venerdì 25 dicembre 2015
giovedì 10 dicembre 2015
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mercoledì 4 novembre 2015
giovedì 29 ottobre 2015
martedì 27 ottobre 2015
Il capitalismo traballa ma il neoliberismo ha vinto
Il capitalismo traballa ma il neoliberismo ha vinto
Intervista a Luciano Gallino di Davide Turrini
Come si è innescata la stessa dinamica impositiva del credo
neoliberista nelle istituzioni e nel governo dell’Unione Europea?
"A partire dagli anni Ottanta, a partire dagli Stati
Uniti ma con un grosso contributo delle nazioni europee, si è affermato il processo
cosiddetto della “finanziarizzazione”, per cui interessi e paradigmi finanziari
hanno avuto la meglio su qualsiasi altro aspetto socio-economico. Il percorso
di liberalizzazioni avviato in Usa da Reagan è avvenuto anche in Gran Bretagna
con la Thatcher, e in Francia ad opera nientemeno che di un socialista come
Mitterand. Tutto ciò ha fatto sì che il sistema ‘ombra’ delle banche, non
assoggettabile in pratica ad alcune forma di regolazione, oggi valga quanto il
sistema bancario che lavora per così dire alla ‘luce del sole’. Sono stati
compiuti eccessi non immaginabili in campo finanziario, che hanno fortemente
danneggiato l’economia reale.
Qualunque dirigente o imprenditore di fronte alla
possibilità di fare il 15% di utile speculando a livello finanziario o il 5%
producendo beni reali, ha cominciato a scegliere la prima opzione senza stare
più a pensarci troppo."
Poi c’è stata la crisi del 2007-2008…
"Una crisi causata soprattutto dalla
“finanziarizzazione”, non disgiunta dalla stagnazione dell’economia reale. A
cui si dovevano far seguire serie riforme a livello bancario e finanziario,
anche solo tornando alle regole, tipo la legge Glass-Steagall del ‘33, che
avevano assicurato 50 anni di stabilità. Però non si è fatto nulla. Le banche e
il sistema finanziario sono tornate più grosse, prepotenti e invadenti di prima
della crisi. L’euro e la superiorità della Germania riflettono i risultati
della finanziarizzazione. Va detto che la politica tedesca è stata quella di
comprimere i salari dei propri lavoratori, e di utilizzare fiumi di forniture a
basso prezzo dai paesi industriali dell’Est per favorire le proprie
esportazioni in modo incredibile. Nel 2014 l’eccedenza degli incassi tra import
ed export è stata di 200 miliardi di euro. I crediti di qualcuno sono però i
debiti di qualcun altro: spesso dei paesi impoveriti sotto il predominio della
Germania, alla quale l’euro ha giovato moltissimo, impedendo agli altri paesi
di svalutare la propria moneta per stare dietro alla competitività
tedesca."
Il caso greco sarà quindi il primo di tanti altri che
arriveranno?
"Sì. Con la Grecia i tedeschi hanno detto: “Umiliarne
uno per educarne diciotto”, se parliamo dell’eurozona. Ne seguiranno altri. La
Germania procede con decisione, la sua industria e le sue banche sono
pesantemente coinvolte nel meccanismo infernale che hanno messo in moto. Dopo
la Grecia toccherà all’Italia, alla Spagna, e anche alla Francia."
Eppure il presidente Renzi ogni giorno vara una nuova
riforma…
"Le riforme di Renzi si collocano tra il dramma e la
barzelletta. Rispetto alle dimensioni del problema, alla gravità della crisi,
il Jobs Act è una stanca ricucitura di vecchi testi dell’Ocse pubblicati nel
1994 e smentiti dalla stessa Ocse: la flessibilità non aumenta l’occupazione.
Abbiamo perso il 25% della produzione industriale, il 10-11% di Pil, gli
investimenti in ricerca e sviluppo sono penosamente modesti. I giochetti delle
riforme sono l’apoteosi preoccupante del fatto che il governo non ha la più
pallida idea dei problemi reali del paese; o forse ce l’hanno ma procedono per
la loro strada di passiva adesione alle politiche di austerità."
C’è chi vede la capitolazione greca di fronte alla fermezza
Bce e Fmi come l’atto più antidemocratico avvenuto in Europa negli ultimi
vent’anni. Che ne pensa?
"Il ministro Schauble, il mastino della Germania e
dell’euro, sta preparando altre strettoie dittatoriali per rafforzare il
dominio tedesco sugli altri paesi dell’eurozona. A me pare che per un paese che
vale demograficamente un ottavo della Germania, tener testa per cinque mesi
agli ottusi e feroci burocrati di Bruxelles, della Bce e del Fmi sia un
altissimo riconoscimento, un grande esempio di dignità politica. L’Italia è
lontana anni luce dalla Grecia. Siamo un paese economicamente molto più pesante
e di fronte ai memorandum europei avremmo potuto ottenere risultati maggiori;
ma questi neoliberali che ci governano rappresentano le classi sociali alleate
con la finanza che ci domina."
Renzi un neoliberale come Reagan e la Thatcher?
"Sì. Anche Monti arrivò da Bruxelles, grazie
all’intervento di Napolitano, per fare il gendarme delle più grandi
insensatezze mai immaginate in campo economico: il pareggio obbligatorio di
bilancio inserito addirittura in Costituzione, le riforme regressive del
lavoro, i tagli forsennati alle pensioni. La Commissione Europea e la Bce ci
mandano lettere che assomigliano ai feroci memorandum mandati alla Grecia. Ci
manca soltanto che ci mandino lettere con su scritto come confezionare il pane,
proprio come suggerito nell’accordo dell’Eurogruppo con Tsipras il 12
luglio."
Che c’è scritto in materia di produzione del pane?
"Si tratta di una indicazione dell’Ocse richiamata
espressamente nel testo dell’accordo. Da sempre i panettieri greci vendono due
tipi di pane: da mezzo e da un chilo. Nella “cassetta degli attrezzi” dell’Ocse
(così si chiama) ci sono alcuni paragrafi dedicati ai fornai a cui viene
imposto, al fine di allargare la liberalizzazione di un paese e bla bla bla, di
introdurre varie altre pezzature di diverso peso delle pagnotte. E poi il pane
dovrà essere venduto in qualunque posto, anche nei saloni di bellezza, se lo
vogliono. Capirete bene cosa rappresenta un’imposizione del genere: si sta
dicendo ad un paese intero come fare il pane. Pensiamo ai 30mila dipendenti della
Cee a Bruxelles e alle migliaia che lavorano per l’Ocse e per l’Eurogruppo con
le loro macchinette mentre calcolano migliaia di coefficienti e trovano il
tempo e ritengono opportuno intervenire sul pane. Si è raggiunto un livello di
imbecillità inaudito, ed è soprattutto una forma di dittatura che avanza."
Ci può spiegare il concetto di “autoritarismo emergenziale”
che ha coniato?
"Un governo che ha una vocazione autoritaria, ma è
ancora soggetto al peso del voto, deve trovare buone ragioni per imporre le sue
misure autoritarie. Per farlo ricorre allo “stato di eccezione”, un vecchio
concetto politico che indica che una parte di uno stato che non ne avrebbe
diritto si appropria di poteri non suoi. Lo stato di eccezione può essere
costituito dalla guerra, da epidemie, da disastri naturali, dove s’impone che
la Costituzione venga messa da parte. Ricordiamo la costituzione della
repubblica di Weimar, la più liberale d’Europa. Conteneva un articolo sullo
stato di eccezione che nel 1933 permise al capo di governo Adolf Hitler di
appropriarsi del potere assoluto facendo fuori gli altri partiti e poi la
costituzione stessa. In Europa con la crisi delle banche, non solo americane, e
grazie alle folli liberalizzazioni sono emerse le montagne di debito a cui gli
istituti si sono esposti. Quando queste procedure sono cadute come castelli di
carta i governi si sono dissanguati per salvare le banche con fiumi di denaro
che hanno indebolito i bilanci pubblici degli stati. Così il debito pubblico
europeo è salito in due anni dal 65% all’85% e i governi hanno inventato uno
stato di eccezione, quello della spesa eccessiva per la protezione sociale. Si
è speso troppo? Bisogna tagliare i bilanci pubblici. Così s’impongono misure
sempre più dittatoriali."
Secondo lei ci sono le condizioni per contrastare
ideologicamente e culturalmente la vulgata neoliberista?
"Il neoliberismo ha stravinto la battaglia culturale,
ha conseguito un’egemonia a cui Gramsci poteva guardare con invidia: controlla
28 su 29 governi dei paesi dell’area europea, qualunque siano i nomi dei
partiti al governo. Hanno il 95% della stampa a favore, il 99% delle tv,
dominano nelle università, e hanno conquistato i governi. Sono piuttosto
difficili oggi da sconfiggere. La sinistra come forza partitica poi non esiste
più e quindi non ha la forza di opporre un ruolo di riflessione o denuncia
paragonabile a quello all’attacco vincente dei neoliberisti. Inoltre non ci
sono saggi, libri, testi da contrapporre all’egemonia culturale neoliberale,
qualcosa che contrasti la favola dei mercati efficienti, della finanza che
inaugura una nuova fase del capitalismo e altre amenità simili."
Le vecchie categorie di pensiero del Novecento non bastano
più per comprendere la realtà politica attuale?
"No, ce ne sono alcune che funzionano ancora bene. Il
fatto è che non basta dire “proletari della UE unitevi”, o cambiando forma dire
‘precari’ o ‘classi medie impoverite della UE unitevi’. Qui bisogna fornire
idee, documenti, possibilità di azione e controreazione. Possono esserci milioni
di elettori che voterebbero una politica di sinistra, realmente progressista,
per uscire dall’austerità, ma chi glielo spiega?"
C’è chi indica il salvataggio nell’uscita dall’euro. Oppure
decondo lei si può stare dentro e modificarne in qualche modo il pensiero
dominante?
"Al di là della demagogia di alcuni politici italiani,
l’euro è una camicia di forza peggiore anche del ‘gold standard’. Ha giovato
solo alla Germania, perfino la Francia ha perso punti nelle esportazioni e
aumentato la disoccupazione. Così com’è l’euro non può più funzionare. Sia
chiaro che uscire dall’oggi al domani non si può, sarebbe un disastro per i
depositi bancari, la fuga dei capitali, la forte svalutazione della moneta sul
mercato internazionale. Ma bisognerà affrontare presto la questione del “se e
come uscirne”, perchè ciò vuol dire molti mesi di preparazione; oppure possiamo
tentare di temperare questa uscita in qualche modo: affiancare all’euro una
moneta parallela che permetta ai governi di avere libertà di bilancio, mentre
con gli euro si continua a sottostare al giogo dei creditori internazionali.
Purtroppo con la Germania al comando e l’inanità del nostro e degli altri
governi non c’è molto da sperare. Intanto i muri della Ue scricchiolano e prima
o poi sarà il peggioramento della crisi a imporci decisioni drastiche. Sempre
che non arrivi Herr Schauble a dirci che non ci vuole più nell’euro. Non è una
battuta, stando ai documenti che circolano."
Fonte: Il Fatto Quotidiano
domenica 25 ottobre 2015
martedì 20 ottobre 2015
domenica 18 ottobre 2015
Rai Replay
Rai Replay: Ulisse di Alberto Angela su Rai 3 del 17 ottobre 2015 : SALENTO: lu sole, lu mare e lu ientu
sabato 17 ottobre 2015
giovedì 15 ottobre 2015
La globalizzazione e il partito-padrone
La globalizzazione e il
partito-padrone
di Paolo Favilli
«Partito dei padroni», «Servo
dei padroni»: si tratta di espressioni che hanno accompagnato per lungo
tempo l’agire politico/sindacale della grande maggioranza delle forme
organizzate delle classi subalterne sia nei momenti di resistenza, sia in
quelli (pochi) favorevoli all’offensiva. In genere quasi tutte le
espressioni utilizzate come strumenti di battaglia, nel contesto di una
lotta di classe esplicita, si caratterizzano per il forte valore emotivo e
l’impreciso valore denotativo. Non che i «padroni delle ferriere» non
fossero chiaramente individuabili, ma neppure quando essi formavano la
parte più evidente del dominio del capitale, tale dominio si esauriva in
quella forma.
Nei periodi in cui, però, la
tipologia del «padrone delle ferriere» era quella più immediatamente
visibile anche i «partiti dei padroni», i «servi dei padroni» si trovavano
ad avere una configurazione precisa nella catena del dominio. Si
configuravano come strumenti politici di servizio (servi appunto)
rispetto a strategie necessarie che avevano come input la sfera del potere
economico. Il modello interpretativo rimaneva forse approssimativo, ma
non era certamente staccato dalla realtà.
Oggi il termine «padrone» è
scomparso dal lessico politico ed anche da quello sindacale.
Nello stesso tempo i modi del
«dominio» sono diventati sempre più pervasivi. Un «dominio» senza
dominus (padrone) è, manifestamente, una inconcepibile
contraddizione. Il fatto che i padroni siano scomparsi dall’uso
linguistico e siano invece ben presenti nella materialità dei rapporti
sociali è un’ulteriore prova di «dominanza ideologica».
Per la verità uno dei massimi
linguisti oggi viventi, Noam Chomsky, ha intitolato I padroni dell’umanità
(The masters of Mankind) un suo recentissimo libro. Egli usa il termine
come elemento coessenziale alla categoria di «dominio», proprio come
aveva fatto anche Adam Smith, quando una scienza economica agli inizi era
ancora strumento di conoscenza reale.
Il termine, inoltre, è ancora
molto usato nell’ambito della scienza sociale critica, ed invece assente dalla
sfera politica. Ed appunto qui è il nodo: si può ancora parlare di una sfera
politica «serva dei padroni»?
Penso che sia necessario
riflettere di nuovo sull’analisi che Michel Foucault, in un libro di più di
quarant’anni fa (Microfisica del potere), esercitava sulle forme di
esercizio del potere nell’ambito del modo di produzione capitalistico.
L’analisi di Foucault, si muove all’interno delle organizzazioni
reticolari tramite le quali il potere si distribuisce in tutto il corpo
sociale. Su questo aspetto, la «microfisica» appunto, si è concentrata
l’attenzione della maggior parte della pubblicistica. Nello stesso tempo,
però, lo studioso francese sottolinea come le caratteristiche
specifiche di quel meccanismo di dominio reticolare siano la
conseguenza di un modo di produzione, di «un sistema economico che
favorisce l’accumulazione di capitale ed un sistema di potere che comanda
l’accumulazione degli uomini». E più recentemente il sociologo tedesco
Ulrich Beck ha sostenuto che è nella «logica del capitale» la ricerca della
propria legittimazione mediante non tanto «l’economicizzazione della
politica, ma la politicizzazione dell’economia».
Nell’attuale fase di
accumulazione nel «partito dei padroni», cioè la «parte» che esercita il
dominio, sia pure «reticolare», sull’insieme del corpo sociale, la
distinzione tra economia e politica è esclusivamente funzionale. Per
fare solo un esempio, il settore industriale dei combustibili fossili,
secondo uno studio del Fondo Monetario internazionale, riceve
contributi pubblici, cioè politici, che assommano a circa cinquemila
miliardi di dollari l’anno. D’altra parte se pensiamo al grado di
finanziarizzazione del sistema economico ed ai livelli di sostegno del
sistema pubblico, cioè politico, di cui ha goduto negli ultimi anni, un
livello tale che ha indotto numerosi analisti a parlare più di
«capitalismo di stato» che della favola del «libero mercato», la
compenetrazione tra le due sfere risulta essere dato di fatto
difficilmente controvertibile. E qui ci riferiamo unicamente ad
iniezioni di denaro, ma la dimensione politica forse più importante è la
costruzione stessa, del tutto politica, di quella che chiamiamo
«globalizzazione» e che altro non è che cornice, ed in gran parte anche
quadro, dell’attuale fase di accumulazione del capitale.
Quindi quando noi parliamo di
«partito dei padroni» con riferimento alla sfera politica, dobbiamo avere
ben chiaro che ci riferiamo a forze attivamente e convintamente
compartecipi tanto della costruzione che del radicamento delle logiche
di tale fase. In Italia lo spazio di cui stiamo parlando è molto affollato,
ma la forza più moderna, coerente, dotata di capacità e di possibilità
decisionale è il Pd, che attualmente si identifica con il suo dominus
primo: Matteo Renzi.
Il processo di emancipazione
dei subalterni si è svolto attraverso l’ampliamento progressivo dei
diritti, che significa ampliamento progressivo della democrazia,
consustanziale al progetto di trasformazione della plebe in popolo. Il
«partito dei padroni» è il protagonista del processo inverso. Tutti gli
atti fondamentali del governo Renzi si iscrivono con perfetta
connessione in tale svolgimento.
Il «partito dei padroni» non
rappresenta né «serve» i padroni. I suoi dirigenti sono «padroni».
Naturalmente in un meccanismo di diffusione reticolare del dominio si
è «padroni» a livello diverso. Il diverso livello, le amministrazioni locali
ad esempio, e nel loro ambito la diversità dei comuni e delle regioni, non
comporta nessuna fuoriuscita dalle logiche dominanti del «partito».
Perché la diffusione reticolare è del tutto interna a processi che hanno
ormai una lunga storia ed un radicato sistema di relazioni tra le diverse
funzioni dell’esercizio del «dominio». Al massimo sono possibili
aggiustamenti tattici e di posizionamento.
La costruzione di una forza
politica antitetica ai modi dell’accumulazione in corso, può reggere
l’alleanza con la dimensione locale del «partito dei padroni»?
Fonte: il manifesto
Originale:
http://ilmanifesto.info/la-globalizzazione-e-il-partito-padrone/
Coraggio, tutti insieme appassionatamente verso i primi del 900 ( A. Robecchi - MicroMega )
Coraggio,
tutti insieme appassionatamente verso i primi del 900 (ALESSANDRO ROBECCHI - La Pagina dei
Blog di MicroMega )
E’ passato un annetto giusto giusto da
quando il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi emetteva il suo sfumato
giudizio: “Il governo Renzi realizza tutti i nostri sogni”. Il problema è che
da allora l’attività onirica di Squinzi, Confindustria e imprenditori italiani
è stata frenetica: la logica prevalente è quella che se si aiutano i padroni
(uh, parolaccia), si aiutano anche i loro dipendenti, un sillogismo piuttosto
bislacco, a dire il vero, ma accettato come un dogma. Così, per fare un
esempio, mentre si mascherano i tagli alla sanità con una variante del Comma 22
(non ti pago gli esami se non sei grave, ma per sapere se sei grave devi fare
gli esami), si annunciano tagli alle tasse sui profitti d’impresa. I famosi
vasi comunicanti, solo che comunicano in un verso solo: dal pubblico al
privato, dal welfare al profitto, dai tanti ai pochi, dal basso all’alto della
piramide sociale.
Chissà se prende qualcosa, pillole,
gocce, per sognare tanto, ma insomma, sta di fatto: il padronato italiano ha
ora un nuovo sogno e il governo si accinge a realizzarlo. Per la verità non è
un sogno nuovissimo ma un vecchio pallino: “superare” il contratto collettivo
di lavoro e lasciare che ogni azienda se la veda da sé nelle vertenze sui
rinnovi contrattuali. Contestualmente, si dovrebbe varare il salario minimo,
cioè una linea di semigalleggiamento sotto cui non sarà possibile andare (né campare).
Ora, per tradurre in italiano: l’operaio metalmeccanico (poniamo) della piccola
media azienda non potrà più contare sulle lotte comuni e condivise di tutti i
metalmeccanici, e quindi su una forza poderosa per sostenere le trattative, ma
dovrà vedersela col singolo consiglio di amministrazione. Non è difficile
immaginare, dunque, che il potere contrattuale penderà clamorosamente dalla
parte degli imprenditori ed è piuttosto fantascientifico immaginare che
l’operaio di una piccola azienda di Crotone avrà un domani gli stessi diritti
(e lo stesso stipendio) di un collega che lavora in una grande fabbrica del
Nord. Dal punto di vista tecnico-economico si tratta di una nuova rapina ai
danni del mondo del lavoro, dal punto di vista storico-culturale è invece il
definitivo omicidio di concetti come unità dei lavoratori, l’unione fa la
forza, uniti si vince eccetera, eccetera, tutte cosucce che ingombrano il
disegno thatcheriano in corso.
I narratori delle gesta renziste si
affanneranno a dire che – wow! – arriva il salario minimo, e lo venderanno come
progresso e cambiaverso in una selva di hashtag osannanti, il che rappresenta,
ovviamente una fregatura parallela. Perché tra poco, per essere in regola,
basterà offrire ai lavoratori un salario minimo appena sufficiente a campare, e
tutto il resto (il salario accessorio) dipenderà dai risultati, dalla
disponibilità (straordinari, festivi, notti, doppi turni, obbedienza). Insomma,
a farla breve, dalla discrezionalità di chi guida le aziende, con le ovvie e
prevedibili ricadute in termini di ricatto economico: fai così o prendi due
lire, ubbidisci o ripiombi in un lumpenproletariat da inizio secolo.
Riassumendo: sei demansionabile (Jobs
act), licenziabile a costi risibili (sempre Jobs act), i tuoi diritti sono determinati
dall’umore del datore di lavoro, il tuo salario è variabile a seconda di come
ti comporti, e tra poco si metterà mano a una restrizione del diritto di
sciopero. Niente male, per un governo – destra e sinistra Pd, Ncd, sor Verdini
e compari – che si affanna a dire a tutti che è “di sinistra”.
Alessandro Robecchi
sabato 3 ottobre 2015
mercoledì 30 settembre 2015
martedì 22 settembre 2015
lunedì 14 settembre 2015
“È vietato rassegnarsi, il mondo si può cambiare”
“È vietato rassegnarsi, il mondo si può cambiare”
Partendo dal mito della caverna di Platone, Diego Fusaro invita con Il domani è nostro a credere in un futuro migliore
Diego Fusaro,31 anni
12/10/2014
CLAUDIO GALLO
Bisognerebbe smettere di chiamare Diego Fusaro «giovane filosofo», nonostante abbia soltanto 31 anni. Dopotutto ha ormai diversi libri di successo alle spalle, come il bestseller filosofico Bentornato Marx! e Il futuro è nostro, appena uscito da Bompiani. Seguace indipendente di Hegel, Marx e Gramsci, docente all’Università San Raffaele di Milano, critica radicalmente la nostra società, senza risparmiare «la falsa coscienza» della sinistra. Un atteggiamento che nel mondo della fine della storia conferisce un caratteristico sentore di zolfo.
«Il futuro è nostro» parte dalla caverna di Platone per dire come il singolo non deve rinunciare a desiderare un mondo più vero e più giusto, un’aspirazione che si realizza compiutamente nella dimensione sociale. Ma non ci aveva spiegato Popper che Platone era una specie di proto-nazista?
«Si può essere liberi solo se libera è la società. L’essere liberi, con buona pace delle retoriche neoliberali, non è questione meramente individuale. Metafora dell’unione inscindibile di verità e liberazione, la caverna di Platone ci insegna che il compito della filosofia non arresa all’esistente è affrancare l’umanità dalle catene ideali e materiali, dalle ideologie e dalla schiavitù che domina in un mondo che continua a proclamarsi libero. Dalla sua prospettiva liberale, Popper demonizzava Platone, Hegel e Marx come precursori dei totalitarismi: io li recupero integralmente, mostrando come non vi sia società meno “aperta” e più totalitaria di quella capitalistica. Essa ci imprigiona nella caverna e ce la fa amare, illudendoci che essa sia il solo mondo possibile. Oggi, complice l’ideologia dominante, il sistema si presenta come “gabbia d’acciaio” da cui non è possibile evadere: occorre, allora, tornare a pensarlo come caverna da cui si può uscire; a patto, naturalmente, che si comprenda la natura autenticamente falsa e totalitaria del mondo in cui siamo prigionieri, anziché continuare a viverlo come un destino ineluttabile o come il trionfo della libertà».
Lei individua in Robinson Crusoe la figura emblematica dell’individualismo che domina la nostra società: perché dovremmo sentirci naufraghi su un’isola deserta?
«Robinson è il paradigma del soggetto moderno. E’ incapace di intrattenere relazioni autentiche con l’altro: la sola forma relazionale che egli conosce e pratica è quella incardinata sull’utile e sul tornaconto personale, ai danni del povero Venerdì di turno. La nostra è, oggi, una società di Robinson isolati ed egoisti, incapaci di instaurare relazioni con l’altro. In riferimento al mondo moderno Hegel parlava di “sistema dell’atomistica”, a sottolineare come – oggi più di ieri – viviamo nel tempo della morte del legame comunitario. Il mio libro è un tentativo di reagire a tutto questo, ripartendo da Hegel e da Aristotele, e dunque dall’idea dell’uomo come animale politico e comunitario».
La percezione generale è che il nostro mondo sia il più libero e tollerante della storia, perché lei sostiene invece che la democrazia occidentale sarebbe il più perfido dei totalitarismi?
«È il totalitarismo perfettamente realizzato, il più subdolo e ingannevole: infatti, illude i suoi sudditi di essere liberi. Quale totalitarismo – rosso o nero – sarebbe riuscito a piazzare nelle tasche dei suoi sudditi un telefono cellulare? Quale sarebbe riuscito a schedare tutti i suoi sudditi, come accade oggi con Facebook e Twitter? Nell’odierno gregge omologato della società di massa, ognuno fa ciò “liberamente”, pensando di essere libero di compiere quel gesto intimamente necessitato dalle logiche del sistema. È una gabbia d’acciaio in cui puoi fare tutto ciò che vuoi, fuorché pensare una società diversa e batterti per la sua realizzazione. Quando un mondo storico riesce a convincere i suoi abitatori di essere il solo mondo possibile, allora può allentare la presa sui corpi, perché è “totale” quella sulle anime».
Lei individua nella Russia di Putin un polo di resistenza all’omologazione globale. L’attuale società russa non sembra però esattamente un modello da esportare.
«Putin non è Lenin (purtroppo!): e tuttavia dispone di autonomia strategica e di armi di dissuasione di massa. Per questo, pur con tutti i suoi manifesti limiti, la Russia ha oggi il compito di appoggiare il più possibile gli Stati resistenti all’impero americano, ponendosi essa stessa come Stato che resiste: con la potenza russa, è come se al ritratto stilizzato del presidente americano Obama accompagnato dall’asserto yes, we can si affiancasse un’analoga immagine di Putin, a sua volta associata alla scritta no, you can’t».
venerdì 11 settembre 2015
mercoledì 9 settembre 2015
Sottrarre la democrazia al controllo dei creditori
Sottrarre la democrazia al controllo dei creditori
Un gruppo di economisti di fama internazionale ha firmato un appello affinché i Paesi Membri dell’Unione Europea votino, durante l’Assemblea Generale dell’ONU del 10 settembre, a favore di una risoluzione per la gestione democratica dei debiti sovrani, affinché le sorti dei Paesi indebitati vengano sottratte al mercato dei debiti, come nel caso dell’Argentina prima e della Grecia poi.
«La crisi greca ha mostrato che in assenza di un quadro politico internazionale, che permetta una gestione ragionevole dei debiti sovrani, e malgrado la loro insostenibilità, uno Stato da solo non può ottenere delle condizioni praticabili per la ristrutturazione del proprio debito. Durante le negoziazioni con la Troika, la Grecia si è imbattuta in un ostinato rifiuto in tema di ristrutturazione, in contrasto con le raccomandazioni stesse del Fmi.
Esattamente un anno fa a New York, l’Argentina, sostenuta dai 134 Paesi del G77, ha proposto in sede Onu di creare un comitato che stabilisse un quadro legale a livello internazionale per la ristrutturazione dei debiti sovrani. Il comitato, sostenuto da un gruppo di esperti dell’Uctad, vuole adesso sottoporre al voto 9 principi, che dovrebbero prevalere durante le ristrutturazioni dei debiti sovrani: sovranità, buona fede, trasparenza, imparzialità, trattamento equo, immunità sovrana, legittimità, sostenibilità, regole maggioritarie.
Negli ultimi decenni si è assistito all’emergere di un vero e proprio mercato del debito a cui gli Stati hanno dovuto sottostare. L’Argentina, prima in questo processo, ha dovuto affrontare i cosiddetti “fondi avvoltoio” quando ha scelto di ristrutturare il proprio debito. Questi fondi, di recente, hanno ottenuto per mezzo della Corte americana il congelamento degli asset argentini posseduti negli Stati Uniti.
Ieri all’Argentina, oggi alla Grecia, domani forse alla Francia o a qualsiasi Paese indebitato può essere negata nelle attuali condizioni la possibilità di una ristrutturazione del debito nonostante il buon senso. Adottare un quadro legale rappresenta un’urgenza per assicurare la stabilità finanziaria, permettendo a ciascun Paese di risolvere il dilemma tra il collasso del sistema finanziario e la perdita di sovranità nazionale.
Questi 9 principi riaffermano la superiorità del potere politico, attraverso la sovranità nazionale, nella scelta delle politiche pubbliche. Essi limitano la spoliticizzazione della struttura finanziaria, la quale ha escluso finora ogni possibile alternativa all’austerity, tenendo in ostaggio gli Stati.
L’Onu deve quindi farsi sostenitore di una gestione democratica del debito e della fine del mercato dei debiti.
Un’iniziativa simile aveva fallito nel 2003 al Fondo Monetario Internazionale.
Oggi, la posizione degli Stati europei rimane ambigua, nonostante il loro supporto sia fondamentale affinché questa risoluzione possa essere attuata. I Paesi europei si sono disinteressati al processo di democratizzazione non mostrando alcun supporto alla creazione del comitato.
Ma la situazione greca ha mostrato che non c’è più tempo per tergiversare.
Se gli eventi dell’estate hanno rafforzato i nazionalismi e la sfiducia dei cittadini verso le istituzioni internazionali, oggi gli europei sono chiamati a riaffermare i diritti democratici, da anteporre alle regole di mercato nella governance internazionale.
Chiediamo quindi che tutti gli Stati Europei votino a favore di questa risoluzione».
Primi firmatari
Gabriel Colletis
Giovanni Dosi
Heiner Flassbeck
James Galbraith
Jacques Généreux
Martin Guzman
Michel Husson
Steve Keen
Benjamin Lemoine
Mariana Mazzucato
Ozlem Onaran
Thomas Piketty
Robert Salais
Engelbert Stockhammer
Xavier Timbeau
Bruno Théret
Yanis Varoufakis
Gennaro Zezza
(traduzione Marta Fana, fonte il manifesto)
lunedì 7 settembre 2015
martedì 18 agosto 2015
venerdì 14 agosto 2015
giovedì 13 agosto 2015
I nuovi analfabeti: usano Facebook, ma non sanno interpretare la realtà
Posto per informazione il testo di un articolo apparso sul sito WIRED.IT che in questi tempi in cui spopolano i social network a mio parere centra l'obiettivo di far riflettere sull'attuale situazione politica, economica e sociale a partire da un imprescindibile dato di realtà con cui ciascuno di noi deve fare i conti per contribuire a "cambiare lo stato di cose esistente".
Saluti fraterni e buone vacanze, Vitaliano Serra
I nuovi analfabeti: usano Facebook, ma non sanno interpretare la realtà
aprile 11, 2014
Se chiudo gli occhi e immagino un analfabeta, penso ad una persona che firma con una X al posto del nome.
Ma sbaglio.
Un analfabeta, ci ha ricordato l’OCSE pochi giorni fa, è anche una persona che sa scrivere il suo nome e che magari aggiorna il suo status su Facebook, ma che non è capace “di comprendere, valutare, usare e farsi coinvolgere con testi scritti per intervenire attivamente nella società, per raggiungere i propri obiettivi e per sviluppare le proprie conoscenze e potenzialità”.
Certo, sono due analfabetismi diversi: quello di secondo tipo si chiama analfabetismo funzionale e riguarda quasi 3 italiani su 10, il dato più alto in Europa.
Ma sbaglio.
Un analfabeta, ci ha ricordato l’OCSE pochi giorni fa, è anche una persona che sa scrivere il suo nome e che magari aggiorna il suo status su Facebook, ma che non è capace “di comprendere, valutare, usare e farsi coinvolgere con testi scritti per intervenire attivamente nella società, per raggiungere i propri obiettivi e per sviluppare le proprie conoscenze e potenzialità”.
Certo, sono due analfabetismi diversi: quello di secondo tipo si chiama analfabetismo funzionale e riguarda quasi 3 italiani su 10, il dato più alto in Europa.
Un analfabeta funzionale, apparentemente, non deve chiedere aiuto a nessuno, come invece succedeva una volta, quando esisteva una vera e propria professione – lo scrivano – per indicare le persone che, a pagamento, leggevano e scrivevano le lettere per i parenti lontani.
Un analfabeta funzionale, però, anche se apparentemente autonomo, non capisce i termini di una polizza assicurativa, non comprende il senso di un articolo pubblicato su un quotidiano, non è capace di riassumere e di appassionarsi ad un testo scritto, non è in grado di interpretare un grafico.
Un analfabeta funzionale, però, anche se apparentemente autonomo, non capisce i termini di una polizza assicurativa, non comprende il senso di un articolo pubblicato su un quotidiano, non è capace di riassumere e di appassionarsi ad un testo scritto, non è in grado di interpretare un grafico.
Non è capace, quindi, di leggere e comprendere la società complessa nella quale si trova a vivere.
Tre italiani su 10, ci dice l‘OCSE, si informano (o non si informano), votano (o non votano), lavorano (o non lavorano), seguendo soltanto una capacità di analisi elementare: una capacità di analisi, quindi, che non solo sfugge la complessità, ma che anche davanti ad un evento complesso (la crisi economica, le guerre, la politica nazionale o internazionale, lo spread) è capace di trarre solo una comprensione basilare.
Un analfabeta funzionale, quindi, traduce il mondo paragonandolo esclusivamente alle sue esperienze dirette (la crisi economica è soltanto la diminuzione del suo potere d’acquisto, la guerra in Ucraina è un problema solo se aumenta il prezzo del gas, il taglio delle tasse è giusto anche se corrisponde ad un taglio dei servizi pubblici…) e non è capace di costruire un’analisi che tenga conto anche delle conseguenze indirette, collettive, a lungo termine, lontane per spazio o per tempo.
Un analfabeta funzionale, quindi, traduce il mondo paragonandolo esclusivamente alle sue esperienze dirette (la crisi economica è soltanto la diminuzione del suo potere d’acquisto, la guerra in Ucraina è un problema solo se aumenta il prezzo del gas, il taglio delle tasse è giusto anche se corrisponde ad un taglio dei servizi pubblici…) e non è capace di costruire un’analisi che tenga conto anche delle conseguenze indirette, collettive, a lungo termine, lontane per spazio o per tempo.
Sarà che forse sono un po’ analfabeta funzionale anche io, ma leggendo i dati dell’OCSE ho subito pensato ad un dialogo di qualche anno fa, tra me e una collega.
All’epoca ero una maestra della scuola primaria. Era una bella giornata di sole: io e la mia collega di italiano avevamo portato le classi in terrazza per la ricreazione e parlavamo del più e del meno. Ad un certo punto mi è venuto in mente di consigliare alla collega di italiano la lettura di un libro che avevo appena terminato e lei mi rispose, candidamente: Grazie, ma io non leggo libri.
Mai? chiesi.
Mai – rispose la collega – l’ultimo libro l’ho letto quando ho preso la maturità, perché dovevo portarlo all’esame. Non ho mica tempo, per leggere, e poi mi annoio.
All’epoca ero una maestra della scuola primaria. Era una bella giornata di sole: io e la mia collega di italiano avevamo portato le classi in terrazza per la ricreazione e parlavamo del più e del meno. Ad un certo punto mi è venuto in mente di consigliare alla collega di italiano la lettura di un libro che avevo appena terminato e lei mi rispose, candidamente: Grazie, ma io non leggo libri.
Mai? chiesi.
Mai – rispose la collega – l’ultimo libro l’ho letto quando ho preso la maturità, perché dovevo portarlo all’esame. Non ho mica tempo, per leggere, e poi mi annoio.
Davanti ai dati dell’OCSE l’ex Ministro Carrozza si è affrettata a sottolinearne la drammaticità chiedendo una forte inversione di tendenza.
Ma, anche se all’allarme corrispondesse un reale investimento dell’attuale Governo – e, purtroppo, la storia recente ci porta a dubitarne – quale diga fermerà il crollo verticale della cultura degli italiani, se a chi ci deve rappresentare e a chi ci deve insegnare non si impone di essere più preparato, e non meno preparato, del proprio popolo, dei propri impiegati, o della propria classe?
Non esiste cura, se i primi a rifiutare la complessità e l’approfondimento sono i nostri insegnanti, i nostri manager, i nostri politici.
Ma, anche se all’allarme corrispondesse un reale investimento dell’attuale Governo – e, purtroppo, la storia recente ci porta a dubitarne – quale diga fermerà il crollo verticale della cultura degli italiani, se a chi ci deve rappresentare e a chi ci deve insegnare non si impone di essere più preparato, e non meno preparato, del proprio popolo, dei propri impiegati, o della propria classe?
Non esiste cura, se i primi a rifiutare la complessità e l’approfondimento sono i nostri insegnanti, i nostri manager, i nostri politici.
La scuola italiana, da sempre fondata sul dogmatismo, ha visto annullate le proprie spinte verso un insegnamento diverso, riducendosi alla trasmissione di competenze inutili, perché si dimenticano il giorno dopo l’interrogazione, e che non insegnano a capire, ad analizzare, a criticare, a soppesare, a riassumere.
Era il 1974, quando Sergio Endrigo, ispirandosi a Gianni Rodari, incise su un disco questo prologo illuminante: Napoleone Bonaparte nacque ad Ajaccio il 15 agosto del 1769. Il 22 ottobre del 1784 lasciò la scuola militare di Briennes con il grado di cadetto. Nel settembre del 1785 fu promosso sottotenente. Nel 1793 fu promosso generale, nel 1799 promosso primo console, nel 1804 si promosse imperatore. Nel 1805 si promosse re d’Italia. E chi non ricorderà tutte queste date, sarà bocciato!
Era il 1974, quando Sergio Endrigo, ispirandosi a Gianni Rodari, incise su un disco questo prologo illuminante: Napoleone Bonaparte nacque ad Ajaccio il 15 agosto del 1769. Il 22 ottobre del 1784 lasciò la scuola militare di Briennes con il grado di cadetto. Nel settembre del 1785 fu promosso sottotenente. Nel 1793 fu promosso generale, nel 1799 promosso primo console, nel 1804 si promosse imperatore. Nel 1805 si promosse re d’Italia. E chi non ricorderà tutte queste date, sarà bocciato!
Dal 1974 le cose, se possibile, sono generalmente peggiorate.
I parametri Invalsi – lo strumento Europeo per la valutazione delle competenze – sono diventati in fretta praticamente l’unica cosa che la scuola si preoccupa di insegnare, riducendo la lungimiranza dell’insegnamento alla verifica in programma, all’esame di fine anno.
Ma cosa rimane fuori da una scuola sdraiata sui parametri Invalsi (per i quali, in ogni caso, non brilliamo, come competenza, in particolar modo nel Sud Italia)?
Rimangono fuori proprio le competenze che fanno di una persona un cittadino attivo, e non un analfabeta funzionale: la capacità di scegliere un libro interessante, e di immergersi nella lettura, la scelta di comprare un quotidiano, la capacità di valutare le proposte economiche e politiche nella loro (grandissima) complessità.
I parametri Invalsi – lo strumento Europeo per la valutazione delle competenze – sono diventati in fretta praticamente l’unica cosa che la scuola si preoccupa di insegnare, riducendo la lungimiranza dell’insegnamento alla verifica in programma, all’esame di fine anno.
Ma cosa rimane fuori da una scuola sdraiata sui parametri Invalsi (per i quali, in ogni caso, non brilliamo, come competenza, in particolar modo nel Sud Italia)?
Rimangono fuori proprio le competenze che fanno di una persona un cittadino attivo, e non un analfabeta funzionale: la capacità di scegliere un libro interessante, e di immergersi nella lettura, la scelta di comprare un quotidiano, la capacità di valutare le proposte economiche e politiche nella loro (grandissima) complessità.
Per rispondere all’allarme dell’OCSE questo paese deve ribaltare il concetto stesso di competenza.Una scuola dogmatica è una scuola che respinge, e che insegna senza insegnare.
Una scuola che costruisce e valorizza le competenze, invece, è una scuola capace di accogliere, e di insegnare gli strumenti di comprensione del mondo.
Un analfabeta può anche imparare a memoria che Napoleone Bonaparte nacque ad Ajaccio il 15 agosto del 1769, e che nel 1805 si promosse re d’Italia, ma non per questo avrà gli strumenti per accogliere ed analizzare la complessità della società in cui vive.
E anche lui, come i ragazzi che spesso la nostra scuola respinge – quelli che non vengono messi in grado neanche imparare le date a memoria – rischia di entrare a far parte di quel folto gruppo per i quali la guerra in Ucraina è un problema solo se aumenta la bolletta del gas.
Una scuola che costruisce e valorizza le competenze, invece, è una scuola capace di accogliere, e di insegnare gli strumenti di comprensione del mondo.
Un analfabeta può anche imparare a memoria che Napoleone Bonaparte nacque ad Ajaccio il 15 agosto del 1769, e che nel 1805 si promosse re d’Italia, ma non per questo avrà gli strumenti per accogliere ed analizzare la complessità della società in cui vive.
E anche lui, come i ragazzi che spesso la nostra scuola respinge – quelli che non vengono messi in grado neanche imparare le date a memoria – rischia di entrare a far parte di quel folto gruppo per i quali la guerra in Ucraina è un problema solo se aumenta la bolletta del gas.
domenica 9 agosto 2015
lunedì 20 luglio 2015
Chomsky: non ha più importanza chi detiene il potere politico, tanto non sono più loro a decidere
Chomsky: non ha più importanza chi detiene il potere politico, tanto non sono più loro a decidere
di Noam Chomsky (basato su dibattiti tenuti in Illinois, New Jersey,Massachusetts, New York e Maryland nel 1994,1996 e 1999) 30 novembre 2014
UN uomo: Negli ultimi venticinque anni il capitale finanziario multinazionale, piuttosto che negli investimenti enel commercio, è stato impiegato nelle speculazioni sui mercati azionari internazionali, al punto da dare l’impressione che gli Stati Uniti siano diventati una colonia alla mercé dei movimenti di capitali internazionali. Non ha più importanza chi detiene il potere politico, tanto non sono più loro a decidere le cose da fare. Che portata ha, oggi, questo fenomeno sulla scena intemazionale? Per prima cosa dobbiamo fare più attenzione al linguaggio che utilizziamo, me compreso. Non dovremmo parlare semplicemente di “Stati Uniti”, perché non esiste una simile entità, così come non esistono entità come l’”Inghilterra” o il “Giappone”. Può darsi che la popolazione degli Stati Uniti sia “colonizzata”, ma gli interessi aziendali che hanno base negli Stati Uniti non sono affatto “colonizzati”. A volte si sente parlare di “declino dell’America”, e se si osserva la quota mondiale di produzione che viene effettuata sul territorio degli Stati Uniti è vero, è in declino. Ma se si considera la quota di produzione mondiale delle aziende che hanno sede negli Stati Uniti, ci si accorgerà che non c’è alcun declino, anzi, le cose vanno per il meglio. Il fatto è che questa produzione ha luogo soprattutto nel Terzo mondo. Quindi possiamo parlare di “Stati Uniti” come entità geografica, ma non è questo ciò che conta nel mondo degli affari. In sintesi, se non si parte da un’elementare analisi di classe non si riesce nemmeno a comprendere il mondo reale: cose come “gli Stati Uniti” non sono entità. Ma lei ha comunque ragione: gran parte della popolazione degli Stati Uniti viene sospinta verso una sorta di condizione sociale da Terzo mondo colonizzato. Dobbiamo però ricordare che esiste un altro settore, composto da ricchi manager, da ricchi investitori e dai loro scherani nel Terzo mondo, come i gangster della mafia russa o qualche ricco dignitario brasiliano, che curano i loro interessi a livello locale. E questo è un settore del tutto diverso, i cui affari stanno andando a gonfie vele. Per quanto riguarda i capitali destinati alle speculazioni, anch’essi hanno una parte estremamente importante. Lei è nel giusto quando sostiene che hanno un enorme impatto sui governi nazionali. Si tratta di un fenomeno molto esteso; le cifre sono di per sé impressionanti. Intorno al 1970, circa il 90 percento del capitale coinvolto nelle transazioni economiche internazionali veniva utilizzato a scopi commerciali o produttivi e soltanto il 10 percento a scopi speculativi. Oggi le cifre si sono invertite: nel 1990, il 90 percento del capitale totale era utilizzato per la speculazione; nel 1994 si era saliti addirittura al 95 percento. Inoltre l’ammontare globale del capitale speculativo è esploso: l’ultima stima della Banca mondiale indicava una cifra di circa 14 000 miliardi di dollari. Ciò significa che ci sono 14 000 miliardi di dollari che possono essere liberamente spostati da un’economia nazionale a un’altra: un ammontare enorme, superiore alle risorse di qual siasi governo nazionale, e che quindi lascia ai governi possibilità estremamente limitate quando si tratta di operare scelte politiche economico-finanziarie. Perché si è verificata una crescita tanto imponente del capitale speculativo? I motivi chiave sono due. Il primo ha a che fare con lo smantellamento del sistema economico mondiale del dopoguerra, che avvenne nei primi anni settanta. Vedete, durante la Seconda guerra mondiale gli Stati Uniti riorganizzarono il sistema economico mondiale e si trasformarono in una sorta di “banchiere globale” [durante la Conferenza monetaria e finanziaria delle Nazioni Unite a Bretton Woods, nel 1944]: il dollaro diventò la valuta mondiale, venne fissato all’oro e divenne il punto di riferimento per le valute degli altri paesi. Questo sistema fu alla base della consistente crescita economica degli anni cinquanta e sessanta. Ma negli anni settanta il sistema di Bretton Woods era divenuto insostenibile: gli Stati Uniti non erano più abbastanza forti economicamente da continuare a essere il banchiere del mondo, soprattutto per gli alti costi della guerra nel Vietnam. Così Richard Nixon prese la decisione di smantellare del tutto l’accordo: all’inizio degli anni settanta sganciò gli Stati Uniti dal sistema monetario aureo, aumentò le tasse sulle importazioni, distrusse tutto il sistema. La fine di questo sistema di regolamentazione internazionale diede l’avvio a una speculazione sulle valute senza precedenti e a una fluttuazione degli scambi finanziari, fenomeni da quel momento in costante crescita. Il secondo fattore che ha determinato il boom del capitale speculativo è stato la rivoluzione tecnologica nelle telecomunicazioni, che avvenne nello stesso periodo e rese d’improvviso molto facile il trasferimento di valuta da un paese all’altro. Oggi, virtualmente, l’intera Borsa valori di New York si sposta a Tokyo durante la notte: il denaro è a New York di giorno, poi viene trasferito “via rete” a Tokyo, e siccome il Giappone è in anticipo di quattordici ore rispetto a noi, lo stesso denaro viene utilizzato in entrambi i posti. Ormai, quasi 1000 miliardi di dollari vengono spostati quotidianamente sui mercati speculativi internazionali, con effetti enormi sui governi nazionali. A questo punto, la comunità internazionale che gestisce questi investimenti ha un virtuale potere di veto su tutto ciò che un governo nazionale può fare. È quanto accade oggi negli Stati Uniti. Il nostro paese si sta riprendendo lentamente dall’ultima recessione; certamente è la ripresa più lenta dalla fine della Seconda guerra mondiale. Ma c’è stagnazione soltanto sotto un certo punto di vista: la crescita economica è molto bassa, si sono creati pochi posti di lavoro (in realtà, per molti anni, i salari sono persino scesi durante questa “ripresa”), ma i profitti sono andati alle stelle. Ogni anno la rivista Fortune esce con un numero dedicato alla ricchezza delle persone più importanti del mondo, Fortune 500, il quale ci dice che i profitti in questo periodo si sono impennati: nel 1993 erano molto buoni, nel 1994 esaltanti e nel 1995 avevano battuto ogni record. Nel frattempo i salari reali scendevano, la crescita economica e la produzione erano molto basse e questa lenta crescita a volte veniva addirittura fermata perché il mercato obbligazionario “dava segnali” di non gradirla. Vedete, gli speculatori finanziari non vogliono la crescita: vogliono valute stabili, quindi niente crescita. La stampa specializzata parla apertamente della «minaccia di una crescita troppo impetuosa», della «minaccia di un eccesso di occupazione»: tra di loro lo dicono chiaramente. Il motivo? Chi specula sulle valute teme l’inflazione, perché fa diminuire il valore del suo denaro. E qualunque tipo di crescita o di stimolo economico, qualunque diminuzione della disoccupazione minacciano di far crescere l’inflazione. Agli speculatori valutari questo non piace, così quando vedono i primi segnali di una politica di stimolo dell’economia o di una qualsiasi iniziativa capace di produrre una crescita, portano via i capitali da quel paese, provocando una recessione. Il risultato complessivo di queste manovre è uno spostamento internazionale verso economie a bassa crescita, bassi salari e alti profitti, perché i governi nazionali che cercano di prendere decisioni di politica economica e sociale non hanno mano libera temendo una fuga di capitali che potrebbe far crollare le loro economie. I governi del Terzo mondo sono bloccati, non hanno nemmeno la possibilità di portare avanti una politica economica nazionale. Ormai c’è da chiedersi se anche le grandi nazioni, Stati Uniti inclusi, abbiano la possibilità di farlo. Non credo che i governi che si sono succeduti in America avrebbero voluto politiche economiche molto diverse ma, nel caso, penso che sarebbe stato molto difficile, se non impossibile, attuarle. Per darvi soltanto un esempio, subito dopo le elezioni del 1992, sulla prima pagina del Wall Street Journal comparve un articolo in cui si informavano i lettori che non avevano alcun motivo di temere che qualcuno dei “sinistrorsi” vicini a Clinton avrebbe cambiato qualcosa una volta arrivato al potere. Ovviamente il mondo degli affari già lo sapeva, come si può notare osservando l’andamento dei mercati finanziari verso la fine della campagna elettorale. Ma ad ogni buon conto il Wall Street Journal spiegò che, se per qualche sfortunata coincidenza Clinton o qualsiasi altro candidato avesse cercato di avviare un programma di riforme sociali, sarebbe stato immediatamente bloccato. L’articolo affermava una cosa ovvia e citava i dati che la confermavano. Gli Stati Uniti hanno un forte debito, che era parte integrante del programma Reagan-Bush per non permettere al governo di portare avanti iniziative di spesa sociale. “Essere in debito” significa soprattutto che il dipartimento del Tesoro ha venduto un sacco di titoli – obbligazioni,buoni del tesoro e via discorrendo – agli investitori, che a loro volta li scambiano sul mercato dei titoli. Secondo il Wall Street Journal, ogni giorno si scambiano circa 150 miliardi di dollari esclusivamente in titoli del Tesoro. L’articolo spiegava che se gli investitori che possiedono questi titoli non apprezzano le politiche del governo americano possono, come avvertimento, venderne qualche piccola quota e ciò provocherà automaticamente un aumento del tasso d’interesse, che a sua volta farà aumentare il deficit. Ebbene, in questo articolo si calcolava che se questo “avvertimento” fosse sufficiente ad alzare il tasso d’interesse dell’1 percento, il deficit aumenterebbe da un giorno all’altro di 20 miliardi di dollari. Ciò significa che se Clinton (questa è pura immaginazione) proponesse un programma di spesa sociale di 20 miliardi di dollari, la comunità degli investitori potrebbe trasformarlo istantaneamente in un programma da 40 miliardi dollari, con un solo piccolo segnale, bloccando così ogni altra mossa di quel genere. Contemporaneamente, sull’Economist di Londra – grande giornale liberista – si poteva leggere un articolo fantastico sui paesi dell’Europa orientale che avevano votato per far tornare al potere i socialisti e i comunisti. Ma in sostanza l’articolo invitava a non preoccuparsi, perché «l’amministrazione è sganciata dalla politica». In altre parole, indipendentemente dai giochi che quei tipi si divertono a fare nell’arena politica, le cose continueranno come sempre, perché li teniamo per le palle: controlliamo le valute internazionali, siamo gli unici che possono concedere prestiti, possiamo distruggere le loro economie come e quando vogliamo. Che si occupino pure di politica, che fingano pure di avere la democrazia che vogliono, facciano pure: basta che «l’amministrazione sia sganciata dalla politica». Quello che sta accadendo in questo periodo è una novità assoluta. Negli ultimi anni si sta imponendo un nuovo tipo di governo, destinato a servire i bisogni sempre crescenti di questa nuova classe dominante internazionale, che a volte è stata definita “il governo mondiale di fatto”. I nuovi accordi internazionali sul commercio riguardano proprio questo aspetto, e parlo del NAFTA, del GATT e così via, così come della cee e delle organizzazioni finanziarie come il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale, la Banca interamericana di sviluppo, l’Organizzazione mondiale del commercio (wto), i G7 che programmano gli incontri tra i grandi paesi industrializzati. Questi organismi sono tutti espressione della volontà di concentrare il potere in un sistema economico mondiale che faccia sì che «l’amministrazione sia sganciata dalla politica»; in altre parole, che la popolazione mondiale non abbia alcun ruolo nel processo decisionale, che le scelte strategiche vengano trasferite in un empireo lontanissimo dalle possibilità di conoscenza e di comprensione della gente, che così non avrà la minima idea delle decisioni che influenzeranno la sua vita e certo non potrà modificarle. La Banca mondiale ha un proprio modo per definire il fenomeno: lo chiama “isolamento tecnocratico”. Quindi, se leggete gli studi della Banca mondiale, vedrete che parlano dell’importanza dell’ “isolamento tecnocratico”, alludendo alla necessità che un gruppo di tecnocrati, essenzialmente impiegati nelle grandi imprese multinazionali, operi in pieno “isolamento” quando progetta le politiche perché, se la gente venisse coinvolta, potrebbe farsi venire in mente brutte idee, come un tipo di crescita economica che operi a favore di tutti invece che dei profitti e altre sciocchezze del genere. Allora bisogna che i tecnocrati siano isolati, e una volta ottenuto lo scopo si potrà concedere tutta la “democrazia” che si vuole, tanto non farà alcuna differenza. Sulla stampa economica internazionale questo quadro è stato definito con una certa franchezza come “la nuova età imperiale”. E la ritengo una definizione azzeccata: di certo stiamo andando in quella direzione.
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