giovedì 16 aprile 2015
mercoledì 15 aprile 2015
Un «piano verde» per uscire dalla crisi
Un «piano verde» per uscire dalla crisi
di MONICA FRASSONI da www.sbilanciamoci.info.
05/12/2014
Euro manovre/Investimenti in tutti i settori chiave: dalle energie rinnovabili alla mobilità. Un'alternativa alla proposta Juncker
Possiamo considerarla una massima generale, che casca a pennello nel caso dell’“Investment Plan for Europe”, il piano d’investimenti presentato, il 26 novembre scorso a Strasburgo, dal Presidente della Commissione, Jean Claude Juncker: un documento che manca di ambizione, di mezzi appropriati e di obiettivi qualificanti.
I motivi alla base dell’iniziativa Juncker sono chiari e largamente condivisi, almeno a parole: l’economia ha bisogno urgente di una boccata di ossigeno, che significa “necessità di nuovi investimenti” e l’Europa deve fare la sua parte. Ma investire su cosa e quanto? Il livello d’investimenti pubblici diretti da parte dell’Ue è di circa 21 miliardi di euro, che dovrebbero agire come una “leva” per creare 315 miliardi di euro in totale, cioè un rapporto davvero miracoloso secondo il quale 1 euro dal fondo dovrebbe creare 15 euro di investimenti. Si tratta peraltro in gran parte fondi riallocati: solo 5 mld proverrebbero dalla BEI (la Banca Europea per gli Investimenti); i restanti 16mld di euro, invece, verrebbero sottratti o congelati dal budget Ue per fare da garanzia; non si sa ancora da quali progetti, ma è stato lo stesso Juncker a fare riferimento ai programmi Horizon 2020 e Connecting Europe Facility che potrebbero vedersi privati di almeno 8mld di euro.
Conseguenza questa inevitabile della sciagurata decisione di ridurre in modo consistente il Bilancio dell’UE nel periodo 2013/2020, che riduce all’osso, appena all’1% in relazione al PIL, l’intero bilancio UE. All’origine, è bene sottolinearlo, l’idea pare fosse di reinvestire i fondi di “emergenza” restituiti da Portogallo e Irlanda messi a disposizione nel Fondo Salva stati. Ma il veto teutonico ha bloccato sul nascere questa idea. E cosi, Juncker si è adattato, senza andare a cercare altre fonti possibili di finanziamento. Come potrebbero essere la proposta di Tassa sulle transazioni finanziarie, oggi finita in un binario semimorto e comunque con aliquote molto deboli; o la repressione di frode ed evasione fiscale, che potrebbero portare 100 miliardi di euro in più di entrate da dirottare almeno in parte nel misero bilancio UE e da investire nell'economia reale. Il punto più problematico è comunque il come s’intende spendere questi soldi. Nella testa di Juncker e della maggioranza degli stati membri si tratta di dare la priorità a grandi infrastrutture (tunnel, autostrade, aereoporti, treni ad alta velocità, gasdotti…): le liste che si preparano ricordano quando negli anni 90 la Commissione ricevette centinaia di progetti infrastrutturali che poi mise nel famoso piano di Reti Transeuropee, rimaste per lo più incompiute. L’approccio del documento appena approvato dai Verdi al PE “Un piano di investimenti Verde” è radicalmente diverso; si concentra sia su come trovare i denari che su come spenderli per assicurare un massimo profitto non per chi investe, o almeno non solo, ma anche e soprattutto per gli europei e spiega che i cambiamenti climatici e la scarsità delle risorse possono diventare una grandissima opportunità per uscire dalla stagnazione nella quale ci dibattiamo. L’accento è messo sulle riforme necessarie a garantire un clima favorevole agli investimenti e su tre priorità di spesa di livello europeo: l’uscita dalla dipendenza dai fossili, investendo in energie rinnovabili, interconnessioni, efficienza energetica, in particolare sul patrimonio abitativo. La seconda priorità concerne le politiche locali, dalla mobilità, all’educazione, la lotta all’esclusione, la salute, l’alimentazione e agricoltura: tutti settori chiave per accompagnare il cambio di paradigma verso una società nuova. La terza priorità è l’investimento nell’innovazione sociale “verde”; dalla sfida digitale alla ricerca mirata a offre soluzioni sostenibili e accessibili in una società sempre più divisa e ineguale. Nessuna di queste proposte è irrealista o utopica. Quello che da qui a giugno sarà necessario fare, anche attraverso il monitoraggio dei progetti presentati a livello nazionale e un duro lavoro legislativo sulla definizione dei criteri di attribuzione, è fare in modo che le proposte del Piano Verde possano trovare uno spazio di discussione e di reale applicazione. E’ una delle sfide dei prossimi mesi.
Quali politiche per uscire dalla crisi? Intervista a Paolo Guerrieri
Quali politiche per uscire dalla crisi? Intervista a Paolo Guerrieri
Inizia oggi un ciclo di tre interviste a tre autorevoli economisti italiani sulla necessità e sulla possibilità di mettere in campo politiche economiche per il superamento dell’attuale crisi. Cominciamo con Paolo Guerrieri, Professore Ordinario di Economia all’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”.
D. Le questioni dello sviluppo e delle politiche industriali vanno crescendo d’importanza nel dibattito politico, anche in relazione al permanere di una situazione economica molto pesante. Le parole “politiche keynesiane” sono tornate ad avere una ragion d’essere.
E’ un passaggio positivo ma del tutto insufficiente e c’è il rischio che, come per la parola “riforma”, anche in questo caso ognuno intenda qualcosa di diverso da quello che intende un altro .
Vogliamo incominciare cercando una breve definizione di questa politica keynesiana letta ed interpretata alla luce della situazione nazionale attuale?
R. La riscoperta di Keynes e delle politiche keynesiane è avvenuta a seguito della Grande crisi e del clamoroso fallimento delle politiche ortodosse neoliberiste. Keynes va oggi reinterpretato alla luce della fase peculiare in corso che per l’intera area più avanzata – anche se l’area Euro presenta sue specificità su cui possiamo poi tornare – comporta una crescita nettamente inferiore alle medie del passato (anche negli Usa), unita alla prospettiva di un vero e proprio ristagno a medio termine. Si è aperta una fase di interregno per l’economia mondiale, dagli sbocchi tuttora aperti e incerti, che rischia di produrre per svariati anni stagnazione ed elevata disoccupazione in tutta l’area avanzata. Lo sostengono ormai anche molte Organizzazioni ufficiali che parlano apertamente del rischio di un ‘ristagno secolare’.
Le cause di tutto ciò sono molteplici, domestiche e internazionali allo stesso tempo, ed è importante rilevare che hanno natura ciclica e strutturale. Con un flash si può sintetizzare che negli ultimi due decenni si è determinata una svolta epocale – accelerata dalla crisi – verso una economia mondiale tripolare. Essa è caratterizzata dalla presenza, oltre all’asse euro-americano, di un terzo polo rappresentato dall’Asia del Pacifico, in primo luogo dalla Cina, che ha reso molto più difficile garantire una dinamica di crescita elevata e sostenibile a livello mondiale come avvenuto nei decenni passati a causa del passaggio da un paradigma di modello di crescita ad un altro profondamente diverso. I sistemi capitalistici nazionali stanno riscontrando forti difficoltà ad adattarvisi, rivelando la loro incapacità di tornare a produrre elevato reddito e piena occupazione.
La terapia da applicare per evitare un prolungato ristagno dell’attività economica globale richiede pertanto nuove strategie di politica economica oltre il keynesismo di stampo tradizionale: un insieme di interventi in grado di fronteggiare contemporaneamente sia la debole domanda aggregata sia il deficit d’offerta. In altri termini, la grande sfida è la simultanea realizzazione di un mix di politiche di domanda di stampo keynesiano e di politiche in grado di agire dal lato dell’offerta, non in senso neoclassico ma ispirate alla visione Schumpeteriana dello sviluppo, come cambiamento strutturale trainato dal rilancio di investimenti pubblici e privati. Solo mettendo in campo queste rinnovate strategie di investimenti a medio lungo termine sarà possibile rilanciare la crescita delle aree più importanti e, attraverso essa, rispettare i vincoli, sempre più stringenti, derivanti dal necessario consolidamento dei debiti pubblici.
Per ora, purtroppo, siamo ben lontani da tutto ciò: negli Stati Uniti, da un lato, si propongono politiche monetarie espansive ‘non convenzionali’ (“quantitative easing”) mentre in Europa, dall’altro, si praticano ottuse politiche di austerità o restrizione della spesa generalizzate. È evidente che le prime – per quanto utili a stimolare i consumi e in grado comunque di favorire una ripresa – sono destinate a scontrarsi con i vincoli d’offerta e la debolezza degli investimenti, mentre le seconde non possono che aggravare le tendenze recessive.
Il risultato è la trappola in cui siamo oggi imprigionati a livello domestico e internazionale: da un lato, il mercato lasciato a se stesso non è in grado di generare un’adeguata domanda; dall’altro, la necessaria ristrutturazione dell’offerta non riesce a dispiegarsi in assenza di una sufficiente domanda che la sorregga e renda conveniente. Da qui discendono le previsioni di un prolungato ristagno domestico e globale di tutta l’area più avanzata.
D. Dunque un piano di finanziamenti pubblici – tali da agevolare anche il finanziamento privato ma senza attenderli – in grado di correggere i difetti e le difficoltà del sistema economico. Questi interventi possono rispondere quindi a due esigenze di partenza: quantitative e/o qualitative. Nel caso del nostro paese le esigenze riguardano entrambi gli aspetti dal momento che si è verificato un calo molto forte degli investimenti, ma anche al fatto che sino a pochi anni fa i nostri investimenti industriali erano del tutto in linea e spesso superiori a quelli dei paesi nostri partner, ma con esiti, sul piano della competitività e dell’occupazione, del tutto insufficienti. Un esito qualitativo che sarebbe da evitare accuratamente
Se questo è il quadro – e prima ancora di arrivare alle questioni del reperimento delle risorse finanziarie necessarie – quali sono i presupposti o i problemi preliminare da risolvere per attuare una politica di investimenti necessariamente selettiva e, quindi, nelle direzioni conseguenti ? . E queste direzioni si possono già indicare in termini ancora generali e quali potrebbero essere? O, forse, è più corretto iniziare indicando le condizioni che occorre rispettare per rendere efficaci quelle scelte e quindi quegli investimenti ?
In sostanza poiché non è automatico in una economia aperta ed integrata, sviluppare la crescita e insieme l’occupazione, aumentando la domanda interna, come occorre attrezzarsi e prepararsi?
R. Tra gli effetti della grande crisi globale, che sono ben lungi dall’essere stati riassorbiti, vi è l’accelerato ridisegno della mappa delle produzioni a livello mondiale, che va avanti dalla metà degli anni Novanta, sospinto da una grande rivoluzione tecnologica e dall’ingresso di nuovi paesi competitori, soprattutto dall’Asia del Pacifico.
È evidente che per rilanciare stabilmente la crescita nell’area più avanzata non sarà sufficiente produrre ciò che risultava profittevole prima della crisi. I cambiamenti tecnologici in corso, la problematica ambientale e l’ascesa dei paesi emergenti spingono a riallocare le risorse verso nuovi prodotti e settori che siano in grado di soddisfare bisogni privati e pubblici di gamma medio-alta. E’ per questo che a interventi di stampo keynesiano tradizionale, in grado di agire sulla domanda di consumo, andrebbero affiancate – come si è detto – misure volte a fronteggiare i problemi di struttura dell’offerta produttiva lasciati in eredità dalle debolezze del modello di sviluppo prevalso nei due decenni antecedenti la crisi e aggravati dalla crisi stessa.
In altre parole, per tutte le economie avanzate – inclusa l’Italia – lasciarsi alle spalle le conseguenze della grande crisi e rispondere alle sfide dell’economia multipolare significa promuovere investimenti pubblici e privati in aree in grado di agire come “nuovi motori della crescita”, in comparti quali le infrastrutture materiali e immateriali, ricerca di base e applicata, tecnologie digitali, energie rinnovabili, sanità, istruzione.
Tali tecnologie, che hanno carattere pervasivo, incidono non solo su cosa si produce ma anche su come lo si produce e richiedono quindi mutamenti profondi nella organizzazione delle imprese e nel funzionamento dei mercati dei fattori. Questo spiega il formidabile contributo che queste tecnologie a diffusione orizzontale possono apportare alla crescita della produttività di tutte le economie avanzate. Si tratta di una constatazione rilevante, soprattutto nell’ ottica del nostro paese, per rispondere alla domanda di come resistere alla competizione dei paesi emergenti che producono, a costi infinitamente più bassi, i beni che per decenni abbiamo prodotto noi. Il sentiero che ci può condurre a una nuova fase di crescita sostenuta e stabile passa in effetti da questi sforzi di ristrutturazione.
Tutto ciò comporta riaffermare quel delicato giusto equilibrio tra mercati e fornitura di beni pubblici che è alla base dell’efficiente funzionamento di un’economia di mercato orientata alla crescita. Un equilibrio che negli ultimi decenni la fase del liberismo ideologico e della globalizzazione senza regole ha spezzato, generando crescenti instabilità, disuguaglianze e una eccessiva concentrazione del potere economico e finanziario nelle mani di una ristretta élite.
È necessario ristabilirlo promuovendo nuove politiche di intervento del tipo prima delineato. Solo mettendo in campo queste rinnovate strategie sarà possibile rilanciare la crescita globale e cominciare a ridurre le disuguaglianze e, attraverso essa, rispettare i vincoli, sempre più stringenti, derivanti dal necessario consolidamento dei debiti pubblici. Solo un ritorno alla creazione di ricchezza e occupazione può in effetti assicurare nell’area avanzata il graduale riassorbimento dell’eccesso di debiti esistente.
D. Dopo la stagione “poco fortunata” delle riforme del mercato del lavoro, si stanno cercando cause più convincenti e dimostrabili del nostro declino, un processo negativo che nasce e si protrae da ben prima della crisi internazionale. Anche il recupero recente di un valore positivo della nostra bilancia commerciale è il frutto di una riduzione delle nostre importazioni, più che di un aumento delle esportazioni. La nostra scarse e calante competitività, che ormai viene chiamata in causa per giustificare le riforme, secondo te da cosa dipende? E come andrebbe combattuta?
R. Vi sono molteplici fattori alla base delle grave perdurante crisi italiana, che ha assunto ormai da tempo le caratteristiche di un graduale ma drammatico declino. Molti di essi sono di antica data, in quanto legati a problemi strutturali che affliggono da tempo l’economia italiana. Il dato negativo che in qualche modo li riflette e sintetizza tutti è rappresentato dal ristagno della produttività in Italia, in particolare della cosiddetta produttività totale dei fattori. Esso ha mostrato, soprattutto nell’ultimo decennio, un andamento particolarmente negativo nel caso dell’Italia, soprattutto se comparato ad altri paesi. Ne consegue che solo un deciso miglioramento del trend della produttività italiana nei prossimi anni potrà consentire di rilanciare la crescita e innalzarne la dinamica futura.
A questo fine serviranno sia riforme importanti all’interno in grado di rimuovere le rigidità strutturali prima ricordate, sia un deciso miglioramento della congiuntura europea e internazionale.
Sul primo versante – ovvero gli interventi per rimuovere i fattori strutturali che frenano la crescita della nostra economia – è necessario mettere in campo una molteplicità di interventi che interessano due ambiti ugualmente rilevanti e strettamente intrecciati. Da un lato le politiche volte a rendere più efficiente e modernizzare l’ambiente esterno in cui il sistema produttivo e le imprese operano creando adeguate positive esternalità di contesto (infrastrutture materiali e immateriali, organizzazione pubblica amministrativa, approvvigionamenti energetici e così via). Dall’altro, le misure volte a incidere direttamente sulla vita delle imprese per superare le debolezze esistenti (ridotta dimensione, diversificazione tecnologico-produttiva, organizzazione e innovazione, internazionalizzazione, servizi, mercato del lavoro).
In questo secondo caso ci troviamo di fronte a una vera e propria emergenza. E’ in corso una sorta di profonda erosione della nostra base industriale. Dall’inizio della crisi l’Italia ha perso il 15% della base manifatturiera e il 25% della produzione industriale. Cercare di fermarla è fondamentale per agganciare la ripresa europea. Per quanto riguarda il sistema produttivo significa intervenire su due ordini di fattori: dimensioni troppo piccole delle nostre imprese e specializzazioni inadeguate di questo comparto a causa di una debole presenza nelle aree geografiche più dinamiche e nelle attività a più elevate opportunità tecnologiche.
Sono necessarie in primo luogo politiche, soprattutto industriali, rivolte alla produzione e alla ricerca che aiutino le nostre imprese ad aggregarsi, a innovare, a internazionalizzarsi. E’ vero che in questi anni si è verificato un deciso rafforzamento della presenza di imprese italiane, soprattutto quelle di media dimensione, sui mercati interni e internazionali. Si è trattato, tuttavia, di un processo di ristrutturazione del tutto spontaneo e privo del sostegno di politiche economiche e industriali in grado di guidarlo e consolidarlo. I suoi effetti complessivi sono stati così limitati. Il gruppo di imprese di successo, per quanto in crescita, non è abbastanza numeroso per compensare le performance negative di quell’elevatissimo numero di piccole e piccolissime unità che sono troppo fragili e sottocapitalizzate per affrontare positivamente le nuove sfide dei mercati globali.
Riguardo a questo gruppo di imprese in difficoltà, bisognerebbe soprattutto promuovere con politiche adeguate i cambiamenti strutturali necessari per affrontare con successo la concorrenza futura, che vanno avviati subito anche se avranno effetti inevitabilmente differiti nel tempo. Ne fanno parte a pieno titolo i cosiddetti ‘nuovi motori’ della crescita e dell’occupazione, di cui abbiamo parlato prima. L’occasione da cogliere è quella di colmare vistosi ritardi della nostra economia rispetto agli altri paesi avanzati indirizzando lo sviluppo in nuove direzione, più improntate a fattori quali la ‘conoscenza’ e la sostenibilità.
Ora, la complessità dei problemi da fronteggiare richiederebbe di inserire gli interventi richiesti – pur rimanendo ben all’interno di una logica di mercato – in un disegno complessivo unitario di politica economica ed industriale, dall’orizzonte pluriennale in grado di assicurare coerenza interna e efficacia a lungo termine di tali interventi. Uno sforzo che è reso ancor più necessario dalla scarsità delle risorse finanziarie pubbliche disponibili. E’ proprio questa visione d’insieme e di medio periodo dei problemi da affrontare, tuttavia, che è sempre mancata nell’azione degli ultimi Governi in questi ultimi due anni e mezzo e che continua a destare anche oggi le maggiori preoccupazioni visto il perdurare dei fattori di crisi.
D. A fronte della crisi e delle difficoltà nella costruzione dell’Unione europea – a parte i distruttori dell’Unione – molti si rivolgono verso ipotesi di una maggiore integrazione, incominciando dalla politica finanziaria, dalle politiche per l’occupazione, da una ancora incerta interpretazione della flessibilità dei vincoli di bilancio.
Ma in linea generale le difficoltà dell’Unione stanno anche e in buon misura nei divari economici e sociali esistenti tra paesi che traducono storie molto diverse. Una maggiore ampiezza delle politiche comunitari attraverso la sola flessibilità, se non prevede e non indica esplicitamente il superamento di questi divari, potrebbe non avere alcun effetto positivo, ma potrebbe, invece, riprodurre e, forse, accrescere quelle divergenze. L’esperienza del nostro Mezzogiorno dovrebbe farci riflettere. Se poi quegli obiettivi del superamento dei divari nello dello sviluppo non vengono nemmeno espressi, sembra difficile indicare quali strumenti e quali riforme dovrebbero portare a quello sviluppo che, a parole, sembra che nessuno intenda negare. Secondo te è in questo senso che occorre interpretare le parole del nostro Primo Ministro quando afferma che le riforme le dobbiamo fare noi e non perché ce le domanda l’Unione? E quali riforme rispondono maggiormente a questo obiettivo?
R. Se tornare a crescere rende necessario per l’Italia un percorso di riforme unite a una nuova strategia di politiche industriali attraverso uno sforzo che deve durare nel tempo – come si è detto prima -, è altrettanto evidente che fare bene i ‘compiti a casa’ non sarà sufficiente. L’interazione con l’Europa e l’area dell’Euro, in particolare, è fondamentale perché l’Italia possa ritrovare un sentiero di crescita sostenuta e duratura. Un’Europa, tuttavia, diversa, da quella manifestatasi in questi ultimi anni: un’area in profonda crisi e sempre più divisa fra paesi creditori e debitori, e che ha visto aumentare disoccupazione, disuguaglianze e povertà.
La crisi dell’euro – com’è noto – è parte di una crisi finanziaria globale, ma è soprattutto il risultato dell’applicazione di una terapia di stretta ortodossia neoclassica – le politiche restrittive cosiddette di austerità – legata a una diagnosi altrettanto tradizionale, in cui la causa scatenante la crisi è rinvenuta nell’eccesso di debiti pubblici, frutto delle irresponsabilità fiscali dei singoli paesi più indebitati. Ma non era così – com’ è poi stato riconosciuto da molti – dal momento che le vere cause furono la crisi del sistema bancario europeo e l’eccesso di indebitamento privato, resi ingestibili dalle debolezze istituzionali e di sistema dell’Unione monetaria.
La diagnosi inadeguata ha portato a prescrivere alla maggioranza dei paesi dell’euro politiche restrittive all’insegna dell’austerità che li hanno spinti in un circolo vizioso, in cui aumenti di tasse e riduzioni di spesa pubblica – un po’ ovunque nei paesi della periferia – hanno depresso il reddito prodotto e fatto salire il rapporto Debito/PIL. Se dovesse continuare la cura ortodossa – e a breve non si profilano ricette alternative – la prospettiva oggi più realistica è un prolungato ristagno deflazionistico per molti paesi europei, stile Giappone anni ‘90, con tassi di crescita di poco superiori allo zero e elevatissima disoccupazione.
Uno scenario macroeconomico così preoccupante verrebbe accompagnato da un ampliamento della distanza che separa oggi i paesi forti (Germania, Austria e Olanda in primo luogo) da quelli deboli (economie dell’area meridionale, inclusa quella italiana). Sono aspetti che si intrecciano tra loro. Bisogna tener conto, infatti, che il ristagno è anche il riflesso di un modello di crescita che in molti paesi – innanzitutto in Germania – è trainato per lo più dall’export e dalla domanda esterna. È un modello che, necessariamente, assume le connotazioni di un gioco a somma zero: alcune economie dell’area euro ne traggono beneficio (in testa la Germania) mentre altre vengono penalizzate (soprattutto i paesi della periferia dell’eurozona).
Per uscire da questa trappola del ristagno e della deflazione, un’alternativa, in realtà, esiste. Il sostegno alla crescita europea è oggi un problema di supporto alla domanda e allo stesso tempo di necessaria ristrutturazione dell’offerta. Un nuovo ciclo di sviluppo sostenibile nell’area europea richiede a medio termine significativi incrementi della produttività, che a loro volta richiedono una forza lavoro più istruita e competente, un contesto produttivo più favorevole all’innovazione tecnologica e alle energie rinnovabili, riduzione delle disuguaglianze e rinnovata equità nella distribuzione del reddito, infrastrutture materiali e immateriali più efficienti. Per realizzarle servono in Europa sostegni alla domanda – come abbiamo già detto – attraverso investimenti a medio e lungo termine, pubblici e privati, in tutta una serie di comparti (istruzione, ricerca, scienze della vita, digitalizzazione, mobilità sostenibile, e altre) che unite a riforme strutturali nei singoli paesi possono trasformarsi in nuovi motori della crescita sostenibile.
Allo stesso tempo tra gli strumenti chiave d’intervento devono figurare in primo piano meccanismi a livello europeo che sappiano ripartire più simmetricamente di quanto avvenuto fin qui gli oneri di aggiustamento tra paesi in deficit e paesi in surplus; e, poi, servono investimenti europei in infrastrutture e settori a rete, che si possono finanziare sia attraverso il bilancio comunitario, nel nuovo quadro finanziario pluriennale, sia attraverso la Banca Europea per gli investimenti (Bei) e i project bond.
Uno scenario alternativo è dunque configurabile, ma si deve imperniare su un mix di politiche più equilibrato e in grado di rilanciare la crescita e l’integrazione delle economie europee. Solo in questo modo si può pensare di colmare l’esistente gap tra Nord e Sud in Europa. Il che comporta più Europa, dunque, che significa più integrazione economica e, a medio-lungo termine, unione politica. Va in effetti riconosciuto che in Europa gli Stati nazione non hanno più gli strumenti per fronteggiare la crisi e governare le loro economie, perché sono troppo piccoli nella nuova economia-mondo. E salvaguardare e rilanciare il modello sociale e democratico europeo sarà possibile solo in un’ottica europea. Per questo è importante – oltre alle misure economiche – un rafforzamento anche dei meccanismi democratici e rappresentativi.
D. L’ultima domanda si riferisce alla questione delle risorse finanziarie. Credo che su un aspetto quantitativo si è tutti d’accordo e cioè sul fatto che non avrebbe senso programmare una politica keynesiana dosandola con il contagocce. Investimenti calibrati in dosi omeopatiche equivarrebbero non ad un fallimento ma ad un fallimenti ed ad uno spreco insieme. Detto questo come e dove reperire le risorse necessarie ….?
R. E’ certamente vero che una strategia di investimenti a medio e lungo termine a livello europeo e nazionale, come delineata fin qui, necessita di risorse finanziarie ingenti. Ma non credo sia questo il vero ostacolo, perché tali risorse esistono e si possono trovare, volendolo.
A livello europeo, ad esempio, è possibile reperire nuove ingenti risorse sui mercati finanziari mediante un’ampia gamma di scelte, che vanno da emissioni obbligazionarie come gli euro-bond e gli euro-project ai fondi gestiti dalla Banca europea degli investimenti. Non dimentichiamo che il livello di indebitamento dell’Unione europea è pressoché zero e c’è una potenziale forte domanda di titoli in euro sui mercati internazionali.
Anche modifiche di regolamentazioni finanziarie europee, oggi vessatorie degli investimenti a medio e lungo termine e incentivanti la vista corta della speculazione finanziaria, potrebbero fornire significativi nuovi spazi finanziari. Tanto più che siamo in una fase di enorme liquidità e denaro a costi estremamente bassi o addirittura azzerati, e quindi estremamente favorevole per chi vuole indebitarsi per investire. Per realizzare tutto ciò serve naturalmente una volontà politica e un senso di condivisione di una prospettiva comune tra i paesi europei. Su entrambi i fronti l’Europa è oggi carente.
Anche a livello nazionale si potrebbero introdurre forme di golden rule negli accordi europei sulle politiche di consolidamento fiscale da realizzare, come il fiscal compact, così da concedere spazi di finanziamento per investimenti nazionali di tipo strategico e favorevoli al rilancio della crescita. Sono altresì realizzabili politiche di ricomposizione dei bilanci pubblici dei singoli paesi attraverso ristrutturazione della spesa pubblica (spending review) così da ridurre la spesa corrente in favore di più spese in conto capitale.
Nel caso specifico del nostro paese il finanziamento delle infrastrutture ha subito, a causa di risorse pubbliche scarse, un forte rallentamento tanto che nell’ultimo decennio la spesa per questo tipo di lavori è diminuita del 35%. Dal momento che la scarsità di risorse continuerà a caratterizzare con molta probabilità anche i prossimi anni, si possono sperimentare e mettere in campo nuovi modelli per il finanziamento delle infrastrutture, in grado di attirare il risparmio ed i capitali privati di lungo periodo, come fondi pensione e assicurazioni vita.
Insomma, il problema del perché non si fanno gli investimenti necessari non deriva da una carenza di risorse finanziarie, che come ho ricordato si possono reperire in vari modi. Il problema ha natura politica. L’attuale contesto politico in Europa e nel nostro paese non è favorevole, per una molteplicità di ragioni, a forti incrementi di questo tipo di spese a lungo termine, sia pubbliche che private. Gruppi di interesse potenti e ben organizzati ostacolano la formulazione di tali misure e la loro realizzazione. Come aggirarli meriterebbe certamente ulteriori approfondite considerazioni ma mi fermo qui perché altrimenti questa intervista diventa davvero troppo lunga.
L’impero del consumo — Eduardo Galeano
L’impero del consumo
— Eduardo Galeano,
Società dei consumi. La bocca è una delle porte dell’anima, dicevano gli antichi. Ma se da lì passa solo cibo spazzatura, la vita è ridotta a un insieme infinito di acquisti di merci usa e getta. E lo struscio domenicale nel centro delle città è sostituito dal pellegrinaggio negli shopping mall che accerchiano le periferie
L’esplosione del consumo nel mondo di oggi fa più rumore della guerra e più baccano del carnevale. Come dice un antico proverbio turco, chi beve a credito si ubriaca due volte. La bisboccia ottunde e obnubila lo sguardo; e quest’enorme sbronza universale sembra non conoscere limiti di spazio e di tempo. Ma la cultura del consumo risuona molto, come il tamburo, perché è vuota; all’ora della verità, quando gli strepiti si calmano e la festa finisce, l’ubriaco di sveglia solo, con l’unica compagnia della sua ombra e dei piatti rotti che dovrà pagare. L’espandersi della domanda cozza con i limiti imposti dallo stesso sistema che la genera. Il sistema ha bisogno di mercati sempre più aperti e ampi, come i polmoni hanno bisogno dell’aria, e al tempo stesso ha bisogno che si riducano sempre più, come in effetti accade, i prezzi delle materie prime e il costo della forza lavoro umana. Il sistema parla in nome di tutti, a tutti dà l’imperioso ordine di consumare, fra tutti diffonde la febbre degli acquisti; ma niente da fare: per quasi tutti quest’avventura inizia e finisce davanti allo schermo del televisore. La maggioranza, che fa debiti per ottenere delle cose, finisce per avere solo più debiti, contratti per pagare debiti che ne producono altri, e si limita a consumare fantasie che talvolta poi diventano realtà con il ricorso ad attività delittuose.
Il diritto allo spreco, privilegio di pochi, proclama di essere la libertà per tutti. Dimmi quanto consumi e ti dirò quando vali. Questa civiltà non lascia dormire i fiori, le galline, la gente. Nelle serre, i fiori sono sottoposti a illuminazione continua, perché crescano più velocemente. E la notte è proibita anche alle galline, nelle fabbriche di uova.
È un modo di vivere che non è buono per le persone, ma è ottimo per l’industria farmaceutica. Gli Stati Uniti consumano la metà dei sedativi, degli ansiolitici e delle altre droghe chimiche vendute legalmente nel mondo, e oltre la metà delle droghe proibite, quelle vendute illegalmente. Non è cosa di poco conto, visto che gli statunitensi sono appena il 5% della popolazione mondiale.
«Gente infelice, che vive in competizione», dice una donna nel barrio del Buceo, a Montevideo. Il dolore di non essere, un tempo cantato nel tango, ha ceduto il posto alla vergogna di non avere. Un uomo povero è un pover’uomo. «quando non hai niente pensi di non valere niente», dice un tipo nel barrio Villa Fiorito, a Buenos Aires. Confermano altri, nella città dominicana di San Francisco de Macorís: «I miei fratelli lavorano per le marche. Vivono comprando cose firmate, e buttano sangue per pagare le rate».
Invisibile violenza del mercato: la diversità è nemica del profitto, e l’uniformità comanda. La produzione in serie, su scala gigantesca, impone ovunque i propri obbligatori modelli di consumo. La dittatura dell’uniformizzazione è più devastante di qualunque dittatura del partito unico: impone, nel mondo intero, un modo di vita che fa degli esseri umani fotocopie del consumatore esemplare.
La dittatura del sapore unico
Il consumatore esemplare è l’uomo tranquillo. Questa civiltà, che confonde la quantità con la qualità, confonde la grassezza con la buona alimentazione. Secondo la rivista scientifica «The Lancet», negli ultimi dieci anni l’«obesità severa» è cresciuta di quasi il 30% fra la popolazione giovane dei paesi più sviluppati. Fra i bambini nordamericani, negli ultimi 16 anni l’obesità è cresciuta del 40%, secondo uno studio recente del Centro scienze della salute presso l’università di Colorado. Il paese che ha inventato i cibi e le bevande light, il diet food e gli alimenti fat free, ha la maggior quantità di grassi del mondo. Il consumatore esemplare scende dall’automobile solo per lavorare e guardare la tivù. Quattro ore al giorno le passa davanti allo schermo, divorando cibi di plastica.
Trionfa la spazzatura travestita da cibo: quest’industria sta conquistando i palati del mondo e fa a pezzi le tradizioni culinarie locali. Le buone antiche abitudini a tavola, che si sono raffinate e diversificate magari in migliaia di anni, sono un patrimonio collettivo accessibile a tutti e non solo alle mense dei ricchi. Queste tradizioni, questi segni di identità culturale, queste feste della vita, vengono schiacciate dall’imposizione del sapere chimico e unico: la globalizzazione degli hamburger, la dittatura del fast-food. La plastificazione del cibo su scala mondiale, opera di McDonald’s, Burger King e altre catene, viola con successo il diritto all’autodeterminazione dei popoli in cucina: un diritto sacro, perché la bocca è una delle porte dell’anima.
Il campionato mondiale di calcio del 1998 ci ha confermato, fra l’altro, che la MasterCard tonifica i muscoli, la Coca-Cola porta l’eterna giovinezza e che il menù di McDonald’s non può mancare nella pancia di un buon atleta. L’immenso esercito di McDonald’s spara hamburger nella bocca di bambini e adulti del mondo intero. Il doppio arco di questa M è servito da standard, nella recente conquista dei paesi dell’Europa dell’Est. Le code davanti alla McDonald’s di Mosca, inaugurata in pompa magna nel 1990, hanno simboleggiato la vittoria dell’Occidente con altrettanta eloquenza della demolizione del Muro di Berlino. Segno dei tempi: quest’azienda, che incarna le virtù del mondo libero, nega ai suoi dipendenti la libertà di organizzarsi in sindacato. McDonald’s viola in tal modo un diritto legalmente riconosciuto nei molti paesi nei quali opera. Nel 1997, alcuni suoi lavoratori, membri di quella che l’azienda chiama la Macfamiglia, cercarono di sindacalizzarsi in un ristorante di Montreal in Canada: il ristorante chiuse. Ma nel 1998, altri dipendenti di McDonald’s in una piccola città presso Vancouver, riuscirono nell’impresa, degna del Guinness dei primati.
Gli universali della pubblicità
Le masse consumatrici ricevono ordini in un linguaggio universale: la pubblicità è riuscita là dove l’esperanto ha fallito. Tutti capiscono, ovunque, i messaggi trasmessi dalla tivù. Nell’ultimo quarto di secolo, grazie al fatto che nel mondo le spese per la pubblicità si sono decuplicate, i bambini poveri bevono sempre più Coca-Cola e sempre meno latte, e il tempo prima dedicato all’ozio sta diventando tempo di consumo obbligatorio. Tempo libero, tempo prigioniero: le case molto povere non hanno letti, ma hanno il televisore, ed è questo a dettar legge. Comprato a rate, questo piccolo animale prova la vocazione democratica del progresso: non ascolta nessuno, ma parla per tutti. Poveri e ricchi conoscono, in tal modo, le virtù dell’ultimo modello di automobili, e poveri e ricchi si informano sui vantaggiosi tassi di interessi offerti da questa o quella banca.
Gli esperti sanno convertire le merci in strumenti magici contro la solitudine. Le cose hanno attributi umani: accarezzano, accompagnano, capiscono, aiutano, il profumo ti bacia e l’auto è un amico che non tradisce mai. La cultura del consumo ha fatto della solitudine il più lucroso dei mercati. Le ferite del cuore si risanano riempiendole di cose, o sognando di farlo. E le cose non possono solo abbracciare: possono anche essere simboli di ascesa sociale, salvacondotti per attraversare le dogane della società classista, chiavi che aprono le porte proibite.
Quanto più sono esclusive, tanto meglio è: le cose esclusive ti scelgono e ti salvano dall’anonimato della folla. La pubblicità non ci informa sul prodotto che vende, o lo fa poche volte. Quello è il meno. La sua funzione principale consiste nel compensare frustrazioni e alimentare fantasie: in chi ti vuoi trasformare comprando questa crema da barba?
Il criminologo Anthony Platt ha osservato che i delitti nelle strade non sono solo frutto della povertà estrema, ma anche dell’etica individualista. L’ossessione sociale del successo, dice Platt, incide in modo decisivo sull’appropriazione illegale delle cose altrui. Ho sempre sentito dire che il denaro non fa la felicità; ma qualunque teledipendente ha motivo di credere che il denaro produca qualcosa di tanto simile alla felicità, che fare la differenza è cosa da specialisti.
Secondo lo storico Eric Hobsbawm, il XX secolo ha messo fine a settemila anni di vita umana centrata sull’agricoltura , da quando nel paleolitico apparvero le prime forme di coltivazione. La popolazione mondiale si concentra nelle città, i contadini diventano cittadini. In America latina abbiamo campi senza persone ed enormi formicai umani urbani: le più grandi città del mondo, e le più ingiuste. Espulsi dalla moderna agricoltura per l’export, e dal degrado dei suoli, i contadini invadono le periferie. Credono che Dio sia ovunque, ma per esperienza sanno che abita nei grandi centri. Le città promettono lavoro, prosperità, un avvenire per i loro figli. Nei campi, si guarda la vita passare e si muore sbadigliando; nelle città la vita scorre, e chiama. Poi, la prima cosa che i nuovi arrivati scoprono, ammucchiati nelle catapecchie, è che manca il lavoro e le braccia sono troppe, che niente è gratis e che gli articoli di lusso più cari sono l’aria e il silenzio.
Secondo lo storico Eric Hobsbawm, il XX secolo ha messo fine a settemila anni di vita umana centrata sull’agricoltura , da quando nel paleolitico apparvero le prime forme di coltivazione. La popolazione mondiale si concentra nelle città, i contadini diventano cittadini. In America latina abbiamo campi senza persone ed enormi formicai umani urbani: le più grandi città del mondo, e le più ingiuste. Espulsi dalla moderna agricoltura per l’export, e dal degrado dei suoli, i contadini invadono le periferie. Credono che Dio sia ovunque, ma per esperienza sanno che abita nei grandi centri. Le città promettono lavoro, prosperità, un avvenire per i loro figli. Nei campi, si guarda la vita passare e si muore sbadigliando; nelle città la vita scorre, e chiama. Poi, la prima cosa che i nuovi arrivati scoprono, ammucchiati nelle catapecchie, è che manca il lavoro e le braccia sono troppe, che niente è gratis e che gli articoli di lusso più cari sono l’aria e il silenzio.
Agli inizi del secolo XIV, frate Giordano da Rivalta pronunciò a Firenze un elogio delle città. Disse che crescevano «perché le persone amano stare insieme». Stare insieme, incontrarsi. Ma adesso, chi si incontra con chi? E la speranza, si incontra con la realtà? Il desiderio, si incontra con il mondo? E la gente, si incontra con la gente? Se i rapporti umani si sono ridotti a rapporti fra le cose, quanta gente si incontra con le cose?
La minoranza compradora
Il mondo intero tende a diventare un grande schermo televisivo, dal quale le cose si guardano ma non si toccano. Le mercanzie in offerta invadono e privatizzano gli spazi pubblici. Le stazioni di pullman e treni, che fino a poco tempo fa erano spazi di incontro fra le persone, si stanno trasformando in spazi commerciali.
Lo shopping center, o shopping mall, vetrina di tutte le vetrine, impone la sua abbagliante presenza. Le masse accorrono, in pellegrinaggio, a questo grande tempio della messa del consumo. La maggioranza dei devoti contempla, in estasi, oggetti che il portafoglio non può pagare, mentre la minoranza compradora risponde al bombardamento incessante ed estenuante dell’offerta. La folla che sale e scende dalle scale mobili viaggia nel mondo: i manichini sono vestiti come a Milano o Parigi e le automobili hanno lo stesso suono che a Chicago, e per vedere e ascoltare non occorre pagare il biglietto. I turisti che vengono dai villaggi dell’interno, o dalle città che non hanno ancora meritato queste benedizioni della moderna felicità, posano per una foto, davanti alle marche internazionali più famose, come un tempo posavano ai piedi della statua a cavallo nella piazza. Beatriz Solano ha osservato che gli abitanti delle periferie vanno allo shopping center come prima andavano in centro. Il tradizionale struscio di fine settimana al centro della città tende a essere sostituito dalle escursioni a questi centri. Lavati e pettinati, con indosso gli abiti migliori, i visitatori vengono a una festa dove non sono invitati, ma dove possono essere spettatori. Intere famiglie fanno il viaggio nella navicella spaziale che percorre l’universo del consumo, nel quale l’estetica del mercato ha disegnato un paesaggio allucinante di modelli, marche ed etichette.
La cultura del consumo, cultura dell’effimero, condanna tutto alla desuetudine mediatica. Tutto cambia al ritmo vertiginoso della moda, messa al servizio della necessità di vendere. Le cose invecchiano in un baleno, per essere sostituite da altre che avranno una vita altrettanto fugace. L’unica cosa che permane è l’insicurezza; le merci, fabbricate perché durino poco, sono volatili quanto il capitale che le finanzia e il lavoro che le produce. Il denaro vola alla velocità della luce; ieri era là, adesso è qua, domani chissà, e ogni lavoratore è un potenziale disoccupato. Paradossalmente, gli shopping centers, sovrani della fugacità, offrono l’illusione di sicurezza più efficace. Resistono infatti fuori dal tempo, senza età né radici, senza notte né giorno né memoria, ed esistono fuori dallo spazio, al di là delle turbolenze della perigliosa realtà del mondo.
I nuovi idoli
I padroni del mondo lo usano come se fosse un usa e getta: una merce dalla vita effimera, che si esaurisce come si esauriscono, quasi appena nate, le immagini sparate dalla mitragliatrice della tivù e le mode e gli idoli che la pubblicità lancia incessantemente sul mercato. Ma in quale altro mondo potremmo andare? Siamo tutti obbligati a credere che Dio abbia venduto il pianeta a un certo numero di imprese, perché essendo di cattivo umano ha deciso di privatizzare l’universo?
La società dei consumi è una trappola esplosiva. Chi ne ha le redini fa finta di ignorarlo, ma chiunque abbia gli occhi può vedere che la grande maggioranza delle persone consuma poco, poco o niente necessariamente, così da garantire l’esistenza della poca natura che ci rimane. L’ingiustizia sociale non è considerata un errore da correggere, né un difetto da superare: è una necessità essenziale. Non c’è natura capace di alimentare uno shopping center delle dimensioni del pianeta.
* Tratto dal sito www.aporrea.org
Trad. di Marinella Correggia
Trad. di Marinella Correggia
lunedì 6 aprile 2015
giovedì 2 aprile 2015
Coscienza e responsabilità di G. Zagrebelsky ( Presidente Libertà e Giustizia )
Coscienza e responsabilità
25 febbraio 2015
Gustavo Zagrebelsky
(tempo esecutivo) Viviamo un tempo esecutivo. “L’esecutivo” vorrebbe tutto. “Il legislativo” e “il giudiziario” dovrebbero essere nulla. Se vogliono contare qualcosa, sono d’impiccio. Il loro dovere è di adeguarsi, di allinearsi, di mettersi in riga. L’esecutivo deve “tirare diritto” alla meta, cioè deve “fare”, deve “lavorare” (e più non domandare). Il legislativo e il giudiziario, se non “si adeguano”, costringono a rallentamenti, deviazioni, ripensamenti, fermate: cose che sarebbero normali e necessarie, nel tempo degli equilibri costituzionali; che sono invece anomalie dannose, nel tempo esecutivo.
(tempo non politico) Il tempo esecutivo è anche, e innanzitutto, un tempo in cui la politica è messa in disparte. Chi parla di politica è sospettato d’ideologia. La politica è innanzitutto discussione e scelta dei fini in comune. Detto diversamente, è l’attività sociale che riguarda la visione e la progettazione ideale della vita collettiva cui segue l’azione per realizzarla. Il tempo esecutivo annulla il discorso sui fini e si concentra sui soli mezzi. Concentrarsi sui soli mezzi significa assumere come dato indiscutibile ciò che c’è, l’esistente, il presente. Il fine unico del momento esecutivo è la necessità che obbliga.
Le parole seduttive e di per sé vuote come “innovazione”, “riforme”, “modernizzazione”, “crescita” sono parole non di libertà, ma di necessità, necessità che non lascia spazio alla scelta del perché, ma solo del percome. Gli esecutivi del tempo attuale dove dominano gli interessi finanziari, nelle posizioni-chiave sono occupati da uomini d’affari e di finanza perché essi, con tutti i mezzi, anche con i più amari per i cittadini e per le loro condizioni di vita, devono essere garanti di assetti ed equilibri che s’impongono perentoriamente come se fossero fatalità. Sono anch’essi, a modo loro, vittime della necessità. Le varianti consentite sono nei dettagli marginali, con riguardo cioè ai modi più efficaci per garantire gli assetti e, quando occorre, per determinare chi siano le vittime preferenziali di questa fatalità.
(tempo tecnico) Il tempo esecutivo e non politico è anche tempo della tecnica che soppianta la politica. Gli esecutivi “tecnici” che, in forma più o meno esplicita, hanno preso piede negli ultimi decenni non sono anomalie, ma conseguenze funzionali a questo stato di cose che è il mantenimento dello status quo o, come anche è stato detto, la dittatura del presente che si autoriproduce e aspira a crescere sempre di più su se stessa.
La tecnica è in sé, per sua natura, conservatrice. Essa è riparatrice o, eventualmente, amplificatrice dell’esistente, ma non modificatrice o trasformatrice. Quando si richiede l’intervento di un tecnico su un manufatto, ciò è per ripararlo in caso di guasto o per potenziarne le possibilità, non certo per cambiarlo. La stessa cosa è per la tecnica che prende il posto della politica. Infatti, i governi tecnici (e quelli che, in mancanza di discorsi sui fini, dietro le apparenze si riducono a essere tali) sono quelli che affrontano i problemi del reggimento della società con lo sguardo rivolto ai guasti e alle difficoltà che si determinano nei rapporti sociali, agli inceppamenti nei meccanismi, agli scompensi che minano la stabilità del sistema sociale.
Se si pongono questioni di giustizia, non è in vista di riforme sociali, come quelle programmaticamente indicate dalla Costituzione, ma è solo per dare sfogo alla pressione delle ingiustizie quando diventano pericolose per la stabilità degli equilibri che devono essere preservati. Si può facilmente constatare la connessione che naturalmente si crea tra i governi tecnici e l’occultamento della politica. C’è una coerenza, ma una coerenza inquietante.
(nichilismo politico) Lo schiacciamento sulla perpetuazione del presente coincide con l’assenza di discorsi sui fini, condannati a priori come irresponsabili o, nella migliore delle ipotesi, come vaneggiamenti impossibili. Una delle espressioni più in uso e più violentatrici della politica è “non ci sono alternative”. Non ci si accorge che chi soggiace alla forza intimidatrice di quest’espressione si fa sostenitore di nichilismo politico, la forma più perfetta di anti-politica conservatrice: dittatura del presente, cioè conservazione non per adesione a un valore scelto a preferenza di altri, ma per subalternità al fatto stesso dell’esistere. Del nichilismo politico, il corollario è la tecnocrazia: i tecnocrati rifuggono da ogni discorso sui fini che bollano come “ideologia”, come se il loro realismo cinico non sia esso stesso un (altra) ideologia.
(banalità) Il nichilismo è il regno del nulla. Poiché la vita pubblica si alimenta con la “comunicazione”, si comunica il nulla. O, meglio: si comunicano le misure tecniche, e con molta enfasi. Ma le idee politiche svaniscono entro un linguaggio allusivo che non ha nulla di politico, un linguaggio che fa sembrare tutto semplice, sol che i fautori del fare siano lasciati liberi di agire “avanti tutta”, con il turbo, per cambiare verso, per cogliere la volta buona di “fare la propria parte”. Così, in assenza di discorsi effettivamente politici, i contrasti vengono ridotti alla contrapposizione tra il voler fare e il volere impedire di fare, il che è un modo efficace per chiudere l’ingresso nella discussione pubblica della questione dei fini, cioè delle idee propriamente politiche. Il tempo tecnico è il tempo delle banalità politiche e, parallelamente, dei “politici” banali.
(antidemocrazia) La politica, per gli Antichi, era l’arte del buon governo: il buon politico era colui che conosceva le regole pratiche della sua azione, come il buon flautista conosce le regole della musica; il medico, della medicina; il tessitore, della tessitura; il timoniere, della navigazione. La politica, per i Moderni, è un’altra cosa: è innanzitutto confronto e competizione tra visioni diverse della società, cui segue – segue per conseguenza – l’azione tecnico-esecutiva.
Solo questa concezione della politica è compatibile con la visione costituzionale della democrazia, cioè con il pluralismo delle idee e il libero dibattito tra chi se ne fa portatore, l’organizzazione delle opinioni in partiti e movimenti politici, il rispetto dei diritti di tutti e specialmente delle minoranze, le libere elezioni, il confronto tra maggioranza e opposizione, la possibilità riconosciuta all’opposizione di diventare maggioranza secondo regole elettorali imparziali. Questi elementi minimi, costitutivi della democrazia, si svuotano di significato, quando il governo delle società è conservazione attraverso misure tecniche.
Le forme della democrazia possono anche non essere eliminate ma, allora, la sostanza si restringe e rinsecchisce, come un guscio svuotato. Le idee generali e i progetti si inaridiscono; i partiti si cristallizzano attorno alle loro oligarchie interessate principalmente a insediarsi nel potere senza sapere a quale scopo diverso da potere stesso, in ciò assomigliandosi sempre di più; il conformismo politico alimenta il cosiddetto pensiero unico e il pensiero unico alimenta a sua volta il conformismo politico; le alternative politiche diventano illusorie perché i governi operano a sovranità limitata e agiscono, come s’è detto, “col pilota automatico”. La competizione tra i partiti solo illusoriamente ha una posta politica. In realtà si trasforma in lotta per ottenere posti.
La capacità di rappresentare la società si riduce, mentre il distacco tra i cittadini e le loro condizioni di vita, da un lato, e le istituzioni dall’altro, aumentano. Il termometro di questa malattia della democrazia è il discredito che colpisce le forze politiche e il crescente astensionismo elettorale. Il difetto di rappresentanza alimenta un sordo rancore di cui si farebbe molto male a sottovalutare il potenziale antidemocratico.
(dittatura del presente) Quando si denuncia il deficit di democrazia si vuole riassumere il rattrappimento della vita pubblica sull’esistente, presentato come unica possibilità, cioè – per usare uno slogan – come “dittatura del presente”. Per usare un terribile linguaggio filosofico, l’ente viene presentato e imposto come se fosse l’essere, e l’essere è ciò che necessariamente è. Tutto il resto, tutto ciò che non vi rientra, nel caso migliore è bollato come futilità e, in quello peggiore, impedimento o sabotaggio.
Finché si resta nella futilità, chi governa nella dimensione dell’essere può limitarsi all’indifferenza o al dileggio nei confronti dei non allineati; ma, quando si trova di fronte a difficoltà, il dileggio si trasforma in misure repressive a intensità variabile: il dileggio si trasforma in annientamento delle opinioni nel dibattito pubblico, fino – extrema ratio che, come possibilità, si erge sempre minacciosa sullo sfondo – all’uso della forza contro i portatori del dissenso. Tutto questo significa “dittatura del presente”: un significato oggettivo, che prescinde dalla buona o cattiva volontà di chi occupa posti esecutivi. Nella dittatura del presente sono più numerose le passive e inconsapevoli comparse che non gli attivi e consapevoli protagonisti.
(livellamento e sincronizzazione) Il tempo esecutivo è incompatibile con il dissenso operante. I tecnici sono sicuri del fatto loro; gli altri, che tecnici non sono, sembra che non sappiano quello che vogliono. Per questo, nel governo esecutivo i diversi soggetti della vita pubblica devono progressivamente livellarsi e sincronizzarsi. In una parola: devono egualizzarsi e mettersi in linea, la “linea nazionale”. Sentiamo parlare di “partito della Nazione”, c’è la tentazione di voler essere il premier (non di un governo, d’una maggioranza, ma) della Nazione al di là di destra e sinistra, abbiamo la Tv della Nazione, avremo presto, forse, l’Editore nazionale, ecc.
Ma, il luogo istituzionale in cui consenso e dissenso politico e sociale dovrebbero esprimersi con compiutezza è un parlamento risultante da libere elezioni. Questo dovrebbe essere il punto di riferimento della democrazia, la sede che al massimo livello rappresenta – come dicevano i costituzionalisti d’un tempo – la coscienza civile della Nazione tutta intera, non però come un intero, ma come componenti di un “intero confronto” tra loro. Un tale parlamento sarebbe precisamente il primo ostacolo che incontra il governo esecutivo. Questa spiega perché lo si umilî spesso con procedure del tipo “prendere o lasciare” e perché coloro – deputati e senatori – che collaborano al progetto del governo esecutivo si umilino essi stessi accettando senza lamentarsi, o con deboli lamenti, la minaccia dello scioglimento che viene ventilata, come se fosse prerogativa del presidente del Consiglio e non del presidente della Repubblica. Sotto quest’aspetto dovrebbero principalmente valutarsi le riforme istituzionali: aumentano o diminuiscono la capacità rappresentativa del Parlamento?
(vincitore e vinti) Le espressioni verbali che usiamo sono spesso rivelatrici. Della legge elettorale si dice ch’essa deve consentire ai cittadini di conoscere il vincitore “la sera stessa”. Ma la politica democratica non conosce vincitori e vinti. Dalle elezioni risulterà il partito che è più forte degli altri numericamente, ma non certo il partito che, per i successivi cinque anni della legislatura, “ha sempre ragione”. Non ci si rende conto di che cosa trascina con sé questa espressione, tanto disinvoltamente usata nel dibattito politico: implica disprezzo per i partiti minori che formano le opposizioni e l’insofferenza verso i poteri di controllo, la magistratura in primo luogo che, a causa dei poteri che in forza della legalità le sono attribuiti, costituisce un impaccio non tollerabile per “il vincitore”.
Nella democrazia costituzionale – l’opposto della tirannia della maggioranza – non c’è posto per strappi e “aventini”. Ma il partito che ha ottenuto il maggior successo nelle elezioni, proprio per questa ragione, ha un onere particolare: governare senza provocare fratture e strappi, onde chi risulta soccombente non abbia motivo di ritenersi vinto, annientato, e non debba considerare la sua presenza nelle istituzioni ormai superflua. Il Parlamento mezzo-vuoto dovrebbe rappresentare un grave problema democratico per tutti, a incominciare dalla maggioranza. Sotto questo profilo dovrebbero principalmente valutarsi la legge elettorale in gestazione e le procedure decisionali parlamentari che si stanno riscrivendo: aumentano la forza centripeta delle istituzioni o aumentano le tentazioni centrifughe?
(deriva autoritaria?) Quando si guardano i cambiamenti istituzionali in corso d’approvazione nel loro complesso – non questa o quest’altra disposizione presa a sé stante – è difficile non vedere, a meno di non voler vedere, il quadro: un sistema elettorale che, tramite il premio di maggioranza e, ancor di più, con il ballottaggio, comprime la rappresentanza e schiaccia le minoranze, nella logica vincitore-vinti; una sola camera con poteri politici pieni e con procedimenti dominati dall’esecutivo; un’attività legislativa in cui la deliberazione rischia in ogni momento di ridursi a interinazione veloce delle proposte governative; controllo maggioritario, rafforzato dal premio di maggioranza, delle nomine di garanzia (presidente della Repubblica, giudici costituzionali, membri del CSM, presidente della Camera, e successive decisioni a questi attribuite); minaccia di scioglimento della Camera in caso di dissenso dal Governo: tutte questioni in ballo nel processi di riforma in corso, che restano in piedi anche nelle nuove versioni dei testi in discussione, pur emendati rispetto agli originari.
Soprattutto, influisce sul giudizio della situazione il silenzio totale su due punti cruciali: la democrazia nei partiti e la vitalità dell’informazione. Qui sta la materia prima della democrazia e se la materia è corrotta, quale che sia il manufatto (cioè l’impalcatura istituzionale) il risultato non potrà non portare i segni della corruzione. Il guscio sarà svuotato della sostanza. Anzi, servirà a mascherare lo svuotamento.
(che cosa significa difendere la Costituzione?) Non si tratta di difendere un’astratta intoccabilità della Costituzione, la quale prevede la possibilità e le procedure per la propria stessa riforma. La Costituzione non è un totem. Nemmeno è “la costituzione più bella del mondo”. Semplicemente essa delinea una forma politica che si basa sulla democrazia di partecipazione, dove le decisioni collettive procedono attraverso contributi dal basso, cioè dai bisogni sociali, dalle convinzioni della giustizia e della libertà che si formano nella società, si organizzano in forme associative e si esprimono negli organi rappresentativi e si sintetizzano e si traducono in pratica attraverso l’opera del governo.
Questa è la “piramide democratica” di cui già si parlava all’epoca dell’Assemblea costituente. Difendere la Costituzione è vigilare affinché la piramide non si rovesci e le decisioni collettive non procedano dall’alto e s’impongano non in base alla partecipazione e alla deliberazione conseguente ma, per esclusione e per autorità, su una società lobotomizzata, rassegnata, passiva. Detto in altri termini, difendere il nucleo della Costituzione è difendere la politica come materia nelle mani dei cittadini e delle loro libere manifestazioni sociali dall’espropriazione da parte delle oligarchie che facilmente e naturalmente si raccolgono attorno agli esecutivi. Onde, per facile deduzione, può dirsi che la difesa della Costituzione equivale alla difesa della democrazia contro le oligarchie. E, poiché le oligarchie odierne albergano soprattutto nell’economia finanziarizzata, difendere la Costituzione significa difendere la politica dalla soverchiante presenza degli interessi economici.
Infine: poiché l’economia al servizio della finanza ha dimensione globale, difendere la Costituzione significa anche difendere l’autonomia politica della collettività nazionale, senza la quale democrazia è parola vuota. In tal modo, il cerchio si chiude: dalla democrazia alla democrazia. Si dice, tuttavia: c’è pur bisogno di governo. Le democrazie muoiono per impotenza, quando non c’è governo. Rispondiamo: è così! Purché si tratti veramente di governo, ma il governo è politica e, finché prevale non la politica ma l’esecutivo, gonfiare l’esecutivo significa sgonfiare la politica. Per questo, occorre rinforzare le radici e non affidarsi alle frasche. Solo le radici rivitalizzate sono la condizione della politica e della democrazia.
(i compiti di libertà e di giustizia) La nostra associazione è nata tredici anni fa con il compito di vigilare sui comportamenti della “classe politica”, per custodirne i requisiti minimi d’integrità e di legalità, in una fase della nostra storia in cui il degrado sembrava, ed era, refrattario a ogni limite. Si trattava di difendere la dignità della politica, un compito che non può certo dirsi diventato inattuale. Questo compito è, dunque, ancora il nostro.
Ma, oggi, quando la politica entra in una zona d’ombra e con essa la democrazia, il compito si allarga e diventa più impegnativo. Si tratta di contribuire a elaborare idee, proposte e rivendicazioni propriamente politiche, cioè di tentare di liberarci dalla cappa che, sulla vita pubblica, stende la dittatura del presente, tramite uno strisciante conformismo che equivale a una loi du silence. Per questo, occorre lavorare con le forze culturali e sociali che, avendo le radici nelle condizioni di vita quotidiane dei più, sanno o cercano di sapere quali sono le domande che chiedono di esprimersi in politiche conseguenti. Questa è la base della Costituzione che deve essere difesa.
Questo è l’onere al quale non possono sfuggire coloro che credono nella democrazia. Questo, viceversa, è ciò che temono coloro che occupano il vertice della piramide e da lì guardano con sospetto ciò che pare sfuggire al proprio controllo. La società civile viene chiamata in causa: non i magnati che frequentano i cosiddetti salotti del potere, dove già s’incontrano senza difficoltà quanti dispongono del potere in tutte le sue forme: economico, culturale, statale. Costoro non hanno affatto bisogno d’incrementare la loro posizione nelle istituzioni. La “nostra” società civile è composta da singoli e associazioni che dedicano energie, tempo, capacità professionali e denari propri in tutti i luoghi della società che avrebbero bisogno di politiche: i luoghi della povertà e della disperazione, della mancanza di lavoro e di possibilità d’impresa, dell’emarginazione e della discriminazione, della malattia, dell’handicap, degli anziani senza sostegno, delle famiglie dove esistono malati di mente e sono lasciate a se stesse, del degrado ambientale.
Questa nostra società civile è ricca di energie e in questa ricchezza sta il serbatoio da cui attingere per la rianimazione della politica a partire dalle dimensioni locali, più sensibili alla concretezza dei problemi sociali, purché si riesca a coordinarle in movimenti capaci di convertire l’azione quotidiana dall’ambito limitato a quello generale, per il modellamento democratico della società. Programma impossibile? Può sembrare così, anche perché oggi le politiche nazionali si scontrano con i vincoli che vengono dalle istituzioni sovranazionali di cui facciamo parte, anch’esse essenzialmente non-politiche. Ancora una volta viene in aiuto la Costituzione. Essa ammette, sì, le limitazioni alla sovranità nazionale, ma solo in condizioni di parità con gli altri Stati e se servono ad assicurare la pace e la giustizia tra le Nazioni. Possiamo dire questo dell’Unione Europea, così com’essa si presenta nei suoi odierni sviluppi? Di fronte all’enormità del compito e prima di dare risposte rinunciatarie, si veda se è possibile realizzare un’unità d’intenti da spendere oltre la dimensione particolare delle formazioni sociali in cui ciascuno di noi separatamente opera, per prolungarla politicamente e diffonderne l’influenza.
(conclusione) Chi ha scritto queste considerazioni – che si sono volute esprimere nel modo più chiaro e categorico possibile, perché solo così l’onesta discussione è possibile – e coloro che eventualmente ne condividono il contenuto sono perfettamente consapevoli di generare fastidio. La loro colpa è di essere Cassandre impenitenti, incontentabili pessimisti, conservatori vecchi e pregiudizialmente nemici del nuovo. Coloro che provano questo fastidio appartengono a generi diversi. Vi sono quelli che non credono nella democrazia, preferendo qualche forma di potere forte – a condizione però, sia chiaro – ch’esso sia dalla loro parte. A questi, che credono sia arrivata per loro “la volta buona”, non c’è nulla da dire. Poi, vi sono coloro che dicono d’essere dalla parte della democrazia, ma negano che sia in corso una deriva della democrazia e pensano che non c’è nulla per cui non stare tranquilli. A questi, si può dire ch’essi non vogliono vedere la semplice realtà che a noi appare evidente per se stessa. Vi sono poi coloro che ritengono che, per far uscire il nostro Paese dallo stallo in cui si trova e perfino per salvare la democrazia dal suicidio per impotenza, si debbano accettare rinunce, cioè riforme del tipo di quelle in cantiere. A questi, sommessamente vorremmo dire che la prima condizione per salvare la democrazia è la riforma degli attori politici, non la riforma delle istituzioni o, almeno la riforma degli uni e delle altre insieme. Occuparsi solo delle seconde è sospetto.
Le riforme ambite da quella che si chiama classe politica servono, infatti, agli adeguamenti alle sue esigenze. Non sono riforme, ma accomodamenti perseguiti con impazienza da una classe politica che avverte drammaticamente il proprio declino e cerca contraddittoriamente di sopravvivere insistendo sulle sue cause. Si parla (impropriamente) di “governabilità”, ma si tratta d’altro, di rafforzamento della presa sul potere. Noi vorremmo chiedere se non pensano d’essere proprio loro, in misura rilevante, la causa dei nostri problemi. Se è così, le riforme decisioniste – le “blindature” – aggravano, non risolvono. Noi, sommessamente ma tenacemente continuiamo a pensare, con i nostri Costituenti, che la buona politica richieda più, non meno, democrazia, cioè più partecipazione e meno oligarchia, più aperture e meno chiusure ai bisogni sociali: i bisogni di chi meno conta nella società e perciò più ha diritto di contare nelle istituzioni. Altro che rami alti: bisogna lavorare per rinforzare le radici.
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