Lucio Magri, corpo a corpo con la democrazia
12 Marzo 2015
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«E però: chi aveva ragione, il sarto o il vescovo? Il sarto, perché poi alla fine l’uomo ha volato. Ecco, diceva Lucio, per ora il comunismo si è schiantato, ma alla fine volerà. Noi continuiamo a provarci». La relazione (Luciana Castellina) e una cronaca (Daniela Preziosi) della presentazione degli atti parlamentari di un leader molto rimpianto. Il manifesto, 12 marzo 2015
Nella prefazione a questi due volumi [vedi riferimenti in calce] Stefano Rodotà scrive che Lucio Magri è stato uno dei protagonisti di questa stagione parlamentare di fine secolo. Una «bella stagione», aggiunge Rodotà, e debbo dire che la rilettura di questi testi suscita nostalgia: perché non solo nel caso di Lucio, ma per tutti in quell’epoca, ogni intervento alla Camera rappresentava un impegno, una riflessione, un esercizio di alto livello. Per questo, del resto, quegli interventi possono essere pubblicati dopo tanti anni.
Protagonista, dunque ma assai anomalo, perché all’inizio, nella legislatura ’76-’79, parte di un gruppo di appena sei deputati su 630 e segretario di un partito, il Pdup, che in quella coalizione elettorale – denominata Democrazia Proletaria – di deputati ne aveva solo tre. E però era in rappresentanza della sola opposizione, come si diceva allora, quando ancora si facevano distinzioni, “dell’arco democratico”.
Nel suo primo discorso parlamentare Lucio si era infatti trovato nella paradossale condizione di dover negare la fiducia a un governo sostenuto da una maggioranza quasi totale: il governo delle larghe intese dell’on. Andreotti. Anche questo dettaglio credo stia ad indicare (ed è bene ricordarlo in un momento in cui proprio di legge elettorale si sta discutendo) quanto importante sia il pluralismo parlamentare, una rappresentanza che esprima davvero tutte le anime del paese.
Che non bloccò affatto l’istituzione, ma consentì anzi inediti e stimolanti intrecci, penso innanzitutto al dialogo che si sviluppò fra il nostro attuale presidente della Repubblica — che davvero ringrazio per la sua presenza — e Magri, in occasione della assai conflittuale ridefinizione, nel 1993, della legge elettorale.
È una buona cosa rileggere gli atti parlamentari ed è una buona cosa che la Biblioteca della Camera sia impegnata a renderlo possibile con le sue pubblicazioni: perché si tratta della testimonianza più autentica e diretta di un periodo storico, e debbo dire che anche io, che pure ho vissuto da parlamentare quegli anni ’76-’99, rileggendo questi volumi sono stata aiutata ad approfondire la riflessione su quella stagione. Che ha peraltro rappresentato un passaggio epocale per il nostro paese, non a caso definito “passaggio dalla prima alla seconda Repubblica”.
Il terreno della politica si è ormai a tal punto ridotto, come una pelle di zigrino, sì da diventare un esercizio passivo in cui ci si limita ad interrogare il cittadino perché dica «mi piace o non mi piace» a quanto proposto da un vertice, come si trattasse di facebook. E infatti di solito si dice «I like it, Idon’t».
Se la democrazia è solo questa sporadica consultazione, e non invece uno spazio deliberativo che ti rende partecipe e soggetto della costruzione di una società ogni volta innovativa, perché mai un giovane dovrebbe appassionarsi?
Il declino dei grandi partiti politici di massa ha lasciato un vuoto che dai tempi in cui Lucio ne denunciava i sintomi è diventato un oceano. Non li ricostruiremo tali quali erano (e anche loro, del resto, avevano non pochi difetti). Ma è importante tornare a riflettere sul senso della politica, — che non è ricerca di consenso, ma costruzione di senso — così come con questi discorsi, pur pronunciati in Parlamento e non a scuola, Magri ci spingeva a fare, per recuperare la politica, che poi è ricerca della propria identità nel rapporto con gli altri umani e non arroccamento sul proprio io nell’illusione di potersi salvare da soli.
Se non dovessimo riuscire a far capire quanto la lentezza della condivisione, — che è propria della democrazia – sia più preziosa della fretta, solo apparentemente più efficiente, del decisionismo, non ce la faremo nemmeno a far rivivere una vera Sinistra. Per questo sono davvero contenta — e con me tutti i compagni del Pdup — della sollecitazione che da questi testi ci viene per riflettere sull’oggi. E per aiutarci a discuterne con i più giovani.
La lucidità anticipatrice di Magri su questo come su altri temi — che è certamente stata una delle sue più significative caratteristiche — ha avuto una particolare incisività perché lui non era un profeta, un intellettuale separato.
In occasione della sua scomparsa, Perry Anderson, uno dei fondatori della autorevole New Left Review, ha scritto: «Lucio Magri non ha avuto uguali nel panorama della sinistra europea. È stato l’unico intellettuale rivoluzionario in grado di pensare in sintonia con i movimenti di massa, sviluppatisi durante il corso della sua vita. La sua riflessione teorica si è radicata realmente nell’azione, o nella mancanza d’azione, degli sfruttati e degli oppressi».
La ricerca, alla fine quasi ossessiva, del nesso fra teoria e militanza ha finito per essergli fatale. Nel 2004 Magri decise di porre fine alla nuova “Rivista” de il manifesto che era rinata nel 1999 sotto la sua direzione. Era una bella rivista. Ma Lucio non si rassegnava al fatto che mancassero i referenti sociali, non voleva essere solo un intellettuale che scriveva senza la verifica dell’azione politica. E poiché non vedeva nell’immediato le condizioni perché interlocutori consistenti si presentassero e che il dibattito politico in atto si sbriciolava in quisquilie, decise di cessare le pubblicazioni.
Furono motivazioni analoghe che lo condussero alla sua tragica decisione finale. «Non dico che la sinistra non rinascerà — ripeteva — ma ci vorranno molti anni e io sarò comunque già morto. Così come è il dibattito non mi interessa». Ma non era tuttavia pessimista nel lungo periodo. Come del resto prova il titolo del suo libro Il sarto di Ulm — oggi tradotto in Inghilterra, Germania, Spagna, Brasile, Argentina — titolo tratto da un apologo di Bertolt Brecht. Al sarto, che pretendeva che l’uomo poteva volare, — stufo dell’insistenza — il vescovo-principe di Ulm finisce per dire: «Vai sul campanile e buttati, vediamo se è vero quanto dici». Il sarto va e salta, e naturalmente si sfracella.
E però: chi aveva ragione, il sarto o il vescovo? Il sarto, perché poi alla fine l’uomo ha volato. Ecco, diceva Lucio, per ora il comunismo si è schiantato, ma alla fine volerà. Noi continuiamo a provarci
QUELLA LUCIDA DIFESA DEL MATTARELLUM
LEGGERE MAGRI NELL’ITALIA RENZIANA DEL 2015
CORPO A CORPO CON LA DEMOCRAZIA
di Luciana Castellina
Nella prefazione a questi due volumi [vedi riferimenti in calce] Stefano Rodotà scrive che Lucio Magri è stato uno dei protagonisti di questa stagione parlamentare di fine secolo. Una «bella stagione», aggiunge Rodotà, e debbo dire che la rilettura di questi testi suscita nostalgia: perché non solo nel caso di Lucio, ma per tutti in quell’epoca, ogni intervento alla Camera rappresentava un impegno, una riflessione, un esercizio di alto livello. Per questo, del resto, quegli interventi possono essere pubblicati dopo tanti anni.
Protagonista, dunque ma assai anomalo, perché all’inizio, nella legislatura ’76-’79, parte di un gruppo di appena sei deputati su 630 e segretario di un partito, il Pdup, che in quella coalizione elettorale – denominata Democrazia Proletaria – di deputati ne aveva solo tre. E però era in rappresentanza della sola opposizione, come si diceva allora, quando ancora si facevano distinzioni, “dell’arco democratico”.
Nel suo primo discorso parlamentare Lucio si era infatti trovato nella paradossale condizione di dover negare la fiducia a un governo sostenuto da una maggioranza quasi totale: il governo delle larghe intese dell’on. Andreotti. Anche questo dettaglio credo stia ad indicare (ed è bene ricordarlo in un momento in cui proprio di legge elettorale si sta discutendo) quanto importante sia il pluralismo parlamentare, una rappresentanza che esprima davvero tutte le anime del paese.
Che non bloccò affatto l’istituzione, ma consentì anzi inediti e stimolanti intrecci, penso innanzitutto al dialogo che si sviluppò fra il nostro attuale presidente della Repubblica — che davvero ringrazio per la sua presenza — e Magri, in occasione della assai conflittuale ridefinizione, nel 1993, della legge elettorale.
È una buona cosa rileggere gli atti parlamentari ed è una buona cosa che la Biblioteca della Camera sia impegnata a renderlo possibile con le sue pubblicazioni: perché si tratta della testimonianza più autentica e diretta di un periodo storico, e debbo dire che anche io, che pure ho vissuto da parlamentare quegli anni ’76-’99, rileggendo questi volumi sono stata aiutata ad approfondire la riflessione su quella stagione. Che ha peraltro rappresentato un passaggio epocale per il nostro paese, non a caso definito “passaggio dalla prima alla seconda Repubblica”.
Tuttavia, più che ritornare a quella stagione vorrei cogliere quanto di tuttora estremamente attuale ho trovato in questi discorsi di Lucio Magri. E soffermarmi soprattutto sul tema della crisi della democrazia, che a me sembra essere oggi il tema più preoccupante. Lucio ne avverte la drammaticità già allora e denuncia i rischi — con quello che Rodotà ha definito «impietoso realismo» — della deriva dell’antipolitica oggi diventata così macroscopica.
Non un lamento impotente, ma la critica concreta all’autoreferenzialismo crescente dei partiti, alla loro incapacità di intendere quanto andava emergendo nella società attraverso i movimenti e indicando dunque la necessità non, come troppo spesso ora si fa, di offrire un’espressione diretta ad una indeterminata società civile sacralizzata e però frantumata e fatalmente subalterna alla cultura dominante, bensì un impegno a costruire quella che egli definiva «democrazia organizzata».
Non solo partiti chiusi in se stessi più rappresentanza delegata, ma anche una rete di organismi capaci di andar oltre la mera protesta e impegnati a imparare a gestire direttamente funzioni essenziali della società, così da ridurre via via la distanza fra governanti e governati (che poi è la base più salda della democrazia). E così colmare il solco che drammaticamente separa il cittadino dalle istituzioni.
Non a caso il Pdup fu un punto di riferimento per la crescita di queste reti che ebbero, — negli anni 70 — una particolare fioritura. Penso ai Consigli di fabbrica, a quelli di Zona, a movimenti come Medicina Democratica o Psichiatria, o nati attorno alle grandi questioni dell’assetto urbano e sociale.
Non un lamento impotente, ma la critica concreta all’autoreferenzialismo crescente dei partiti, alla loro incapacità di intendere quanto andava emergendo nella società attraverso i movimenti e indicando dunque la necessità non, come troppo spesso ora si fa, di offrire un’espressione diretta ad una indeterminata società civile sacralizzata e però frantumata e fatalmente subalterna alla cultura dominante, bensì un impegno a costruire quella che egli definiva «democrazia organizzata».
Non solo partiti chiusi in se stessi più rappresentanza delegata, ma anche una rete di organismi capaci di andar oltre la mera protesta e impegnati a imparare a gestire direttamente funzioni essenziali della società, così da ridurre via via la distanza fra governanti e governati (che poi è la base più salda della democrazia). E così colmare il solco che drammaticamente separa il cittadino dalle istituzioni.
Non a caso il Pdup fu un punto di riferimento per la crescita di queste reti che ebbero, — negli anni 70 — una particolare fioritura. Penso ai Consigli di fabbrica, a quelli di Zona, a movimenti come Medicina Democratica o Psichiatria, o nati attorno alle grandi questioni dell’assetto urbano e sociale.
Io non me la sento di accusare le nostre giovani generazioni per il loro disinteresse alla politica, per la polemica contro la “casta” che fatalmente sfocia nel disinteresse anche per la stessa democrazia, o di questa assume una visione assolutamente riduttiva: un insieme di diritti e di garanzie individuali, non lo spazio su cui si salda ed opera una collettività.
Il terreno della politica si è ormai a tal punto ridotto, come una pelle di zigrino, sì da diventare un esercizio passivo in cui ci si limita ad interrogare il cittadino perché dica «mi piace o non mi piace» a quanto proposto da un vertice, come si trattasse di facebook. E infatti di solito si dice «I like it, Idon’t».
Se la democrazia è solo questa sporadica consultazione, e non invece uno spazio deliberativo che ti rende partecipe e soggetto della costruzione di una società ogni volta innovativa, perché mai un giovane dovrebbe appassionarsi?
Il declino dei grandi partiti politici di massa ha lasciato un vuoto che dai tempi in cui Lucio ne denunciava i sintomi è diventato un oceano. Non li ricostruiremo tali quali erano (e anche loro, del resto, avevano non pochi difetti). Ma è importante tornare a riflettere sul senso della politica, — che non è ricerca di consenso, ma costruzione di senso — così come con questi discorsi, pur pronunciati in Parlamento e non a scuola, Magri ci spingeva a fare, per recuperare la politica, che poi è ricerca della propria identità nel rapporto con gli altri umani e non arroccamento sul proprio io nell’illusione di potersi salvare da soli.
Se non dovessimo riuscire a far capire quanto la lentezza della condivisione, — che è propria della democrazia – sia più preziosa della fretta, solo apparentemente più efficiente, del decisionismo, non ce la faremo nemmeno a far rivivere una vera Sinistra. Per questo sono davvero contenta — e con me tutti i compagni del Pdup — della sollecitazione che da questi testi ci viene per riflettere sull’oggi. E per aiutarci a discuterne con i più giovani.
La lucidità anticipatrice di Magri su questo come su altri temi — che è certamente stata una delle sue più significative caratteristiche — ha avuto una particolare incisività perché lui non era un profeta, un intellettuale separato.
In occasione della sua scomparsa, Perry Anderson, uno dei fondatori della autorevole New Left Review, ha scritto: «Lucio Magri non ha avuto uguali nel panorama della sinistra europea. È stato l’unico intellettuale rivoluzionario in grado di pensare in sintonia con i movimenti di massa, sviluppatisi durante il corso della sua vita. La sua riflessione teorica si è radicata realmente nell’azione, o nella mancanza d’azione, degli sfruttati e degli oppressi».
La ricerca, alla fine quasi ossessiva, del nesso fra teoria e militanza ha finito per essergli fatale. Nel 2004 Magri decise di porre fine alla nuova “Rivista” de il manifesto che era rinata nel 1999 sotto la sua direzione. Era una bella rivista. Ma Lucio non si rassegnava al fatto che mancassero i referenti sociali, non voleva essere solo un intellettuale che scriveva senza la verifica dell’azione politica. E poiché non vedeva nell’immediato le condizioni perché interlocutori consistenti si presentassero e che il dibattito politico in atto si sbriciolava in quisquilie, decise di cessare le pubblicazioni.
Furono motivazioni analoghe che lo condussero alla sua tragica decisione finale. «Non dico che la sinistra non rinascerà — ripeteva — ma ci vorranno molti anni e io sarò comunque già morto. Così come è il dibattito non mi interessa». Ma non era tuttavia pessimista nel lungo periodo. Come del resto prova il titolo del suo libro Il sarto di Ulm — oggi tradotto in Inghilterra, Germania, Spagna, Brasile, Argentina — titolo tratto da un apologo di Bertolt Brecht. Al sarto, che pretendeva che l’uomo poteva volare, — stufo dell’insistenza — il vescovo-principe di Ulm finisce per dire: «Vai sul campanile e buttati, vediamo se è vero quanto dici». Il sarto va e salta, e naturalmente si sfracella.
E però: chi aveva ragione, il sarto o il vescovo? Il sarto, perché poi alla fine l’uomo ha volato. Ecco, diceva Lucio, per ora il comunismo si è schiantato, ma alla fine volerà. Noi continuiamo a provarci
QUELLA LUCIDA DIFESA DEL MATTARELLUM
LEGGERE MAGRI NELL’ITALIA RENZIANA DEL 2015
di Daniela Preziosi
C’è una ragione, forse una in particolare, che ha portato il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ieri mattina nella Sala della Regina di Montecitorio all’affollata presentazione dei due volumi sull’attività parlamentare di Lucio Magri, fondatore de il manifesto poi del Pdup poi ancora fra i protagonisti della prima Rifondazione comunista, deputato dal 1976 al 1994, scomparso per sua volontà non ancora ottantenne il 28 novembre 2011. A raccontarla, questa ragione, in parte a rivelarla, è «l’amico di una vita» Famiano Crucianelli, con Luciana Castellina e Aldo Garzia curatore del libro Alla ricerca di un altro comunismo (2012) con articoli e interventi dello stesso Magri. «Io conosco la storia e so qual era il rapporto fra l’allora onorevole Mattarella e Magri».
La «storia» ha a che vedere con legge elettorale che porta il nome del Presidente, alla quale Magri «prestò una forte attenzione e che fu fertile terreno comune con l’onorevole Mattarella». Il deputato comunista fece parte del gruppo ristretto che discusse intensamente del testo. Un corpo a corpo su una legge difficile da scrivere, a valle del referendum maggioritario votato a furor di popolo qualche mese prima.
Poi la difese in aula con realismo: «Questa intesa avrebbe potuto essere migliore, ma con questi rapporti di forza e questo pulviscolo di interessi in campo e sotto la pressione di un’opinione pubblica appassionata ma male informata sarebbe stato difficile fare meglio», disse. Magri, ricostruisce Crucianelli (anche lui all’epoca deputato Prc, poi con Magri uscì dal partito con i ’comunisti unitari’), «si trovò come sempre a discutere su due fronti: quello di una parte consistente del gruppo dirigente di Rifondazione comunista che come una litania riproponeva il proporzionale, con una straordinaria rimozione della realtà; e quello molto più potente del Pds, dei sostenitori dell’ipermaggioritario che intendevano cancellare il sistema dei partiti.
La legge Mattarella rappresentava il punto più avanzato: per un verso accettava il verdetto del referendum e per l’altro teneva aperto con quel 25 per cento di proporzionale la possibilità di ridare un senso generale ai partiti e a un tessuto democratico che vive nella partecipazione dei soggetti organizzati». Avercela oggi, quella legge, al posto dell’incipiente Italicum.
Già da questo brano si capisce che la sala strapiena non è una riunione di reduci accorsi a omaggiare la famiglia e a rimpiangere i tempi andati. C’è, sì, la comunità dei «compagni del Pdup», la breve ma feconda esperienza del ’partito d’unità proletaria per il comunismo’, del manifesto e delle cinquanta sfumature della sinistra di ieri e di oggi, da Nichi Vendola e tutto il gruppo di Sel a Fausto Bertinotti, da Luciano Pettinari a Paolo Guerrini a Lucio Manisco a Franco Giordano, al giornalista Valentino Parlato; il costituzionalista Gianni Ferrara, gli ex sottosegretari Vincenzo Vita e Alfonso Gianni, l’ex europarlamentare Roberto Musacchio; fino a Stefano Fassina, Roberto Speranza, Nico Stumpo e Valeria Fedeli (Pd); ma anche ai cattolici ex dc Gerardo Bianco e Nicola Mancino (dalla Dc proveniva Magri, iscritto al Pci nel ’57 prima essere radiato nel ’69), il già socialista poi Fi oggi Ncd Fabrizio Cicchitto.
Il ragionamento che si sviluppa negli interventi (Laura Boldrini, Gianni Melilla, Paolo Fontanelli, Bianco, Castellina, Crucianelli) a partire dai discorsi del deputato Magri sulla rappresentanza e sulla «democrazia organizzata» (lui, autore di un saggio su «parlamento o consigli» — i soviet — in risposta a Pietro Ingrao sul manifesto del 1970, così definisce quella che ora con formula fessa si chiama ’società civile’) parla dell’oggi. Coglie già «l’avvio della deriva oligarchica», sottolinea nella prefazione dei volumi il costituzionalista Stefano Rodotà. La presidente Boldrini, padrona di casa, riflette invece su ’quel parlamento’: nel ventennio 76–94 «c’era una curiosità per le opinioni diverse, oggi alla Camera non sempre accade». Si intuisce il riferimento alle polemiche degli ultimi giorni.
A leggere Magri di fine anni 80 si incrocia l’Italia del 2015. Magri «indignato con il nuovismo che caratterizza lo scioglimento del Pci», non perché «non innovatore» ma perché «considerava un grave errore politico la retorica di un nuovo senza radici e senza futuro» (Crucianelli). Il bersaglio di ieri è il «nuovismo» occhettiano; ma le parole non calzano bene per «la rottamazione» renziana?
A leggere Magri di fine anni 80 si incrocia l’Italia del 2015. Magri «indignato con il nuovismo che caratterizza lo scioglimento del Pci», non perché «non innovatore» ma perché «considerava un grave errore politico la retorica di un nuovo senza radici e senza futuro» (Crucianelli). Il bersaglio di ieri è il «nuovismo» occhettiano; ma le parole non calzano bene per «la rottamazione» renziana?
A leggere Magri del ’93 si incontra il tormento della sinistra di governo: «L’unica strada percorribile è quella non dell’improvvisa scomparsa dei partiti politici ma delle graduali e progressive coalizioni fra gli stessi con piattaforme programmatiche definite». E cosa c’è di più attuale e più coevo della crisi di rappresentanza della sinistra? «Magri rappresenta un punto di vista, una parte certo di minoranza», dice Melilla, già Pdup-manifesto oggi deputato di Sel, «ma non fu mai minoritario. Amava una frase di Teresa di Lisieux: ’so che niente dipende da me, ma parlo e agisco come se tutto dipendesse da me’».
Presentazione dei volumi
“Lucio Magri – Attività parlamentare”
“Lucio Magri – Attività parlamentare”
Mercoledì 11 marzo, alle ore 11, presso la Sala della Regina di Palazzo Montecitorio, sono stati presentati i volumi “Lucio Magri — Attività parlamentare”.
Ha aperto l’appuntamento il saluto della Presidente della Camera dei deputati, Laura Boldrini.
Sono intervenuti Paolo Fontanelli, Questore della Camera, Gianni Melilla, Segretario di Presidenza della Camera, Gerardo Bianco, Luciana Castellina, Famiano Crucianelli.
Presente il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella.
Guarda il video sul sito della Camera.
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