No, non siamo la Grecia e neanche il Portogallo. Ma dalla
crisi non siamo certo passati indenni. E non si tratta solo del Pil che arranca
ancora faticosamente o della produzione industriale ben lontana dai livelli
raggiunti qualche anno fa. Si tratta di una nuova concezione dello Stato, che
lascia indietro i più deboli, le persone senza lavoro, che stentano a pagare
l'affitto, sempre più penalizzate dai tagli del welfare. La crisi, insomma, ha
segnato la fine dello "stato sociale europeo". E' stata la tesi
conclusiva del "Rapporto sui diritti globali 2011", presentato
stamane nella sede della Cgil e promosso, oltre che dal sindacato, da diverse
associazioni italiane, tra le quali Arci, ActionAid, Antigone, Legambiente.
L’attacco durissimo al welfare state.
L’attacco durissimo al welfare state.
Nel
2012 la situazione è per molti versi ancor di più peggiorata. Gli Stati europei, in perfetta linea con le
indicazioni dell’economia liberista che ancora domina la devastante economia
globalizzata uscita dalla “caduta del
muro di Berlino”, stanno cercando di liberarsi dagli oneri derivanti dalla
protezione degli strati sociali più deboli e dal mantenimento di una serie di
servizi pubblici a suo tempo considerati essenziali per promuovere lo sviluppo
economico-sociale e oggi ritenuti un inutile fardello.
Citando un recente libro di Luciano Gallino: "Negli
ultimi cinquant'anni il modello sociale europeo ha migliorato la qualità della
vita di decine di milioni di persone e ha permesso loro di credere che il
destino dei figli sarebbe stato migliore di quello dei genitori. Ora il modello
sociale europeo è sotto attacco nientemeno che da parte dell'Europa
stessa".
Un "passaggio
epocale", dunque. Che è
stato fino a poco tempo fa inosservato, sottovalutato e perfino nascosto
dall’euforia liberista. E invece i segni per rendersene conto (e per cercare di
fermare questa trasformazione che appare ineluttabile) ci sono tutti. I tagli
abnormi sulla spesa sociale in Grecia come in Spagna e anche in Italia, per
esempio. Il "Rapporto sui diritti globali" li elenca tutti,
sottolineando come "dal 2008 al 2011 i dieci principali ambiti di
investimento sociale hanno avuto tagli complessivi pari al 78,7%, passando da
2.527 milioni stanziati nel 2008 ai 538 milioni della legge di stabilità
2011".
I tagli alla spesa sociale .
I tagli alla spesa sociale .
- Il Fondo per le politiche sociali, per esempio, è
passato dai 584 milioni del 2009 ai 435 del 2010 e arriverà nel 2013 ad appena
44 milioni.
- Il Fondo per la famiglia è passato dai 346,5 milioni del
2008 ai 52,5 milioni attuali (il taglio è del 71,3%).
- Il Fondo per
l'inclusione sociale degli immigrati, finanziato nel 2007 con 100 milioni dal
governo Prodi, è semplicemente sparito.
- Sparito anche il
"piano straordinario di intervento per lo sviluppo del sistema
territoriale dei servizi socio-educativi per la prima infanzia", che aveva
avuto 446 milioni nel triennio 2007-2209.
- Stessa fine per il "Fondo per la non
autosufficienza".
- di recente il Fondo affitti per l ‘aiuto agli
inquilini in difficoltà è stato di fatto azzerato e il limite max per il
reddito ISEE-ERP è stato abbassato a 4000 € col risultato che quasi nessuno
avrà tale opportunità d’aiuto portando tanta parte di inquilini in affitto
pubblico o privato a diventare moroso e
quindi ad essere sfrattato, senza possibilità di avere altro alloggio…è
probabile il ritorno alle baraccopoli, alle favelas, entro pochi anni.
Si è rotta la coesione sociale.
Si è rotta la coesione sociale.
Sono tagli "giustificati" in qualche modo dalla
crisi? Sorprendentemente, sono in molti a pensarla così, purtroppo anche a
sinistra dello schieramento politico, perché
"il welfare non è sottoposto solo ai tagli, ma anche a una crisi di
consenso".. Infatti "una quota importante di italiani, anche di
coloro che magari votano centrosinistra, non vuole che il welfare sia universalistico e
che ne possano fruire soggetti 'non meritevoli'". E quindi si ritiene in
qualche modo legittimo che dal welfare possano essere esclusi proprio coloro
che ne avrebbero più bisogno, ma che meno possono contribuire a sostenerlo.
Poveri e vulnerabili ( immeritevoli? ) in aumento.
Poveri e vulnerabili ( immeritevoli? ) in aumento.
I risultati sono sotto gli occhi di tutti, ma emergono anche
dalle fredde cifre, a cominciare da quelle dell'Istat, che rileva la
"povertà relativa" e quella "assoluta". La povertà relativa
oscilla tra il 10,2% e l'11,4% e negli ultimi anni è stabile. Ma da un lato
peggiorano le condizioni dei poveri, la loro "deprivazione", e
dall'altro comunque si registra un aumento nel meridione. Aumentano inoltre i
"vulnerabili", cioè i candidati a diventare i prossimi poveri. Tra
loro ci sono i bambini: il 22% dei minorenni vive in condizioni di povertà
relativa in Italia e 650.000 (il 5,2%) in condizioni di povertà assoluta.
Questo spesso perché i loro genitori sono cassintegrati: ha figli il 58,3% di chi usufruisce della Cig. Chi perde il lavoro nel 72% è già in una situazione difficile. Ma ci sono anche i "working poor", definizione statistica riferita a chi lavora, ma guadagna troppo poco. L'incidenza della povertà nelle famiglie con persona di riferimento occupata è dell'8,9% con oscillazioni tra il 4% del Nord e il 19,8% del Sud. Gli operai stanno peggio (il 14,9% è working poor). E ci sono persino i lavoratori "poveri assoluti", saliti al 3,6% dal 3,4% del 2008.
La casa emergenza cronica e sempre più un miraggio.
Questo spesso perché i loro genitori sono cassintegrati: ha figli il 58,3% di chi usufruisce della Cig. Chi perde il lavoro nel 72% è già in una situazione difficile. Ma ci sono anche i "working poor", definizione statistica riferita a chi lavora, ma guadagna troppo poco. L'incidenza della povertà nelle famiglie con persona di riferimento occupata è dell'8,9% con oscillazioni tra il 4% del Nord e il 19,8% del Sud. Gli operai stanno peggio (il 14,9% è working poor). E ci sono persino i lavoratori "poveri assoluti", saliti al 3,6% dal 3,4% del 2008.
La casa emergenza cronica e sempre più un miraggio.
L'Italia, si dice sempre, è il Paese dei proprietari di casa.
Lo è infatti l'81,5% della popolazione. Ma dai dati del SUNIA quel 17,1% in
affitto si trova spesso in grave difficoltà: l'incidenza dell'affitto sul
reddito ha avuto una crescita costante e tra il 1991 ( anno dell’abolizione
dell’Equo canone ) e il 2009
l 'incremento dei canoni di mercato nelle grandi città
metropolitane, ma la cosa è costante anche nei piccoli centri di provincia, è stato pari al 105%. Chi sta in affitto
appartiene alle fasce meno abbienti, e quindi in media il canone
"brucia" il 31,2% del reddito. Non stupisce che quindi siano
aumentati gli sfratti (+18,6% nel 2008 rispetto al 2007): il 78,8% sono per
morosità. Spesso, poi, si trova in difficoltà anche chi ha comprato la casa ma
deve sostenere il rimborso di un mutuo oneroso: i 10.281 mutui sospesi
all'inizio del 2010 a
fine anno erano diventati 30.868.
Ma anche il mercato delle vendite è in crisi aperta calo
della capacità di risparmio per le famiglie anche del ceto medio, forte
limitazione della disponibilità delle banche a concedere muti per l’acquisto
soprattutto ai più giovani, perché precari o senza lavoro, perdita del lavoro e
pesante riduzione dei radditi in termini
di capacità d’acquisto di chi lavora e dei pensionati, hanno immesso sul
mercato oltre a caseggiati di nuova costruzione rimasti vuoti anche una gran
massa di case messe in vendita proprio dalle famiglie più impoverite e in
difficoltà economiche, facendo crollare la incidenza delle vendite e in parte
anche dei prezzi.
Il Paese delle disuguaglianze.
Il Paese delle disuguaglianze.
All'impoverimento dei poveri dovuto alla crisi e favorito dal
"restringimento" del welfare si contrappone un miglioramento delle
condizioni dei più abbienti: l'Italia è al sesto posto nella classifica Ocse
della diseguaglianza sociale, ricorda il rapporto Cgil. Che elenca alcune
"diseguaglianze tipo": se il salario netto medio mensile è di 1.260
euro al mese, una lavoratrice guadagna il 12% in meno; un lavoratore di una
piccola impresa (e in Italia sono la stragrande maggioranza) il 18,2% in meno;
un lavoratore del Mezzogiorno il 20% in meno; un immigrato il 24,7% in meno; un
lavoratore a tempo determinato il 26,2% in meno; un giovane lavoratore (15-34
anni) il 27% in meno e infine un lavoratore con contratto di collaborazione il
33,3% in meno.
La ricetta possibile ed auspicabile.
Si può imprimere una svolta alla politica economica e sociale
del Paese per "tenere sui diritti", come conclude il rapporto? La
proposta sembrerà a molti utopistica, e riprende quella della "Finanziaria
Possibile" dell'associazione Sbilanciamoci: 40 miliardi di euro per
abbattere la povertà, da ottenere da una riforma fiscale che tassi le rendite,
diverse tasse di scopo a cominciare da quella sui SUV e sugli yacht, tagli alle
spese militari ma anche alle "grandi opere" inutili come lo “stretto
di Messina” e la TAV, e in genere da un riequilibrio e da una razionalizzazione
della spesa pubblica. Per arrivare a un un reddito minimo garantito ( basic incom ) che garantisca anche la
dignità, oltre che salvaguardare "un modello sociale che ambisce alla
coesione". Tutto il contrario dell’agenda Monti e delle politiche
recessive di stampo liberista fin qui messe in campo in Italia e in Europa.
Ruolo del Sindacato.
Di fronte a questa pesante situazione il ruolo del sindacato,
tanto più di un sindacato che voglia porsi l’obiettivo di “tenere sui diritti”
non può che concentrarsi nell’ottenimento di almeno due obiettivi quello di
tenere alta l’attenzione sulle conseguenze della crisi a tutti i livelli più
“bassi” della società con iniziative di mobilitazione e azioni di lotta il più
generali e ampie possibile e anche con strumenti che non disdegnando gli
strumenti più tradizionali della storia del movimento operaio e progressista,
metta in campo anche strumenti innovativi come i flash-mob, le critical-mass,
le catene umane, i girotondi,gli scioperi passivi, ecc, dall’altra incentivi la
ripresa di una presenza più ampia nel territorio con iniziative di riscoperta
di forme di solidarietà collettiva ( dalle vecchie cooperative di consumo a km
0, alle banche di mutuo soccorso per lo
sviluppo di microcredito finanziario, dalla costituzione di gruppi di
mutuo-aiuto o banche del tempo, alla ricostruzione di scuole “operaie” di
quartiere. Insomma mettendo in campo una capacità di mobilitazione che sposti
in avanti la battaglia dei diritii e la salvaguardia del welfare state.
Dal Rapporto 2012 di “ SBILANCIAMOCI”
…………….Veniamo alle
politiche concrete.
La più urgente, in
quest'autunno caldo per l'occupazione, è una politica del lavoro che estenda
gli ammortizzatori sociali ai lavoratori delle piccole e medie imprese e ai
lavoratori atipici (co.pro, interinali etc.), sulla base delle norme attuali
per i lavoratori delle grandi imprese (cassa integrazione e copertura fino a
otto mesi all'80% dello stipendio). Altre misure potrebbero tutelare la difesa
dei posti di lavoro e scoraggiare i licenziamenti.
La seconda
iniziativa concreta è un piano nazionale di «piccole opere» ambientali e
sociali: ad esempio entro il 2011 si potrebbero realizzare 500 mila impianti
fotovoltaici, 500 treni per i pendolari, 20 progetti di mobilità sostenibile
(autobus, car sharing).
La terza iniziativa è un
allargamento delle politiche di welfare, senza la carità della social card e
dei bonus bebè,ma con servizi sociali pubblici che diano risposte ai bisogni
insoddisfatti: 5 mila nuovi asili nido, 1000 strutture di servizio per disabili
e anziani non autosufficienti, l'introduzione dei livelli minimi di assistenza,
la promozione del diritto allo studio.
Per il sistema
produttivo, la quarta proposta di Sbilanciamoci è di sostenerne e orientarne le
attività con nuovi strumenti di politica industriale e dell'innovazione, che
usino la leva della domanda e degli interventi selettivi, offrendo incentivi,
accesso al credito e aiuti (con defiscalizzazioni o bonus) alle imprese che
mantengono l'occupazione e assumono in modo stabile i precari.
Infine, la quinta
iniziativa, contro l'impoverimento del paese, riguarda il sostegno al potere
d'acquisto attraverso, ad esempio, l'introduzione della 14ma mensilità per i
pensionati sotto i mille euro lordi mensili; la restituzione del fiscal drag ai
lavoratori dipendenti; la reintroduzione del reddito minimo d'inserimento
(cancellato di recente) per i disoccupati e chi non ha altri ammortizzatori
sociali.
Fare tutto questo
costerebbe 40 miliardi in due anni.
Dove trovarli?
Da nuove entrate fiscali
potrebbero venirne più della metà, 21 miliardi di euro. Innanzi tutto con la
lotta all'evasione fiscale, poi 8miliardi dalla tassazione delle rendite al
23%, dall'aumento dell'imposizione al 49% per i redditi oltre i 200 mila euro;
dall'introduzione di tasse di scopo (SUV, diritti televisivi sullo sport,
spettacolo, pubblicità, etc.). Inevitabile poi prendere un po' di risorse dove
i soldi non mancano, il 10% più ricco della popolazione: qui viene proposta una
tassa straordinaria per i patrimoni sopra i 5milioni di euro, con una
imposizione minima del 3 per 1000. Da interventi sulla spesa pubblica attuale
potrebbero venire 17 miliardi di euro. Nelle spese militari la cancellazione
dell'acquisto del cacciabombardiere JSF produrrebbe un risparmio in 10 anni di
16 miliardi di euro, e la riduzione del 20% delle spese militari in due anni
produrrebbe un risparmio di 6 miliardi di euro. La rinuncia al programma delle
inutili grandi opere (a cominciare dal Ponte sullo Stretto di Messina)
comporterebbe un risparmio di 3miliardi. Una razionalizzazione della spesa
pubblica potrebbe abolire i contributi alle scuole private (1,4miliardi in due
anni).
Fatti i conti, il nuovo
indebitamento pubblico necessario per realizzare queste nuove politiche sarebbe
modesto, appena 2 miliardi di euro. In cambio, si creerebbero centinaia di migliaia
di posti di lavoro, l'economia uscirebbe dalla recessione e l'Italia sarebbe un
paese un pochino migliore…………….
VITALIANO
SERRA
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