Pubblichiamo un interessante articolo del Prof.
Leonardo Di Vasto ( Presidente dell'Ass. Cultura Classica Roma-Atene) su
Pier Paolo Pasolini e la Calabria
LA CALABRIA di PIER PAOLO
PASOLINI
di
Leonardo Di Vasto
«Cara
Maria,
ho ricevuto una letterina di
tua cugina accompagnata da certe tue poesie, delle quali dovrei dare un
giudizio. Ecco: nella loro dignità hanno ancora qualcosa di acerbo, o forse per
troppo amore, di pasoliniano. Non è questo un male, naturalmente, ma lascia che
la poesia maturi in te, trovi la sua stagione e poi, senza fretta, mandami i
risultati. Intanto ti consiglio qualche poeta splendidissimo: Penna, Kavafis;
il libro di Elsa Morante: Il mondo salvato dai ragazzini. Scrivimi quando vuoi
Pier Paolo Pasolini».
Così scriveva, cortese e
paterno, Pasolini, nel novembre del 1970, a Maria Franco, poetessa calabrese,
precisamente reggina, alle sue prime esperienze letterarie, e le suggeriva, per
non rimanere ancorata al suo mondo poetico, l’opera di Sandro Penna, Costantino
Kavafis, Elsa Morante.
Pasolini conosceva la Calabria,
sin dalla fine degli anni ’50: l’aveva percorsa in macchina da Reggio, lungo la
costa ionica, per un reportage pubblicato nel mensile “Successo”.
«L’Ionio non è mare nostro:
spaventa. Appena partito da Reggio - città estremamente drammatica e originale,
di una angosciosa povertà, dove sui camion che passano per le lunghe vie
parallele al mare si vedono scritte “Dio aiutaci” - mi stupiva la dolcezza, la
mitezza, il nitore dei paesi sulla costa. Così circa fino a Porto Salvo. Poi si
entra in un mondo che non è più riconoscibile. Vado verso Crotone, per la zona
di Cutro. […] Si sente, non so da cosa, che siamo fuori dalla legge. Dalla
cultura del nostro mondo, a un altro livello. Nel sorriso dei giovani che
tornano dal loro atroce lavoro, c’è un guizzo di troppa libertà, quasi di
pazzia. […] intorno c’è una cornice di vuoto e di silenzio che fa paura».
Questa Calabria pasoliniana “che fa paura”, bagnata da un mare, l’Ionio,
che “spaventa”, è una terra primitiva, arcaica, mitica. Tale primitivismo ti
respinge e, a un tempo, ti seduce: i giovani sorridono, pur rientrando da un
lavoro “atroce”, manifestando “un guizzo di troppa libertà”, che pare “pazzia”,
perché quella libertà, essendo smodata, “troppa”, non rientra nei canoni della
società borghese, con le sue regole, le sue leggi, la sua libertà. Quella,
invece, è “fuori dalla legge, dalla cultura del nostro mondo”.
Una Calabria simile appare nel componimento “Profezia”, scritto
nei primi anni Sessanta: è la terra del ‘vuoto’, della ‘fame’, del ‘male’.
Insomma, siamo di fronte a un mondo spettrale (“ Coltivate dalla luna, le
campagne; “Le spighe cresciute per bocche di scheletri”), primitivo, che non ha
conosciuto, l’agricoltura, le riforme, la lotta sindacale.
Tuttavia, questa Calabria diviene la meta di “un figlio”, che ha dovuto
lasciare la sua terra e che, pertanto, vive la sorte di “ogni oscuro contadino”
calabrese che “aveva abbandonato / quelle casupole nuove / come porcili senza
porci, / su radure color della fame”.
Ebbene, costoro, umili, deboli, timidi, necessitano di dare uno sbocco alla
loro condizione sociale senza prospettive, precaria. L’operaio di Milano
rappresenta il loro ideale e lo “venerano”; ma questi è, ormai, senza ideali,
senza, più, la volontà di cambiare il mondo, perché è stato risucchiato dai
valori borghesi, sedotto dal consumismo, vivendo “tra frigorifero e
televisione”: si è “modernizzato”. Pertanto, costui non sarà capace di smettere
di lottare per il suo salario e di armare la mano dei calabresi, come dei tanti
“Alì dagli occhi azzurri”, partiti da Algeri, “su navi / a vela e a remi, […]
varate nei Regni della Fame”. Crotone e Palmi sono le prime tappe della loro
odissea: i calabresi li riconoscono come loro fratelli accomunati da un destino
maledetto di abbandono, di emarginazione, di miseria: portano “con sé i
bambini, e il pane e il formaggio”.
È sorprendente come Pasolini abbia ‘visto’, con anticipo di circa mezzo
secolo, una situazione drammatica dei popoli gravitanti, in gran parte, sul
Mediterraneo, aggrappati, disperatamente, alla speranza di cambiare il loro
destino di condannati a una sub-esistenza o a morte. Non solo. Lo scrittore ha,
pure, intuito il timore nutrito dall’Occidente di vedere la sua civiltà messa
in crisi, insidiata, distrutta (“usciranno da sotto la terra per uccidere,
usciranno dal fondo del mare per aggredire”). Il loro arrivo mette in
discussione un’algida razionalità occidentale, non più in grado di appagare il
sentire umano, l’anelito alla raccolta felicità, alla dolce sobrietà: infatti,
essi insegnano “la gioia di vivere”, “a essere liberi”, “come si è fratelli”.
Questa è la visione del
mondo di Pasolini, che è dalla parte di costoro, che sono il nuovo, che sempre
disturba. Il poeta è critico nei confronti di una “umanità adoratrice - come ha
scritto Alfonso Berardinelli - di un benessere nichilistico e di una cieca
religione del consumo”.
Negli anni Settanta, il poeta dialogava, vivacemente, con Franco Fortini o con
Elsa Morante, che aveva suggerito come modello letterario alla poetessa
reggina: all’autrice de La Storia “avrebbe potuto dire - ha affermato
ancora Berardinelli – che la Storia stava continuando i suoi delitti, ma che il
mondo non sarebbe mai stato salvato dai ragazzini o dai ragazzi, perché la
seconda e definitiva rivoluzione industriale li aveva divorati lasciando dei
corpi senz’anima”.
Profezia
(A Jean-Paul Sartre,
che mi ha raccontato la storia di Alì dagli Occhi Azzurri)
Era nel mondo un figlio
e un giorno andò in
Calabria:
era estate, ed
erano
vuote le
casupole,
nuove, a
pandizucchero,
da fiabe di fate
color
della fame. Vuote.
Come porcili senza porci, nel centro di orti senza insalata, di
campi senza terra, di greti senza acqua. Coltivate dalla luna, le
campagne. Le spighe cresciute per bocche di scheletri.
Il vento dallo Jonio
scuoteva paglia
nera
come nei sogni
profetici:
e la luna color della
fame
coltivava
terreni
che mai l’estate
amò.
Ed era nei tempi del
figlio
che questo amore
poteva
cominciare, e non
cominciò.
Il figlio aveva degli
occhi
di paglia bruciata,
occhi
senza paura, e vide
tutto
ciò che era male:
nulla
sapeva
dell’agricoltura,
delle riforme, della
lotta
sindacale, degli Enti
Benefattori,
lui - ma aveva quegli
occhi.
Ogni oscuro
contadino
aveva abbandonato
quelle sue casupole
nuove
come porcili senza
porci,
su radure color della
fame,
sotto montagnole
rotonde
in vista dello Jonio
profetico.
Tre millenni passarono
non tre secoli, non tre anni, e si sentiva di nuovo nell’aria
malarica l’attesa dei coloni greci. Ah, per quanto ancora, operaio di
Milano, lotterai solo per il salario? Non lo vedi come questi qui ti
venerano?
Quasi come un
padrone.
Ti porterebbero
su
dalla loro antica
regione,
frutti e animali, i
loro
feticci oscuri, a
deporli
con l’orgoglio del
rito
nelle tue stanzette
novecento,
tra frigorifero e
televisione,
attratti dalla tua
divinità,
Tu, delle Commissioni
Interne,
tu della CGIL,
Divinità alleata,
nel sicuro sole del
Nord.
Nella loro Terra di
razze
diverse, la luna
coltiva
una campagna che
tu
gli hai procurata
inutilmente.
Nella loro Terra di
Bestie
Famigliari, la
luna
è maestra d’anime che
tu
hai modernizzato inutilmente. Ah, ma il figlio sa: la grazia del
sapere è un vento che cambia corso, nel cielo. Soffia ora forse dall’Africa e
tu ascolta ciò che per grazia il figlio sa. Se egli poi non sorride
è perchè la speranza
per lui
non fu luce ma
razionalità.
E la luce del
sentimento
Dell’Africa, che
d’improvviso
spazza le Calabrie,
sia un segno
senza significato,
valevole
per i tempi futuri!
Ecco:
tu smetterai di
lottare
per il salario e
armerai
la mano dei Calabresi.
Alì dagli Occhi
Azzurri
uno dei tanti figli di
figli,
scenderà da Algeri, su
navi
a vela e a remi.
Saranno
con lui migliaia di
uomini
coi corpicini e gli
occhi
di poveri cani dei
padri
sulle barche varate nei Regni della Fame. Porteranno con sè i
bambini, e il pane e il formaggio, nelle carte gialle del Lunedì di
Pasqua. Porteranno le nonne e gli asini, sulle triremi rubate ai porti
coloniali.
Sbarcheranno a Crotone
o a Palmi,
a milioni, vestiti di
stracci
asiatici, e di camicie
americane.
Subito i Calabresi
diranno,
come da malandrini a
malandrini:
«Ecco i vecchi
fratelli,
coi figli e il pane e
formaggio!»
Da Crotone o Palmi
saliranno
a Napoli, e da lì a
Barcellona,
a Salonicco e a
Marsiglia,
nelle Città della
Malavita.
Anime e angeli, topi e
pidocchi,
col germe della Storia
Antica
voleranno davanti alle
willaye.
Essi sempre
umili
Essi sempre
deboli
essi sempre
timidi
essi sempre
infimi
essi sempre
colpevoli
essi sempre
sudditi
essi sempre piccoli,
essi che non vollero mai sapere, essi che ebbero occhi solo per
implorare, essi che vissero come assassini sotto terra, essi che vissero
come banditi in fondo al mare, essi che vissero come pazzi in mezzo al cielo,
essi che si
costruirono
leggi fuori dalla
legge,
essi che si
adattarono
a un mondo sotto il
mondo
essi che
credettero
in un Dio servo di
Dio,
essi che
cantavano
ai massacri dei
re,
essi che
ballavano
alle guerre
borghesi,
essi che
pregavano
alle lotte operaie...
E’ deponendo
l’onestà
delle religioni
contadine,
dimenticando
l’onore
della malavita,
tradendo il
candore
dei popoli
barbari,
dietro ai loro Alì
dagli Occhi Azzurri - usciranno da sotto la terra per uccidere,
usciranno dal fondo del mare per aggredire - scenderanno dall’alto del
cielo per derubare - e prima di giungere a Parigi per insegnare la gioia di
vivere,
prima di giungere a
Londra
per insegnare a essere
liberi,
prima di giungere a
New York,
per insegnare come si
è fratelli
- distruggeranno
Roma
e sulle sue
rovine
deporranno il
germe
della Storia
Antica.
Poi col Papa e ogni
sacramento
andranno su come
zingari
verso nord-ovest
con le bandiere
rosse
di Trotzky al vento...
(da Alì dagli occhi azzurri, Garzanti, Milano 1996, pp. 488-493,
515-516)
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