 18 mld, a minori tasse per imprese e lavoro (Irap e decontribuzione assunzioni per le imprese, copertura 80 euro e sostegno a partite iva per i lavoratori), ed un poco alle famiglie. Viene previsto l’impiego del TFR su base volontaria, sperimentale e da metà 2015, fatto salvo l’impegno delle banche ad anticipare le cifre a fronte di certificati di garanzia dello Stato per 100 milioni. In questo caso si pone un problema costituzionale. Infatti, lo Stato non finanzierà questa misura per i dipendenti pubblici. Per finanziare l’estensione di ammortizzatori sociali sono destinati 1,5 mld, quelli annunciati nel job act. Quasi 7 mld son previsti per coprire spese prevista a legislazione vigente e 3 per eliminare le clausole di salvaguardia del governo Letta. La ricerca, la scuola e la giustizia si dovranno accontentare di poco più di 1 mld di risorse aggiuntive, cosicché si evince che la stabilizzazione dei precari (2,5 mld) avverrà in gran parte con recupero di risorse nella scuola stessa. Interventi per le aree metropolitane, Roma e Milano, e risorse per cofinanziamenti europei sommano 1,35 mld. Il residuo di 3,4 mld è il tesoretto previsto ed accantonato nel caso, presumibile, la Commissione Europea contesti la manovra e richieda almeno di ridurre il rapporto deficit/Pil di circa 0,2 punti percentuali.
La manovra economica sembra più una azzardo che il programma economico di governo. Tutto ciò comporta un rischio. Non solo si effettua una redistribuzione della domanda tra componente pubblica e componenti private, senza assicurare una domanda aggiuntiva, ma più rilevante è che si ha una sostituzione di domanda certa con domanda incerta. Il governo pubblicizza una grande azione di fiducia collettiva su famiglie e soprattutto imprese, perché ora non vi sono più scuse: “consumate ed investite a più non posso, che dal pantano usciremo solo grazie a voi”. Neppure si fa leva sulla domanda estera. Infatti, anche il modello bavarese è in crisi profonda. Tutto si gioca sul terreno della ripresa degli spiriti animali degli imprenditori affrancati da un governo che intende delegiferare su tutto e di più, dallo Sblocca Italia al Jobs Act. Dovrebbero consumare ed investire tutto ciò che hanno risparmiato e guadagnato negli anni della crisi, magari indebitandosi se necessario, banche permettendo. E le imprese dovrebbero assumere flotte di lavoratori con il discount, grazie a contributi sociali zero e licenziamento facile entro i tre anni allo scadere della promozione, garantirà il contratto a tutele progressive previsto dal jobs act.
Il governo è consapevole che la crisi che percorre il paese è profonda, lambendo la depressione. Per essere onesti l’Italia è in depressione dal 2008, gli italiani pure son depressi. Nonostante lo scenario economico accertato da tutti gli istituti internazionali, il governo rimane però fiducioso su alcune misure, e non potrebbe essere diversamente. Il pilastro delle politiche del governo è quello di stimolare gli investimenti. Senza investimenti (è il refrain di Filippo Taddei) il paese non può uscire dalla crisi. Come non essere d’accordo. Ma la domanda è: chi deve fare gli investimenti e perché investire?
Il governo non ha solo sottolineato che la spesa pubblica è inefficiente, sulla qual cosa ci si potrebbe anche lavorare, ma è pure inefficace, quindi più che inutile è dannosa perché drena risorse che il privato userebbe al meglio. Quindi se non si ri-avviano gli investimenti privati non si uscirà dalla crisi. Il punto di arrivo sono gli investimenti privati da stimolare, in quanto quelli pubblici non producono nessun effetto significativo, e se lo producono rischia di essere pure negativo.
Ma gli investimenti privati sono pesantemente condizionati dalle aspettative. Renzi parla di fiducia, che non è proprio un sinonimo, che il governo intende alimentare via riduzione del costo del lavoro, delle tasse e un incremento dei consumi; financo l’ipotesi di utilizzare il TFR rientra in questa logica. Il taglio delle spese e delle tasse produce un effetto limitato? Vero. La carta canta, soprattutto per le tasse, gli effetti espansivi son modesti; un poco più effetti elevati sono quelli per la spesa a dir il vero che è domanda certa, ma in tal caso son negativi, dato i tagli.
Ma non è questo il punto. Se lo scenario di riduzione delle tasse e del costo del lavoro è credibile, l’austerità espansiva assieme alla precarietà espansiva nel tempo darà i suoi frutti. Come interpretare, diversamente, le mirabolanti proiezioni di crescita di lungo periodo della riduzione delle tasse e delle privatizzazioni di partecipate pubbliche? Un bel problema.
Il punto della politica economica del governo, così come della Commissione Europea, è la sfiducia nel ruolo pubblico e più precisamente al pubblico come soggetto istituzionale capace di tenere in tensione la domanda effettiva. Keynes è in soffitta. La sua idea era che lo Stato intervenga per fare cose che il privato non fa, e nella crisi sono molte le cose che il privato non fa, investire ad esempio. Ma per Renzi lo Stato si deve ritirare, anche nella crisi, e lasciar fare al privato.
Nel frattempo sono sprecate risorse pubbliche che potrebbero avere ben altra destinazione, magari favorendo quei piccoli interventi di ripristino ambientale che sarebbero essenziali dato lo stato di salute del nostro territorio. Si potrebbero usare le risorse per industrializzare la ricerca pubblica e privata per aumentare la produttività del capitale investito, cioè intervenire sul punto più debole dell’industria italiana. Poi investire in conoscenza, anche nei luoghi di lavoro perché l’innovazione non è solo tecnologica ma anche organizzativa e riguarda qualità e condizioni di lavoro, flessibilità funzionale che sostiene la produttività. Ma il governo non si cura affatto di ciò; il lavoro è declinato solo in flessibilità di mercato, quella dei rapporti di lavoro “usa e getta”.
Il problema è la filosofia di fondo che guida l’azione del governo. Lo stesso jobs act è lo specchio fedele delle policy governative. Noi creiamo le condizioni per la crescita, voi dateci una mano con gli investimenti. Ma lasciare oggi la soluzione dei problemi ai cosiddetti “capitani coraggiosi” è un azzardo. Avrebbe anche un senso se avessimo un capitalismo dallo “sguardo lungo”, ma l’industria italiana da anni ha dato prova di “sguardo molto corto”.
La fiducia del governo è immensa rispetto al mercato, ma il mercato è purtroppo abitato da troppi capitani coraggiosi ben poco lungimiranti.
Non basta ridurre le tasse ed essere anche certi che queste misure siano adottate. Occorre perseguire l’obiettivo della piena occupazione, e non assumere il lavoro come mero residuo del processo di ristrutturazione per rilanciare l’offerta.
Occorre quindi un tessuto produttivo, forse anche uno civile-morale, capace di affrontare le sfide del XXI secolo e uscire dalla più grave crisi capitalistica senza demolire del tutto quel che di buono è stato costruito in questa parte del mondo nell’ultimo secolo grazie alle battaglie e e lotte democratiche del movimento dei lavoratori e della sinistra organizzata.
23 novembre 2014
Vitaliano Serra
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