venerdì 27 settembre 2013

La nebbia, le case, la gente

La nebbia, le case, la gente La nebbia. Faceva parte di quelle caratteristiche tipiche della zona Martesana, almeno questo succedeva sul finire degli anni‘60 quando capitò per obblighi e casualità familiari di dover venire ad abitare a Bussero. Nonostante fosse parte della familiarità di ogni inverno, gran parte dei mesi dell'anno, da Settembre ad Aprile, era, per me, una presenza angusta, fastidiosa. Non ho mai sentito, in quegli anni, qualcuno dire: ohhh finalmente è arrivata la nebbia. Che bello. No. Tutti ne avrebbero fatto volentieri a meno. Mi correggo: tutti coloro che non sanno, o non sapevano, fermarsi un attimo, odorare la terra, lasciarsi trasportare da quel 'sapore' acre, ed osservarne le mutazioni. Già oggi non è più così, e quelle possibili sensazioni non le sente più nessuno qui da queste parti, città come parte di città. Io non facevo eccezione a tutti coloro che non riescono a percepire quello che la nebbia nasconde. Eppure il paesaggio, del primo mattino, quando il primo sole comincia a scaldare la terra. La luce filtrata, prende tonalità calde ed ambrate, e si fonde con i toni stessi delle zolle. L'aria, umida, ci stuzzica il naso, e sentiamo quell'odore tipico della nebbia, come della cantina di una vecchia casa. La nebbia accoglie il silenzio. Non avete mai fatto caso come, in caso di nebbia, i rumori siano affievoliti? quasi in un atmosfera di fragilità. Incompatibile, la nebbia, con la fretta quotidiana che ci opprime. Le case. Poche, agglomerate nell’attuale centro storico, a far loro da corona tutt’intorno un mare di verde, di prati, di terreni coltivati a foraggio, a granoturco, e di macchie più più alte e più scure, “murun”e pioppi, betulle e cespugli immensi di......................., sullo sfondo lecchese e bergamasco colline e montagne, la Grigna su tutti. Colori lombardi? No. Grigio dominante, rosso di ruggine e di tegole, verde . La chiesa sproporzionata rispetto all’intorno, forse in una parte del terreno più alta. A me è parsa così a prima vista. E un Oratorio grande , un “campet” sterrato e con le immancabili pozzanghere a centrocampo e davanti le porte, senza reti, una costruzione centrale per cinema e teatro, e diviso tra maschi e femmine, per le femmine si stava dalla parte opposta dove oggi c’è una scuola privata. Rigida divisione su volere dell’imponente e burbero“sciur Curat”. Tutto lì in classica successione il “sciur Sindich” nel suo municipio, con la sede dell’unico vigile. Ma anche messo comunale, La minuscola biblioteca abbarbicata in abbaino municipale, la scuola media sempre al piano superiore del municipio, la scuola elementare imponente di stile littorio preceduta da una palestrona, per anni unico luogo di sport “indoor, e il “prestineè”, la farmacia, il macellaio, l’elettricista, e più avanti “cartulera”, alimentari, il bar del “Pepp” e in fondo, solitario , ma popolare, il “circulin” dei compagni. Oltre i prati, la terra con il “melgun”. Costruzioni austere le “ville” padronali a nord, cascinali con i “curt” passanti e qualche villa meno presuntuosa, in centro e schiere di palazzi popolari più a sud. Attaccati alle case radi capannoni industriali, la fonderia, i tubi di plastica, i “ ferreé”, la concia , sconcia,di pelli. Un’enclave di annebbiato silenzio, strade interne e contatti con gli altri da sé preservati da due ponticelli, uno sul Molgora da “quei de burnach” e l’altro più trafficato sul “navili” a Colombirolo. Attraversata la Padana c’era il “gambadelegn”che portava a Milano ( o a Cassano e Vaprio , ma noi si andava in bicicletta). La gente. Meno di 2000 anime. Poche famiglie benestanti, i rentiers, possessori di terre e di potenziale edilizio, a soprassedere attenti agli eventi locali, politici ed economici. I più a vivere del loro lavoro, scalando socialmente, ma sarebbe a dire economicamente, da artigiani e commercianti, i rari professionisti; quindi gli operai, qualcuno a “sgamelà” nelle fabbrichette locali, la gran parte a cottimo nelle grandi fabbriche sestesi, la Breda, la Falck, la Marelli.........vi ci andavano spesso in bicicletta tra la nebbia che si tagliava a fette come la polenta e con la loro “schisceta” e il foglio di giornale sotto il paltò e il basco blù col pirolino in cima. Il dialetto era la lingua ufficiale. I “furestèe”, chiamati “teruni”, quasi a stabilire una inesistente diversità di censo, non erano tanti, ma proprio in quegli anni stavano lentamente ma inesorabilmente ibridando la realtà. La colonia pugliese la più variegata foggiani e salentini, e forse numerosa, più identitarie le presenze calabresi, dal crotonese i più, e sarde dalla “gentile terra de musas santa e beneitta”. Era il tempo dove si mischiavano le facce, i sapori e gli odori, che spesso risultavano inizialmente insopportabili reciprocamente ( l’acre odor di cassoela si miscelava alle zaffate potenti di peperoni fritti, “oss bus” e “cime de rap” ). Ma anche qualche bergamasco, bresciano, veneto e friulano popolavano già da qualche tempo il paese. Ci vollero le Linee Celeri dell’Adda, solo più tardi MM2, il ’68 e l’urbanizzazione per trasformare Bussero , pur senza stravolgerne la realtà. Nell’oggi metropolitano, confini incerti, indistinto urbano, identità stravolte, mantenere l’umanità dei luoghi appare imperativo. Vitaliano Serra ( da lla Rassegna per la Festa di Bussero “ La penna ai busseresi” 27 settembre 2013 )

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