martedì 27 ottobre 2015

Il capitalismo traballa ma il neoliberismo ha vinto

Il capitalismo traballa ma il neoliberismo ha vinto

Intervista a Luciano Gallino di Davide Turrini
Come si è innescata la stessa dinamica impositiva del credo neoliberista nelle istituzioni e nel governo dell’Unione Europea?
"A partire dagli anni Ottanta, a partire dagli Stati Uniti ma con un grosso contributo delle nazioni europee, si è affermato il processo cosiddetto della “finanziarizzazione”, per cui interessi e paradigmi finanziari hanno avuto la meglio su qualsiasi altro aspetto socio-economico. Il percorso di liberalizzazioni avviato in Usa da Reagan è avvenuto anche in Gran Bretagna con la Thatcher, e in Francia ad opera nientemeno che di un socialista come Mitterand. Tutto ciò ha fatto sì che il sistema ‘ombra’ delle banche, non assoggettabile in pratica ad alcune forma di regolazione, oggi valga quanto il sistema bancario che lavora per così dire alla ‘luce del sole’. Sono stati compiuti eccessi non immaginabili in campo finanziario, che hanno fortemente danneggiato l’economia reale.
Qualunque dirigente o imprenditore di fronte alla possibilità di fare il 15% di utile speculando a livello finanziario o il 5% producendo beni reali, ha cominciato a scegliere la prima opzione senza stare più a pensarci troppo."
Poi c’è stata la crisi del 2007-2008…
"Una crisi causata soprattutto dalla “finanziarizzazione”, non disgiunta dalla stagnazione dell’economia reale. A cui si dovevano far seguire serie riforme a livello bancario e finanziario, anche solo tornando alle regole, tipo la legge Glass-Steagall del ‘33, che avevano assicurato 50 anni di stabilità. Però non si è fatto nulla. Le banche e il sistema finanziario sono tornate più grosse, prepotenti e invadenti di prima della crisi. L’euro e la superiorità della Germania riflettono i risultati della finanziarizzazione. Va detto che la politica tedesca è stata quella di comprimere i salari dei propri lavoratori, e di utilizzare fiumi di forniture a basso prezzo dai paesi industriali dell’Est per favorire le proprie esportazioni in modo incredibile. Nel 2014 l’eccedenza degli incassi tra import ed export è stata di 200 miliardi di euro. I crediti di qualcuno sono però i debiti di qualcun altro: spesso dei paesi impoveriti sotto il predominio della Germania, alla quale l’euro ha giovato moltissimo, impedendo agli altri paesi di svalutare la propria moneta per stare dietro alla competitività tedesca."
Il caso greco sarà quindi il primo di tanti altri che arriveranno?
"Sì. Con la Grecia i tedeschi hanno detto: “Umiliarne uno per educarne diciotto”, se parliamo dell’eurozona. Ne seguiranno altri. La Germania procede con decisione, la sua industria e le sue banche sono pesantemente coinvolte nel meccanismo infernale che hanno messo in moto. Dopo la Grecia toccherà all’Italia, alla Spagna, e anche alla Francia."
Eppure il presidente Renzi ogni giorno vara una nuova riforma…
"Le riforme di Renzi si collocano tra il dramma e la barzelletta. Rispetto alle dimensioni del problema, alla gravità della crisi, il Jobs Act è una stanca ricucitura di vecchi testi dell’Ocse pubblicati nel 1994 e smentiti dalla stessa Ocse: la flessibilità non aumenta l’occupazione. Abbiamo perso il 25% della produzione industriale, il 10-11% di Pil, gli investimenti in ricerca e sviluppo sono penosamente modesti. I giochetti delle riforme sono l’apoteosi preoccupante del fatto che il governo non ha la più pallida idea dei problemi reali del paese; o forse ce l’hanno ma procedono per la loro strada di passiva adesione alle politiche di austerità."
C’è chi vede la capitolazione greca di fronte alla fermezza Bce e Fmi come l’atto più antidemocratico avvenuto in Europa negli ultimi vent’anni. Che ne pensa?
"Il ministro Schauble, il mastino della Germania e dell’euro, sta preparando altre strettoie dittatoriali per rafforzare il dominio tedesco sugli altri paesi dell’eurozona. A me pare che per un paese che vale demograficamente un ottavo della Germania, tener testa per cinque mesi agli ottusi e feroci burocrati di Bruxelles, della Bce e del Fmi sia un altissimo riconoscimento, un grande esempio di dignità politica. L’Italia è lontana anni luce dalla Grecia. Siamo un paese economicamente molto più pesante e di fronte ai memorandum europei avremmo potuto ottenere risultati maggiori; ma questi neoliberali che ci governano rappresentano le classi sociali alleate con la finanza che ci domina."
Renzi un neoliberale come Reagan e la Thatcher?
"Sì. Anche Monti arrivò da Bruxelles, grazie all’intervento di Napolitano, per fare il gendarme delle più grandi insensatezze mai immaginate in campo economico: il pareggio obbligatorio di bilancio inserito addirittura in Costituzione, le riforme regressive del lavoro, i tagli forsennati alle pensioni. La Commissione Europea e la Bce ci mandano lettere che assomigliano ai feroci memorandum mandati alla Grecia. Ci manca soltanto che ci mandino lettere con su scritto come confezionare il pane, proprio come suggerito nell’accordo dell’Eurogruppo con Tsipras il 12 luglio."
Che c’è scritto in materia di produzione del pane?
"Si tratta di una indicazione dell’Ocse richiamata espressamente nel testo dell’accordo. Da sempre i panettieri greci vendono due tipi di pane: da mezzo e da un chilo. Nella “cassetta degli attrezzi” dell’Ocse (così si chiama) ci sono alcuni paragrafi dedicati ai fornai a cui viene imposto, al fine di allargare la liberalizzazione di un paese e bla bla bla, di introdurre varie altre pezzature di diverso peso delle pagnotte. E poi il pane dovrà essere venduto in qualunque posto, anche nei saloni di bellezza, se lo vogliono. Capirete bene cosa rappresenta un’imposizione del genere: si sta dicendo ad un paese intero come fare il pane. Pensiamo ai 30mila dipendenti della Cee a Bruxelles e alle migliaia che lavorano per l’Ocse e per l’Eurogruppo con le loro macchinette mentre calcolano migliaia di coefficienti e trovano il tempo e ritengono opportuno intervenire sul pane. Si è raggiunto un livello di imbecillità inaudito, ed è soprattutto una forma di dittatura che avanza."
Ci può spiegare il concetto di “autoritarismo emergenziale” che ha coniato?
"Un governo che ha una vocazione autoritaria, ma è ancora soggetto al peso del voto, deve trovare buone ragioni per imporre le sue misure autoritarie. Per farlo ricorre allo “stato di eccezione”, un vecchio concetto politico che indica che una parte di uno stato che non ne avrebbe diritto si appropria di poteri non suoi. Lo stato di eccezione può essere costituito dalla guerra, da epidemie, da disastri naturali, dove s’impone che la Costituzione venga messa da parte. Ricordiamo la costituzione della repubblica di Weimar, la più liberale d’Europa. Conteneva un articolo sullo stato di eccezione che nel 1933 permise al capo di governo Adolf Hitler di appropriarsi del potere assoluto facendo fuori gli altri partiti e poi la costituzione stessa. In Europa con la crisi delle banche, non solo americane, e grazie alle folli liberalizzazioni sono emerse le montagne di debito a cui gli istituti si sono esposti. Quando queste procedure sono cadute come castelli di carta i governi si sono dissanguati per salvare le banche con fiumi di denaro che hanno indebolito i bilanci pubblici degli stati. Così il debito pubblico europeo è salito in due anni dal 65% all’85% e i governi hanno inventato uno stato di eccezione, quello della spesa eccessiva per la protezione sociale. Si è speso troppo? Bisogna tagliare i bilanci pubblici. Così s’impongono misure sempre più dittatoriali."
Secondo lei ci sono le condizioni per contrastare ideologicamente e culturalmente la vulgata neoliberista?
"Il neoliberismo ha stravinto la battaglia culturale, ha conseguito un’egemonia a cui Gramsci poteva guardare con invidia: controlla 28 su 29 governi dei paesi dell’area europea, qualunque siano i nomi dei partiti al governo. Hanno il 95% della stampa a favore, il 99% delle tv, dominano nelle università, e hanno conquistato i governi. Sono piuttosto difficili oggi da sconfiggere. La sinistra come forza partitica poi non esiste più e quindi non ha la forza di opporre un ruolo di riflessione o denuncia paragonabile a quello all’attacco vincente dei neoliberisti. Inoltre non ci sono saggi, libri, testi da contrapporre all’egemonia culturale neoliberale, qualcosa che contrasti la favola dei mercati efficienti, della finanza che inaugura una nuova fase del capitalismo e altre amenità simili."
Le vecchie categorie di pensiero del Novecento non bastano più per comprendere la realtà politica attuale?
"No, ce ne sono alcune che funzionano ancora bene. Il fatto è che non basta dire “proletari della UE unitevi”, o cambiando forma dire ‘precari’ o ‘classi medie impoverite della UE unitevi’. Qui bisogna fornire idee, documenti, possibilità di azione e controreazione. Possono esserci milioni di elettori che voterebbero una politica di sinistra, realmente progressista, per uscire dall’austerità, ma chi glielo spiega?"
C’è chi indica il salvataggio nell’uscita dall’euro. Oppure decondo lei si può stare dentro e modificarne in qualche modo il pensiero dominante?
"Al di là della demagogia di alcuni politici italiani, l’euro è una camicia di forza peggiore anche del ‘gold standard’. Ha giovato solo alla Germania, perfino la Francia ha perso punti nelle esportazioni e aumentato la disoccupazione. Così com’è l’euro non può più funzionare. Sia chiaro che uscire dall’oggi al domani non si può, sarebbe un disastro per i depositi bancari, la fuga dei capitali, la forte svalutazione della moneta sul mercato internazionale. Ma bisognerà affrontare presto la questione del “se e come uscirne”, perchè ciò vuol dire molti mesi di preparazione; oppure possiamo tentare di temperare questa uscita in qualche modo: affiancare all’euro una moneta parallela che permetta ai governi di avere libertà di bilancio, mentre con gli euro si continua a sottostare al giogo dei creditori internazionali. Purtroppo con la Germania al comando e l’inanità del nostro e degli altri governi non c’è molto da sperare. Intanto i muri della Ue scricchiolano e prima o poi sarà il peggioramento della crisi a imporci decisioni drastiche. Sempre che non arrivi Herr Schauble a dirci che non ci vuole più nell’euro. Non è una battuta, stando ai documenti che circolano."


Fonte: Il Fatto Quotidiano

domenica 18 ottobre 2015

Rai Replay

Rai Replay: Ulisse di Alberto Angela su Rai 3 del 17 ottobre 2015 : SALENTO: lu sole, lu mare e lu ientu

giovedì 15 ottobre 2015

La globalizzazione e il partito-padrone

La globalizzazione e il partito-padrone

di Paolo Favilli
«Par­tito dei padroni», «Servo dei padroni»: si tratta di espres­sioni che hanno accom­pa­gnato per lungo tempo l’agire politico/sindacale della grande mag­gio­ranza delle forme orga­niz­zate delle classi subal­terne sia nei momenti di resi­stenza, sia in quelli (pochi) favo­re­voli all’offensiva. In genere quasi tutte le espres­sioni uti­liz­zate come stru­menti di bat­ta­glia, nel con­te­sto di una lotta di classe espli­cita, si carat­te­riz­zano per il forte valore emo­tivo e l’impreciso valore deno­ta­tivo. Non che i «padroni delle fer­riere» non fos­sero chia­ra­mente indi­vi­dua­bili, ma nep­pure quando essi for­ma­vano la parte più evi­dente del domi­nio del capi­tale, tale domi­nio si esau­riva in quella forma.
Nei periodi in cui, però, la tipo­lo­gia del «padrone delle fer­riere» era quella più imme­dia­ta­mente visi­bile anche i «par­titi dei padroni», i «servi dei padroni» si tro­va­vano ad avere una con­fi­gu­ra­zione pre­cisa nella catena del domi­nio. Si con­fi­gu­ra­vano come stru­menti poli­tici di ser­vi­zio (servi appunto) rispetto a stra­te­gie neces­sa­rie che ave­vano come input la sfera del potere eco­no­mico. Il modello inter­pre­ta­tivo rima­neva forse appros­si­ma­tivo, ma non era cer­ta­mente stac­cato dalla realtà.
Oggi il termine «padrone» è scomparso dal lessico politico ed anche da quello sindacale.
Nello stesso tempo i modi del «domi­nio» sono diven­tati sem­pre più per­va­sivi. Un «domi­nio» senza domi­nus (padrone) è, mani­fe­sta­mente, una incon­ce­pi­bile con­trad­di­zione. Il fatto che i padroni siano scom­parsi dall’uso lin­gui­stico e siano invece ben pre­senti nella mate­ria­lità dei rap­porti sociali è un’ulteriore prova di «domi­nanza ideologica».
Per la verità uno dei mas­simi lin­gui­sti oggi viventi, Noam Chom­sky, ha inti­to­lato I padroni dell’umanità (The masters of Man­kind) un suo recen­tis­simo libro. Egli usa il ter­mine come ele­mento coes­sen­ziale alla cate­go­ria di «domi­nio», pro­prio come aveva fatto anche Adam Smith, quando una scienza eco­no­mica agli inizi era ancora stru­mento di cono­scenza reale.
Il ter­mine, inol­tre, è ancora molto usato nell’ambito della scienza sociale cri­tica, ed invece assente dalla sfera poli­tica. Ed appunto qui è il nodo: si può ancora par­lare di una sfera poli­tica «serva dei padroni»?
Penso che sia neces­sa­rio riflet­tere di nuovo sull’analisi che Michel Fou­cault, in un libro di più di quarant’anni fa (Micro­fi­sica del potere), eser­ci­tava sulle forme di eser­ci­zio del potere nell’ambito del modo di pro­du­zione capi­ta­li­stico. L’analisi di Fou­cault, si muove all’interno delle orga­niz­za­zioni reti­co­lari tra­mite le quali il potere si distri­bui­sce in tutto il corpo sociale. Su que­sto aspetto, la «micro­fi­sica» appunto, si è con­cen­trata l’attenzione della mag­gior parte della pub­bli­ci­stica. Nello stesso tempo, però, lo stu­dioso fran­cese sot­to­li­nea come le carat­te­ri­sti­che spe­ci­fi­che di quel mec­ca­ni­smo di domi­nio reti­co­lare siano la con­se­guenza di un modo di pro­du­zione, di «un sistema eco­no­mico che favo­ri­sce l’accumulazione di capi­tale ed un sistema di potere che comanda l’accumulazione degli uomini». E più recen­te­mente il socio­logo tede­sco Ulrich Beck ha soste­nuto che è nella «logica del capi­tale» la ricerca della pro­pria legit­ti­ma­zione mediante non tanto «l’economicizzazione della poli­tica, ma la poli­ti­ciz­za­zione dell’economia».
Nell’attuale fase di accu­mu­la­zione nel «par­tito dei padroni», cioè la «parte» che eser­cita il domi­nio, sia pure «reti­co­lare», sull’insieme del corpo sociale, la distin­zione tra eco­no­mia e poli­tica è esclu­si­va­mente fun­zio­nale. Per fare solo un esem­pio, il set­tore indu­striale dei com­bu­sti­bili fos­sili, secondo uno stu­dio del Fondo Mone­ta­rio inter­na­zio­nale, riceve con­tri­buti pub­blici, cioè poli­tici, che assom­mano a circa cin­que­mila miliardi di dol­lari l’anno. D’altra parte se pen­siamo al grado di finan­zia­riz­za­zione del sistema eco­no­mico ed ai livelli di soste­gno del sistema pub­blico, cioè poli­tico, di cui ha goduto negli ultimi anni, un livello tale che ha indotto nume­rosi ana­li­sti a par­lare più di «capi­ta­li­smo di stato» che della favola del «libero mer­cato», la com­pe­ne­tra­zione tra le due sfere risulta essere dato di fatto dif­fi­cil­mente con­tro­ver­ti­bile. E qui ci rife­riamo uni­ca­mente ad inie­zioni di denaro, ma la dimen­sione poli­tica forse più impor­tante è la costru­zione stessa, del tutto poli­tica, di quella che chia­miamo «glo­ba­liz­za­zione» e che altro non è che cor­nice, ed in gran parte anche qua­dro, dell’attuale fase di accu­mu­la­zione del capitale.
Quindi quando noi par­liamo di «par­tito dei padroni» con rife­ri­mento alla sfera poli­tica, dob­biamo avere ben chiaro che ci rife­riamo a forze atti­va­mente e con­vin­ta­mente com­par­te­cipi tanto della costru­zione che del radi­ca­mento delle logi­che di tale fase. In Ita­lia lo spa­zio di cui stiamo par­lando è molto affol­lato, ma la forza più moderna, coe­rente, dotata di capa­cità e di pos­si­bi­lità deci­sio­nale è il Pd, che attual­mente si iden­ti­fica con il suo domi­nus primo: Mat­teo Renzi.
Il pro­cesso di eman­ci­pa­zione dei subal­terni si è svolto attra­verso l’ampliamento pro­gres­sivo dei diritti, che signi­fica amplia­mento pro­gres­sivo della demo­cra­zia, con­su­stan­ziale al pro­getto di tra­sfor­ma­zione della plebe in popolo. Il «par­tito dei padroni» è il pro­ta­go­ni­sta del pro­cesso inverso. Tutti gli atti fon­da­men­tali del governo Renzi si iscri­vono con per­fetta con­nes­sione in tale svolgimento.
Il «par­tito dei padroni» non rap­pre­senta né «serve» i padroni. I suoi diri­genti sono «padroni». Natu­ral­mente in un mec­ca­ni­smo di dif­fu­sione reti­co­lare del domi­nio si è «padroni» a livello diverso. Il diverso livello, le ammi­ni­stra­zioni locali ad esem­pio, e nel loro ambito la diver­sità dei comuni e delle regioni, non com­porta nes­suna fuo­riu­scita dalle logi­che domi­nanti del «par­tito». Per­ché la dif­fu­sione reti­co­lare è del tutto interna a pro­cessi che hanno ormai una lunga sto­ria ed un radi­cato sistema di rela­zioni tra le diverse fun­zioni dell’esercizio del «domi­nio». Al mas­simo sono pos­si­bili aggiu­sta­menti tat­tici e di posizionamento.
La costru­zione di una forza poli­tica anti­te­tica ai modi dell’accumulazione in corso, può reg­gere l’alleanza con la dimen­sione locale del «par­tito dei padroni»?

Fonte: il manifesto

Originale: http://ilmanifesto.info/la-globalizzazione-e-il-partito-padrone/

Coraggio, tutti insieme appassionatamente verso i primi del 900 ( A. Robecchi - MicroMega )

E’ passato un annetto giusto giusto da quando il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi emetteva il suo sfumato giudizio: “Il governo Renzi realizza tutti i nostri sogni”. Il problema è che da allora l’attività onirica di Squinzi, Confindustria e imprenditori italiani è stata frenetica: la logica prevalente è quella che se si aiutano i padroni (uh, parolaccia), si aiutano anche i loro dipendenti, un sillogismo piuttosto bislacco, a dire il vero, ma accettato come un dogma. Così, per fare un esempio, mentre si mascherano i tagli alla sanità con una variante del Comma 22 (non ti pago gli esami se non sei grave, ma per sapere se sei grave devi fare gli esami), si annunciano tagli alle tasse sui profitti d’impresa. I famosi vasi comunicanti, solo che comunicano in un verso solo: dal pubblico al privato, dal welfare al profitto, dai tanti ai pochi, dal basso all’alto della piramide sociale.
Chissà se prende qualcosa, pillole, gocce, per sognare tanto, ma insomma, sta di fatto: il padronato italiano ha ora un nuovo sogno e il governo si accinge a realizzarlo. Per la verità non è un sogno nuovissimo ma un vecchio pallino: “superare” il contratto collettivo di lavoro e lasciare che ogni azienda se la veda da sé nelle vertenze sui rinnovi contrattuali. Contestualmente, si dovrebbe varare il salario minimo, cioè una linea di semigalleggiamento sotto cui non sarà possibile andare (né campare). Ora, per tradurre in italiano: l’operaio metalmeccanico (poniamo) della piccola media azienda non potrà più contare sulle lotte comuni e condivise di tutti i metalmeccanici, e quindi su una forza poderosa per sostenere le trattative, ma dovrà vedersela col singolo consiglio di amministrazione. Non è difficile immaginare, dunque, che il potere contrattuale penderà clamorosamente dalla parte degli imprenditori ed è piuttosto fantascientifico immaginare che l’operaio di una piccola azienda di Crotone avrà un domani gli stessi diritti (e lo stesso stipendio) di un collega che lavora in una grande fabbrica del Nord. Dal punto di vista tecnico-economico si tratta di una nuova rapina ai danni del mondo del lavoro, dal punto di vista storico-culturale è invece il definitivo omicidio di concetti come unità dei lavoratori, l’unione fa la forza, uniti si vince eccetera, eccetera, tutte cosucce che ingombrano il disegno thatcheriano in corso.
I narratori delle gesta renziste si affanneranno a dire che – wow! – arriva il salario minimo, e lo venderanno come progresso e cambiaverso in una selva di hashtag osannanti, il che rappresenta, ovviamente una fregatura parallela. Perché tra poco, per essere in regola, basterà offrire ai lavoratori un salario minimo appena sufficiente a campare, e tutto il resto (il salario accessorio) dipenderà dai risultati, dalla disponibilità (straordinari, festivi, notti, doppi turni, obbedienza). Insomma, a farla breve, dalla discrezionalità di chi guida le aziende, con le ovvie e prevedibili ricadute in termini di ricatto economico: fai così o prendi due lire, ubbidisci o ripiombi in un lumpenproletariat da inizio secolo.
Riassumendo: sei demansionabile (Jobs act), licenziabile a costi risibili (sempre Jobs act), i tuoi diritti sono determinati dall’umore del datore di lavoro, il tuo salario è variabile a seconda di come ti comporti, e tra poco si metterà mano a una restrizione del diritto di sciopero. Niente male, per un governo – destra e sinistra Pd, Ncd, sor Verdini e compari – che si affanna a dire a tutti che è “di sinistra”.

Alessandro Robecchi