giovedì 29 ottobre 2015
martedì 27 ottobre 2015
Il capitalismo traballa ma il neoliberismo ha vinto
Il capitalismo traballa ma il neoliberismo ha vinto
Intervista a Luciano Gallino di Davide Turrini
Come si è innescata la stessa dinamica impositiva del credo
neoliberista nelle istituzioni e nel governo dell’Unione Europea?
"A partire dagli anni Ottanta, a partire dagli Stati
Uniti ma con un grosso contributo delle nazioni europee, si è affermato il processo
cosiddetto della “finanziarizzazione”, per cui interessi e paradigmi finanziari
hanno avuto la meglio su qualsiasi altro aspetto socio-economico. Il percorso
di liberalizzazioni avviato in Usa da Reagan è avvenuto anche in Gran Bretagna
con la Thatcher, e in Francia ad opera nientemeno che di un socialista come
Mitterand. Tutto ciò ha fatto sì che il sistema ‘ombra’ delle banche, non
assoggettabile in pratica ad alcune forma di regolazione, oggi valga quanto il
sistema bancario che lavora per così dire alla ‘luce del sole’. Sono stati
compiuti eccessi non immaginabili in campo finanziario, che hanno fortemente
danneggiato l’economia reale.
Qualunque dirigente o imprenditore di fronte alla
possibilità di fare il 15% di utile speculando a livello finanziario o il 5%
producendo beni reali, ha cominciato a scegliere la prima opzione senza stare
più a pensarci troppo."
Poi c’è stata la crisi del 2007-2008…
"Una crisi causata soprattutto dalla
“finanziarizzazione”, non disgiunta dalla stagnazione dell’economia reale. A
cui si dovevano far seguire serie riforme a livello bancario e finanziario,
anche solo tornando alle regole, tipo la legge Glass-Steagall del ‘33, che
avevano assicurato 50 anni di stabilità. Però non si è fatto nulla. Le banche e
il sistema finanziario sono tornate più grosse, prepotenti e invadenti di prima
della crisi. L’euro e la superiorità della Germania riflettono i risultati
della finanziarizzazione. Va detto che la politica tedesca è stata quella di
comprimere i salari dei propri lavoratori, e di utilizzare fiumi di forniture a
basso prezzo dai paesi industriali dell’Est per favorire le proprie
esportazioni in modo incredibile. Nel 2014 l’eccedenza degli incassi tra import
ed export è stata di 200 miliardi di euro. I crediti di qualcuno sono però i
debiti di qualcun altro: spesso dei paesi impoveriti sotto il predominio della
Germania, alla quale l’euro ha giovato moltissimo, impedendo agli altri paesi
di svalutare la propria moneta per stare dietro alla competitività
tedesca."
Il caso greco sarà quindi il primo di tanti altri che
arriveranno?
"Sì. Con la Grecia i tedeschi hanno detto: “Umiliarne
uno per educarne diciotto”, se parliamo dell’eurozona. Ne seguiranno altri. La
Germania procede con decisione, la sua industria e le sue banche sono
pesantemente coinvolte nel meccanismo infernale che hanno messo in moto. Dopo
la Grecia toccherà all’Italia, alla Spagna, e anche alla Francia."
Eppure il presidente Renzi ogni giorno vara una nuova
riforma…
"Le riforme di Renzi si collocano tra il dramma e la
barzelletta. Rispetto alle dimensioni del problema, alla gravità della crisi,
il Jobs Act è una stanca ricucitura di vecchi testi dell’Ocse pubblicati nel
1994 e smentiti dalla stessa Ocse: la flessibilità non aumenta l’occupazione.
Abbiamo perso il 25% della produzione industriale, il 10-11% di Pil, gli
investimenti in ricerca e sviluppo sono penosamente modesti. I giochetti delle
riforme sono l’apoteosi preoccupante del fatto che il governo non ha la più
pallida idea dei problemi reali del paese; o forse ce l’hanno ma procedono per
la loro strada di passiva adesione alle politiche di austerità."
C’è chi vede la capitolazione greca di fronte alla fermezza
Bce e Fmi come l’atto più antidemocratico avvenuto in Europa negli ultimi
vent’anni. Che ne pensa?
"Il ministro Schauble, il mastino della Germania e
dell’euro, sta preparando altre strettoie dittatoriali per rafforzare il
dominio tedesco sugli altri paesi dell’eurozona. A me pare che per un paese che
vale demograficamente un ottavo della Germania, tener testa per cinque mesi
agli ottusi e feroci burocrati di Bruxelles, della Bce e del Fmi sia un
altissimo riconoscimento, un grande esempio di dignità politica. L’Italia è
lontana anni luce dalla Grecia. Siamo un paese economicamente molto più pesante
e di fronte ai memorandum europei avremmo potuto ottenere risultati maggiori;
ma questi neoliberali che ci governano rappresentano le classi sociali alleate
con la finanza che ci domina."
Renzi un neoliberale come Reagan e la Thatcher?
"Sì. Anche Monti arrivò da Bruxelles, grazie
all’intervento di Napolitano, per fare il gendarme delle più grandi
insensatezze mai immaginate in campo economico: il pareggio obbligatorio di
bilancio inserito addirittura in Costituzione, le riforme regressive del
lavoro, i tagli forsennati alle pensioni. La Commissione Europea e la Bce ci
mandano lettere che assomigliano ai feroci memorandum mandati alla Grecia. Ci
manca soltanto che ci mandino lettere con su scritto come confezionare il pane,
proprio come suggerito nell’accordo dell’Eurogruppo con Tsipras il 12
luglio."
Che c’è scritto in materia di produzione del pane?
"Si tratta di una indicazione dell’Ocse richiamata
espressamente nel testo dell’accordo. Da sempre i panettieri greci vendono due
tipi di pane: da mezzo e da un chilo. Nella “cassetta degli attrezzi” dell’Ocse
(così si chiama) ci sono alcuni paragrafi dedicati ai fornai a cui viene
imposto, al fine di allargare la liberalizzazione di un paese e bla bla bla, di
introdurre varie altre pezzature di diverso peso delle pagnotte. E poi il pane
dovrà essere venduto in qualunque posto, anche nei saloni di bellezza, se lo
vogliono. Capirete bene cosa rappresenta un’imposizione del genere: si sta
dicendo ad un paese intero come fare il pane. Pensiamo ai 30mila dipendenti della
Cee a Bruxelles e alle migliaia che lavorano per l’Ocse e per l’Eurogruppo con
le loro macchinette mentre calcolano migliaia di coefficienti e trovano il
tempo e ritengono opportuno intervenire sul pane. Si è raggiunto un livello di
imbecillità inaudito, ed è soprattutto una forma di dittatura che avanza."
Ci può spiegare il concetto di “autoritarismo emergenziale”
che ha coniato?
"Un governo che ha una vocazione autoritaria, ma è
ancora soggetto al peso del voto, deve trovare buone ragioni per imporre le sue
misure autoritarie. Per farlo ricorre allo “stato di eccezione”, un vecchio
concetto politico che indica che una parte di uno stato che non ne avrebbe
diritto si appropria di poteri non suoi. Lo stato di eccezione può essere
costituito dalla guerra, da epidemie, da disastri naturali, dove s’impone che
la Costituzione venga messa da parte. Ricordiamo la costituzione della
repubblica di Weimar, la più liberale d’Europa. Conteneva un articolo sullo
stato di eccezione che nel 1933 permise al capo di governo Adolf Hitler di
appropriarsi del potere assoluto facendo fuori gli altri partiti e poi la
costituzione stessa. In Europa con la crisi delle banche, non solo americane, e
grazie alle folli liberalizzazioni sono emerse le montagne di debito a cui gli
istituti si sono esposti. Quando queste procedure sono cadute come castelli di
carta i governi si sono dissanguati per salvare le banche con fiumi di denaro
che hanno indebolito i bilanci pubblici degli stati. Così il debito pubblico
europeo è salito in due anni dal 65% all’85% e i governi hanno inventato uno
stato di eccezione, quello della spesa eccessiva per la protezione sociale. Si
è speso troppo? Bisogna tagliare i bilanci pubblici. Così s’impongono misure
sempre più dittatoriali."
Secondo lei ci sono le condizioni per contrastare
ideologicamente e culturalmente la vulgata neoliberista?
"Il neoliberismo ha stravinto la battaglia culturale,
ha conseguito un’egemonia a cui Gramsci poteva guardare con invidia: controlla
28 su 29 governi dei paesi dell’area europea, qualunque siano i nomi dei
partiti al governo. Hanno il 95% della stampa a favore, il 99% delle tv,
dominano nelle università, e hanno conquistato i governi. Sono piuttosto
difficili oggi da sconfiggere. La sinistra come forza partitica poi non esiste
più e quindi non ha la forza di opporre un ruolo di riflessione o denuncia
paragonabile a quello all’attacco vincente dei neoliberisti. Inoltre non ci
sono saggi, libri, testi da contrapporre all’egemonia culturale neoliberale,
qualcosa che contrasti la favola dei mercati efficienti, della finanza che
inaugura una nuova fase del capitalismo e altre amenità simili."
Le vecchie categorie di pensiero del Novecento non bastano
più per comprendere la realtà politica attuale?
"No, ce ne sono alcune che funzionano ancora bene. Il
fatto è che non basta dire “proletari della UE unitevi”, o cambiando forma dire
‘precari’ o ‘classi medie impoverite della UE unitevi’. Qui bisogna fornire
idee, documenti, possibilità di azione e controreazione. Possono esserci milioni
di elettori che voterebbero una politica di sinistra, realmente progressista,
per uscire dall’austerità, ma chi glielo spiega?"
C’è chi indica il salvataggio nell’uscita dall’euro. Oppure
decondo lei si può stare dentro e modificarne in qualche modo il pensiero
dominante?
"Al di là della demagogia di alcuni politici italiani,
l’euro è una camicia di forza peggiore anche del ‘gold standard’. Ha giovato
solo alla Germania, perfino la Francia ha perso punti nelle esportazioni e
aumentato la disoccupazione. Così com’è l’euro non può più funzionare. Sia
chiaro che uscire dall’oggi al domani non si può, sarebbe un disastro per i
depositi bancari, la fuga dei capitali, la forte svalutazione della moneta sul
mercato internazionale. Ma bisognerà affrontare presto la questione del “se e
come uscirne”, perchè ciò vuol dire molti mesi di preparazione; oppure possiamo
tentare di temperare questa uscita in qualche modo: affiancare all’euro una
moneta parallela che permetta ai governi di avere libertà di bilancio, mentre
con gli euro si continua a sottostare al giogo dei creditori internazionali.
Purtroppo con la Germania al comando e l’inanità del nostro e degli altri
governi non c’è molto da sperare. Intanto i muri della Ue scricchiolano e prima
o poi sarà il peggioramento della crisi a imporci decisioni drastiche. Sempre
che non arrivi Herr Schauble a dirci che non ci vuole più nell’euro. Non è una
battuta, stando ai documenti che circolano."
Fonte: Il Fatto Quotidiano
domenica 25 ottobre 2015
martedì 20 ottobre 2015
domenica 18 ottobre 2015
Rai Replay
Rai Replay: Ulisse di Alberto Angela su Rai 3 del 17 ottobre 2015 : SALENTO: lu sole, lu mare e lu ientu
sabato 17 ottobre 2015
giovedì 15 ottobre 2015
La globalizzazione e il partito-padrone
La globalizzazione e il
partito-padrone
di Paolo Favilli
«Partito dei padroni», «Servo
dei padroni»: si tratta di espressioni che hanno accompagnato per lungo
tempo l’agire politico/sindacale della grande maggioranza delle forme
organizzate delle classi subalterne sia nei momenti di resistenza, sia in
quelli (pochi) favorevoli all’offensiva. In genere quasi tutte le
espressioni utilizzate come strumenti di battaglia, nel contesto di una
lotta di classe esplicita, si caratterizzano per il forte valore emotivo e
l’impreciso valore denotativo. Non che i «padroni delle ferriere» non
fossero chiaramente individuabili, ma neppure quando essi formavano la
parte più evidente del dominio del capitale, tale dominio si esauriva in
quella forma.
Nei periodi in cui, però, la
tipologia del «padrone delle ferriere» era quella più immediatamente
visibile anche i «partiti dei padroni», i «servi dei padroni» si trovavano
ad avere una configurazione precisa nella catena del dominio. Si
configuravano come strumenti politici di servizio (servi appunto)
rispetto a strategie necessarie che avevano come input la sfera del potere
economico. Il modello interpretativo rimaneva forse approssimativo, ma
non era certamente staccato dalla realtà.
Oggi il termine «padrone» è
scomparso dal lessico politico ed anche da quello sindacale.
Nello stesso tempo i modi del
«dominio» sono diventati sempre più pervasivi. Un «dominio» senza
dominus (padrone) è, manifestamente, una inconcepibile
contraddizione. Il fatto che i padroni siano scomparsi dall’uso
linguistico e siano invece ben presenti nella materialità dei rapporti
sociali è un’ulteriore prova di «dominanza ideologica».
Per la verità uno dei massimi
linguisti oggi viventi, Noam Chomsky, ha intitolato I padroni dell’umanità
(The masters of Mankind) un suo recentissimo libro. Egli usa il termine
come elemento coessenziale alla categoria di «dominio», proprio come
aveva fatto anche Adam Smith, quando una scienza economica agli inizi era
ancora strumento di conoscenza reale.
Il termine, inoltre, è ancora
molto usato nell’ambito della scienza sociale critica, ed invece assente dalla
sfera politica. Ed appunto qui è il nodo: si può ancora parlare di una sfera
politica «serva dei padroni»?
Penso che sia necessario
riflettere di nuovo sull’analisi che Michel Foucault, in un libro di più di
quarant’anni fa (Microfisica del potere), esercitava sulle forme di
esercizio del potere nell’ambito del modo di produzione capitalistico.
L’analisi di Foucault, si muove all’interno delle organizzazioni
reticolari tramite le quali il potere si distribuisce in tutto il corpo
sociale. Su questo aspetto, la «microfisica» appunto, si è concentrata
l’attenzione della maggior parte della pubblicistica. Nello stesso tempo,
però, lo studioso francese sottolinea come le caratteristiche
specifiche di quel meccanismo di dominio reticolare siano la
conseguenza di un modo di produzione, di «un sistema economico che
favorisce l’accumulazione di capitale ed un sistema di potere che comanda
l’accumulazione degli uomini». E più recentemente il sociologo tedesco
Ulrich Beck ha sostenuto che è nella «logica del capitale» la ricerca della
propria legittimazione mediante non tanto «l’economicizzazione della
politica, ma la politicizzazione dell’economia».
Nell’attuale fase di
accumulazione nel «partito dei padroni», cioè la «parte» che esercita il
dominio, sia pure «reticolare», sull’insieme del corpo sociale, la
distinzione tra economia e politica è esclusivamente funzionale. Per
fare solo un esempio, il settore industriale dei combustibili fossili,
secondo uno studio del Fondo Monetario internazionale, riceve
contributi pubblici, cioè politici, che assommano a circa cinquemila
miliardi di dollari l’anno. D’altra parte se pensiamo al grado di
finanziarizzazione del sistema economico ed ai livelli di sostegno del
sistema pubblico, cioè politico, di cui ha goduto negli ultimi anni, un
livello tale che ha indotto numerosi analisti a parlare più di
«capitalismo di stato» che della favola del «libero mercato», la
compenetrazione tra le due sfere risulta essere dato di fatto
difficilmente controvertibile. E qui ci riferiamo unicamente ad
iniezioni di denaro, ma la dimensione politica forse più importante è la
costruzione stessa, del tutto politica, di quella che chiamiamo
«globalizzazione» e che altro non è che cornice, ed in gran parte anche
quadro, dell’attuale fase di accumulazione del capitale.
Quindi quando noi parliamo di
«partito dei padroni» con riferimento alla sfera politica, dobbiamo avere
ben chiaro che ci riferiamo a forze attivamente e convintamente
compartecipi tanto della costruzione che del radicamento delle logiche
di tale fase. In Italia lo spazio di cui stiamo parlando è molto affollato,
ma la forza più moderna, coerente, dotata di capacità e di possibilità
decisionale è il Pd, che attualmente si identifica con il suo dominus
primo: Matteo Renzi.
Il processo di emancipazione
dei subalterni si è svolto attraverso l’ampliamento progressivo dei
diritti, che significa ampliamento progressivo della democrazia,
consustanziale al progetto di trasformazione della plebe in popolo. Il
«partito dei padroni» è il protagonista del processo inverso. Tutti gli
atti fondamentali del governo Renzi si iscrivono con perfetta
connessione in tale svolgimento.
Il «partito dei padroni» non
rappresenta né «serve» i padroni. I suoi dirigenti sono «padroni».
Naturalmente in un meccanismo di diffusione reticolare del dominio si
è «padroni» a livello diverso. Il diverso livello, le amministrazioni locali
ad esempio, e nel loro ambito la diversità dei comuni e delle regioni, non
comporta nessuna fuoriuscita dalle logiche dominanti del «partito».
Perché la diffusione reticolare è del tutto interna a processi che hanno
ormai una lunga storia ed un radicato sistema di relazioni tra le diverse
funzioni dell’esercizio del «dominio». Al massimo sono possibili
aggiustamenti tattici e di posizionamento.
La costruzione di una forza
politica antitetica ai modi dell’accumulazione in corso, può reggere
l’alleanza con la dimensione locale del «partito dei padroni»?
Fonte: il manifesto
Originale:
http://ilmanifesto.info/la-globalizzazione-e-il-partito-padrone/
Coraggio, tutti insieme appassionatamente verso i primi del 900 ( A. Robecchi - MicroMega )
Coraggio,
tutti insieme appassionatamente verso i primi del 900 (ALESSANDRO ROBECCHI - La Pagina dei
Blog di MicroMega )
E’ passato un annetto giusto giusto da
quando il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi emetteva il suo sfumato
giudizio: “Il governo Renzi realizza tutti i nostri sogni”. Il problema è che
da allora l’attività onirica di Squinzi, Confindustria e imprenditori italiani
è stata frenetica: la logica prevalente è quella che se si aiutano i padroni
(uh, parolaccia), si aiutano anche i loro dipendenti, un sillogismo piuttosto
bislacco, a dire il vero, ma accettato come un dogma. Così, per fare un
esempio, mentre si mascherano i tagli alla sanità con una variante del Comma 22
(non ti pago gli esami se non sei grave, ma per sapere se sei grave devi fare
gli esami), si annunciano tagli alle tasse sui profitti d’impresa. I famosi
vasi comunicanti, solo che comunicano in un verso solo: dal pubblico al
privato, dal welfare al profitto, dai tanti ai pochi, dal basso all’alto della
piramide sociale.
Chissà se prende qualcosa, pillole,
gocce, per sognare tanto, ma insomma, sta di fatto: il padronato italiano ha
ora un nuovo sogno e il governo si accinge a realizzarlo. Per la verità non è
un sogno nuovissimo ma un vecchio pallino: “superare” il contratto collettivo
di lavoro e lasciare che ogni azienda se la veda da sé nelle vertenze sui
rinnovi contrattuali. Contestualmente, si dovrebbe varare il salario minimo,
cioè una linea di semigalleggiamento sotto cui non sarà possibile andare (né campare).
Ora, per tradurre in italiano: l’operaio metalmeccanico (poniamo) della piccola
media azienda non potrà più contare sulle lotte comuni e condivise di tutti i
metalmeccanici, e quindi su una forza poderosa per sostenere le trattative, ma
dovrà vedersela col singolo consiglio di amministrazione. Non è difficile
immaginare, dunque, che il potere contrattuale penderà clamorosamente dalla
parte degli imprenditori ed è piuttosto fantascientifico immaginare che
l’operaio di una piccola azienda di Crotone avrà un domani gli stessi diritti
(e lo stesso stipendio) di un collega che lavora in una grande fabbrica del
Nord. Dal punto di vista tecnico-economico si tratta di una nuova rapina ai
danni del mondo del lavoro, dal punto di vista storico-culturale è invece il
definitivo omicidio di concetti come unità dei lavoratori, l’unione fa la
forza, uniti si vince eccetera, eccetera, tutte cosucce che ingombrano il
disegno thatcheriano in corso.
I narratori delle gesta renziste si
affanneranno a dire che – wow! – arriva il salario minimo, e lo venderanno come
progresso e cambiaverso in una selva di hashtag osannanti, il che rappresenta,
ovviamente una fregatura parallela. Perché tra poco, per essere in regola,
basterà offrire ai lavoratori un salario minimo appena sufficiente a campare, e
tutto il resto (il salario accessorio) dipenderà dai risultati, dalla
disponibilità (straordinari, festivi, notti, doppi turni, obbedienza). Insomma,
a farla breve, dalla discrezionalità di chi guida le aziende, con le ovvie e
prevedibili ricadute in termini di ricatto economico: fai così o prendi due
lire, ubbidisci o ripiombi in un lumpenproletariat da inizio secolo.
Riassumendo: sei demansionabile (Jobs
act), licenziabile a costi risibili (sempre Jobs act), i tuoi diritti sono determinati
dall’umore del datore di lavoro, il tuo salario è variabile a seconda di come
ti comporti, e tra poco si metterà mano a una restrizione del diritto di
sciopero. Niente male, per un governo – destra e sinistra Pd, Ncd, sor Verdini
e compari – che si affanna a dire a tutti che è “di sinistra”.
Alessandro Robecchi
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