Coraggio,
tutti insieme appassionatamente verso i primi del 900 (ALESSANDRO ROBECCHI - La Pagina dei
Blog di MicroMega )
E’ passato un annetto giusto giusto da
quando il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi emetteva il suo sfumato
giudizio: “Il governo Renzi realizza tutti i nostri sogni”. Il problema è che
da allora l’attività onirica di Squinzi, Confindustria e imprenditori italiani
è stata frenetica: la logica prevalente è quella che se si aiutano i padroni
(uh, parolaccia), si aiutano anche i loro dipendenti, un sillogismo piuttosto
bislacco, a dire il vero, ma accettato come un dogma. Così, per fare un
esempio, mentre si mascherano i tagli alla sanità con una variante del Comma 22
(non ti pago gli esami se non sei grave, ma per sapere se sei grave devi fare
gli esami), si annunciano tagli alle tasse sui profitti d’impresa. I famosi
vasi comunicanti, solo che comunicano in un verso solo: dal pubblico al
privato, dal welfare al profitto, dai tanti ai pochi, dal basso all’alto della
piramide sociale.
Chissà se prende qualcosa, pillole,
gocce, per sognare tanto, ma insomma, sta di fatto: il padronato italiano ha
ora un nuovo sogno e il governo si accinge a realizzarlo. Per la verità non è
un sogno nuovissimo ma un vecchio pallino: “superare” il contratto collettivo
di lavoro e lasciare che ogni azienda se la veda da sé nelle vertenze sui
rinnovi contrattuali. Contestualmente, si dovrebbe varare il salario minimo,
cioè una linea di semigalleggiamento sotto cui non sarà possibile andare (né campare).
Ora, per tradurre in italiano: l’operaio metalmeccanico (poniamo) della piccola
media azienda non potrà più contare sulle lotte comuni e condivise di tutti i
metalmeccanici, e quindi su una forza poderosa per sostenere le trattative, ma
dovrà vedersela col singolo consiglio di amministrazione. Non è difficile
immaginare, dunque, che il potere contrattuale penderà clamorosamente dalla
parte degli imprenditori ed è piuttosto fantascientifico immaginare che
l’operaio di una piccola azienda di Crotone avrà un domani gli stessi diritti
(e lo stesso stipendio) di un collega che lavora in una grande fabbrica del
Nord. Dal punto di vista tecnico-economico si tratta di una nuova rapina ai
danni del mondo del lavoro, dal punto di vista storico-culturale è invece il
definitivo omicidio di concetti come unità dei lavoratori, l’unione fa la
forza, uniti si vince eccetera, eccetera, tutte cosucce che ingombrano il
disegno thatcheriano in corso.
I narratori delle gesta renziste si
affanneranno a dire che – wow! – arriva il salario minimo, e lo venderanno come
progresso e cambiaverso in una selva di hashtag osannanti, il che rappresenta,
ovviamente una fregatura parallela. Perché tra poco, per essere in regola,
basterà offrire ai lavoratori un salario minimo appena sufficiente a campare, e
tutto il resto (il salario accessorio) dipenderà dai risultati, dalla
disponibilità (straordinari, festivi, notti, doppi turni, obbedienza). Insomma,
a farla breve, dalla discrezionalità di chi guida le aziende, con le ovvie e
prevedibili ricadute in termini di ricatto economico: fai così o prendi due
lire, ubbidisci o ripiombi in un lumpenproletariat da inizio secolo.
Riassumendo: sei demansionabile (Jobs
act), licenziabile a costi risibili (sempre Jobs act), i tuoi diritti sono determinati
dall’umore del datore di lavoro, il tuo salario è variabile a seconda di come
ti comporti, e tra poco si metterà mano a una restrizione del diritto di
sciopero. Niente male, per un governo – destra e sinistra Pd, Ncd, sor Verdini
e compari – che si affanna a dire a tutti che è “di sinistra”.
Alessandro Robecchi
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