mercoledì 15 aprile 2015

Un «piano verde» per uscire dalla crisi


Un «piano verde» per uscire dalla crisi

di MONICA FRASSONI   da www.sbilanciamoci.info.
05/12/2014
Euro manovre/Investimenti in tutti i settori chiave: dalle energie rinnovabili alla mobilità. Un'alternativa alla proposta Juncker
Possiamo considerarla una massima generale, che casca a pennello nel caso dell’“Investment Plan for Europe”, il piano d’investimenti presentato, il 26 novembre scorso a Strasburgo, dal Presidente della Commissione, Jean Claude Juncker: un documento che manca di ambizione, di mezzi appropriati e di obiettivi qualificanti.
I motivi alla base dell’iniziativa Juncker sono chiari e largamente condivisi, almeno a parole: l’economia ha bisogno urgente di una boccata di ossigeno, che significa “necessità di nuovi investimenti” e l’Europa deve fare la sua parte. Ma investire su cosa e quanto? Il livello d’investimenti pubblici diretti da parte dell’Ue è di circa 21 miliardi di euro, che dovrebbero agire come una “leva” per creare 315 miliardi di euro in totale, cioè un rapporto davvero miracoloso secondo il quale 1 euro dal fondo dovrebbe creare 15 euro di investimenti. Si tratta peraltro in gran parte fondi riallocati: solo 5 mld proverrebbero dalla BEI (la Banca Europea per gli Investimenti); i restanti 16mld di euro, invece, verrebbero sottratti o congelati dal budget Ue per fare da garanzia; non si sa ancora da quali progetti, ma è stato lo stesso Juncker a fare riferimento ai programmi Horizon 2020 e Connecting Europe Facility che potrebbero vedersi privati di almeno 8mld di euro.
Conseguenza questa inevitabile della sciagurata decisione di ridurre in modo consistente il Bilancio dell’UE nel periodo 2013/2020, che riduce all’osso, appena all’1% in relazione al PIL, l’intero bilancio UE. All’origine, è bene sottolinearlo, l’idea pare fosse di reinvestire i fondi di “emergenza” restituiti da Portogallo e Irlanda messi a disposizione nel Fondo Salva stati. Ma il veto teutonico ha bloccato sul nascere questa idea. E cosi, Juncker si è adattato, senza andare a cercare altre fonti possibili di finanziamento. Come potrebbero essere la proposta di Tassa sulle transazioni finanziarie, oggi finita in un binario semimorto e comunque con aliquote molto deboli; o la repressione di frode ed evasione fiscale, che potrebbero portare 100 miliardi di euro in più di entrate da dirottare almeno in parte nel misero bilancio UE e da investire nell'economia reale. Il punto più problematico è comunque il come s’intende spendere questi soldi. Nella testa di Juncker e della maggioranza degli stati membri si tratta di dare la priorità a grandi infrastrutture (tunnel, autostrade, aereoporti, treni ad alta velocità, gasdotti…): le liste che si preparano ricordano quando negli anni 90 la Commissione ricevette centinaia di progetti infrastrutturali che poi mise nel famoso piano di Reti Transeuropee, rimaste per lo più incompiute. L’approccio del documento appena approvato dai Verdi al PE “Un piano di investimenti Verde” è radicalmente diverso; si concentra sia su come trovare i denari che su come spenderli per assicurare un massimo profitto non per chi investe, o almeno non solo, ma anche e soprattutto per gli europei e spiega che i cambiamenti climatici e la scarsità delle risorse possono diventare una grandissima opportunità per uscire dalla stagnazione nella quale ci dibattiamo. L’accento è messo sulle riforme necessarie a garantire un clima favorevole agli investimenti e su tre priorità di spesa di livello europeo: l’uscita dalla dipendenza dai fossili, investendo in energie rinnovabili, interconnessioni, efficienza energetica, in particolare sul patrimonio abitativo. La seconda priorità concerne le politiche locali, dalla mobilità, all’educazione, la lotta all’esclusione, la salute, l’alimentazione e agricoltura: tutti settori chiave per accompagnare il cambio di paradigma verso una società nuova. La terza priorità è l’investimento nell’innovazione sociale “verde”; dalla sfida digitale alla ricerca mirata a offre soluzioni sostenibili e accessibili in una società sempre più divisa e ineguale. Nessuna di queste proposte è irrealista o utopica. Quello che da qui a giugno sarà necessario fare, anche attraverso il monitoraggio dei progetti presentati a livello nazionale e un duro lavoro legislativo sulla definizione dei criteri di attribuzione, è fare in modo che le proposte del Piano Verde possano trovare uno spazio di discussione e di reale applicazione. E’ una delle sfide dei prossimi mesi.

Quali politiche per uscire dalla crisi? Intervista a Paolo Guerrieri

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Inizia oggi un ciclo di tre interviste a tre autorevoli economisti italiani sulla necessità e sulla possibilità di mettere in campo politiche economiche per il superamento dell’attuale crisi. Cominciamo con Paolo Guerrieri, Professore Ordinario di Economia all’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”.
D. Le questioni dello sviluppo e delle politiche industriali vanno crescendo d’importanza nel dibattito  politico, anche in relazione al permanere di una situazione economica molto pesante. Le parole “politiche keynesiane” sono tornate ad avere una ragion d’essere.
E’ un passaggio positivo ma del tutto insufficiente e c’è il rischio che, come per la parola “riforma”, anche in questo caso ognuno intenda qualcosa di diverso da quello che intende un altro .
Vogliamo incominciare cercando una breve definizione di questa politica keynesiana letta ed interpretata alla luce della situazione nazionale attuale?
R. La riscoperta di Keynes e delle politiche keynesiane è avvenuta a seguito della Grande crisi e del clamoroso fallimento delle politiche ortodosse neoliberiste. Keynes va oggi reinterpretato  alla luce della fase peculiare in corso che per l’intera area più avanzata – anche se l’area Euro presenta sue specificità su cui possiamo poi tornare – comporta una crescita nettamente inferiore alle medie del passato (anche negli Usa), unita alla prospettiva di un vero e proprio ristagno a medio termine. Si è aperta una fase di interregno per l’economia mondiale, dagli sbocchi tuttora aperti e incerti, che rischia di produrre per svariati anni stagnazione  ed elevata disoccupazione in tutta l’area avanzata. Lo sostengono ormai anche molte Organizzazioni ufficiali che parlano apertamente del rischio di un ‘ristagno secolare’.
Le cause di tutto ciò sono molteplici, domestiche e internazionali allo stesso tempo, ed è importante rilevare che hanno natura ciclica e strutturale. Con un flash si può sintetizzare che negli ultimi due decenni si è determinata una svolta epocale – accelerata dalla crisi – verso una economia mondiale tripolare. Essa è caratterizzata dalla presenza, oltre all’asse euro-americano, di un terzo polo rappresentato dall’Asia del Pacifico, in primo luogo dalla Cina, che ha reso molto più difficile garantire una dinamica di crescita elevata e sostenibile a livello mondiale come avvenuto nei decenni passati a causa del passaggio da un paradigma di modello di crescita ad un altro profondamente diverso. I sistemi capitalistici nazionali stanno riscontrando forti difficoltà ad adattarvisi, rivelando la loro incapacità di tornare a produrre elevato reddito e piena occupazione.
La terapia da applicare per evitare un prolungato ristagno dell’attività economica globale richiede pertanto nuove strategie di politica economica oltre il keynesismo di stampo tradizionale: un insieme di interventi in grado di fronteggiare contemporaneamente sia la debole domanda aggregata sia il deficit d’offerta. In altri termini, la grande sfida è la simultanea realizzazione di un mix di politiche di domanda di stampo keynesiano e di politiche in grado di agire dal lato dell’offerta, non in senso neoclassico ma ispirate alla visione Schumpeteriana dello sviluppo, come cambiamento strutturale trainato dal rilancio di investimenti pubblici e privati. Solo mettendo in campo queste rinnovate strategie di investimenti a medio lungo termine sarà possibile rilanciare la crescita delle aree più importanti e, attraverso essa, rispettare i vincoli, sempre più stringenti, derivanti dal necessario consolidamento dei debiti pubblici.
Per ora, purtroppo, siamo ben lontani da tutto ciò: negli Stati Uniti, da un lato, si propongono politiche monetarie espansive ‘non convenzionali’ (“quantitative easing”) mentre in Europa, dall’altro, si praticano ottuse politiche di austerità o restrizione della spesa generalizzate. È evidente che le prime – per quanto utili  a stimolare i consumi e in grado comunque di favorire una ripresa – sono destinate a scontrarsi con i vincoli d’offerta e la debolezza degli investimenti, mentre le seconde non possono che aggravare le tendenze recessive.
Il risultato è la trappola in cui siamo oggi imprigionati a livello domestico e internazionale: da un lato, il mercato lasciato a se stesso non è in grado di generare un’adeguata domanda; dall’altro, la necessaria ristrutturazione dell’offerta non riesce a dispiegarsi in assenza di una sufficiente domanda che la sorregga e renda conveniente. Da qui discendono le previsioni di un prolungato ristagno domestico e globale di tutta l’area più avanzata.
D. Dunque un piano di finanziamenti pubblici – tali da agevolare anche il finanziamento privato ma senza attenderli – in grado di correggere i difetti e le difficoltà del sistema economico. Questi interventi possono rispondere quindi a due esigenze di partenza:  quantitative e/o qualitative. Nel caso del nostro paese le esigenze riguardano entrambi gli aspetti dal momento che si è verificato un calo molto forte degli investimenti, ma anche al fatto che sino a pochi anni fa i nostri investimenti industriali erano del tutto in linea e spesso superiori a  quelli dei paesi nostri partner, ma con esiti, sul piano della competitività e dell’occupazione, del tutto insufficienti. Un esito qualitativo che sarebbe da evitare accuratamente
Se questo è il quadro – e prima ancora di arrivare alle questioni del reperimento delle risorse finanziarie necessarie – quali sono i presupposti o i problemi preliminare da risolvere per attuare una politica di investimenti necessariamente selettiva e, quindi, nelle direzioni conseguenti ? . E queste direzioni si possono già indicare in termini ancora generali e quali potrebbero essere? O, forse, è più corretto iniziare indicando le condizioni che occorre rispettare per rendere efficaci quelle scelte e quindi quegli investimenti ?
In sostanza poiché non è automatico in una economia aperta ed integrata, sviluppare la crescita e insieme l’occupazione, aumentando la domanda interna,  come occorre attrezzarsi e prepararsi?
R. Tra gli effetti della grande crisi globale, che sono ben lungi dall’essere stati riassorbiti, vi è l’accelerato ridisegno della mappa delle produzioni a livello mondiale, che va avanti dalla metà degli anni Novanta, sospinto da una grande rivoluzione tecnologica e dall’ingresso di nuovi paesi competitori, soprattutto dall’Asia del Pacifico.
È evidente che per rilanciare stabilmente la crescita nell’area più avanzata non sarà sufficiente produrre ciò che risultava profittevole prima della crisi. I cambiamenti tecnologici in corso, la problematica ambientale e l’ascesa dei paesi emergenti spingono a riallocare le risorse verso nuovi prodotti e settori che siano in grado di soddisfare bisogni privati e pubblici di gamma medio-alta. E’ per questo che a interventi di stampo keynesiano tradizionale, in grado di agire sulla domanda di consumo, andrebbero affiancate – come si è detto – misure volte a fronteggiare i problemi di struttura dell’offerta produttiva lasciati in eredità dalle debolezze del modello di sviluppo prevalso nei due decenni antecedenti la crisi e aggravati dalla crisi stessa.
In altre parole, per tutte le economie avanzate – inclusa l’Italia – lasciarsi alle spalle le conseguenze della grande crisi e rispondere alle sfide dell’economia multipolare significa promuovere investimenti pubblici e privati in aree in grado di agire come “nuovi motori della crescita”,  in comparti quali le  infrastrutture materiali e immateriali, ricerca di base e applicata, tecnologie digitali, energie rinnovabili, sanità, istruzione.
Tali tecnologie, che hanno carattere pervasivo, incidono non solo su cosa si produce ma anche su come lo si produce e richiedono quindi mutamenti profondi nella organizzazione delle imprese e nel funzionamento dei mercati dei fattori. Questo spiega il formidabile contributo che queste tecnologie a diffusione orizzontale possono apportare alla crescita della produttività di tutte le economie avanzate. Si tratta di una constatazione rilevante, soprattutto nell’ ottica del nostro paese, per rispondere alla domanda di come resistere alla competizione dei paesi emergenti che producono, a costi infinitamente più bassi, i beni che per decenni abbiamo prodotto noi. Il sentiero che ci può condurre a una nuova fase di crescita sostenuta e stabile passa in effetti da questi sforzi di ristrutturazione.
Tutto ciò comporta riaffermare quel delicato giusto equilibrio tra mercati e fornitura di beni pubblici che è alla base dell’efficiente funzionamento di un’economia di mercato orientata alla crescita. Un equilibrio che negli ultimi decenni la fase del liberismo ideologico e della globalizzazione senza regole ha spezzato, generando crescenti instabilità, disuguaglianze e una eccessiva concentrazione del potere economico e finanziario nelle mani di una ristretta élite.
È necessario ristabilirlo promuovendo nuove politiche di intervento del tipo prima delineato. Solo mettendo in campo queste rinnovate strategie sarà possibile rilanciare la crescita globale e cominciare a ridurre le disuguaglianze e, attraverso essa, rispettare i vincoli, sempre più stringenti, derivanti dal necessario consolidamento dei debiti pubblici. Solo un ritorno alla creazione di ricchezza e occupazione può in effetti assicurare nell’area avanzata il graduale riassorbimento dell’eccesso di debiti esistente.
D. Dopo la stagione “poco fortunata” delle riforme del mercato del lavoro,  si stanno cercando cause più convincenti e dimostrabili del nostro declino, un processo negativo che nasce e si protrae da ben prima della crisi internazionale. Anche il recupero recente di un valore positivo della nostra bilancia commerciale è il frutto di una riduzione delle nostre importazioni, più che di un aumento delle esportazioni. La nostra scarse e calante competitività, che ormai viene chiamata in causa per giustificare le riforme, secondo te da cosa dipende?  E come andrebbe combattuta?
R. Vi sono molteplici fattori alla base delle grave perdurante crisi italiana, che ha assunto ormai da tempo le caratteristiche di un graduale ma drammatico declino. Molti di essi sono di antica data, in quanto legati a problemi strutturali che affliggono da tempo l’economia italiana. Il dato negativo che in qualche modo li riflette e sintetizza tutti è rappresentato dal ristagno della produttività in Italia, in particolare della cosiddetta produttività totale dei fattori. Esso ha mostrato, soprattutto nell’ultimo decennio, un andamento particolarmente negativo nel caso dell’Italia, soprattutto se comparato ad altri paesi. Ne consegue che solo un deciso miglioramento del trend della produttività italiana nei prossimi anni potrà consentire di rilanciare la crescita e innalzarne la dinamica futura.
A questo fine serviranno sia riforme importanti all’interno in grado di rimuovere le rigidità strutturali prima ricordate, sia un deciso miglioramento della congiuntura europea e internazionale.
Sul primo versante – ovvero gli interventi per rimuovere i fattori strutturali che frenano la crescita della nostra economia –  è necessario mettere in campo una molteplicità di interventi che interessano due ambiti ugualmente rilevanti e strettamente intrecciati. Da un lato le politiche volte a rendere più efficiente e modernizzare l’ambiente esterno in cui il sistema produttivo e le imprese operano creando adeguate positive esternalità di contesto (infrastrutture materiali e immateriali, organizzazione pubblica amministrativa, approvvigionamenti energetici e così via). Dall’altro, le misure volte a incidere direttamente sulla vita delle imprese per superare le debolezze esistenti (ridotta dimensione, diversificazione tecnologico-produttiva, organizzazione e innovazione, internazionalizzazione, servizi, mercato del lavoro).
In questo secondo caso ci troviamo di fronte a una vera e propria emergenza. E’ in corso una sorta di profonda erosione della nostra base industriale. Dall’inizio della crisi l’Italia ha perso il 15% della base manifatturiera e il 25% della produzione industriale. Cercare di fermarla è fondamentale per agganciare la ripresa europea. Per quanto riguarda il sistema produttivo  significa intervenire su due ordini di fattori: dimensioni troppo piccole delle nostre imprese e specializzazioni inadeguate di questo comparto a causa di una debole presenza nelle aree geografiche più dinamiche e nelle attività a più elevate opportunità tecnologiche.
Sono necessarie in primo luogo politiche, soprattutto industriali, rivolte alla produzione e alla ricerca che aiutino le nostre imprese ad aggregarsi, a innovare, a internazionalizzarsi. E’ vero che in questi anni si è verificato un deciso rafforzamento della presenza di imprese italiane, soprattutto quelle di media dimensione, sui mercati interni e internazionali. Si è trattato, tuttavia, di un processo di ristrutturazione del tutto spontaneo e privo del  sostegno di politiche economiche e industriali in grado di guidarlo e consolidarlo. I suoi effetti complessivi sono stati così limitati. Il gruppo di imprese di successo, per quanto in crescita, non è abbastanza numeroso per compensare le performance negative di quell’elevatissimo numero di piccole e piccolissime unità che sono troppo fragili e sottocapitalizzate per affrontare positivamente le nuove sfide dei mercati globali.
Riguardo a questo gruppo di imprese in difficoltà, bisognerebbe soprattutto promuovere con politiche adeguate i cambiamenti strutturali necessari per affrontare con successo la concorrenza futura, che vanno avviati subito anche se avranno effetti inevitabilmente differiti nel tempo. Ne fanno parte a pieno titolo i cosiddetti ‘nuovi motori’ della crescita e dell’occupazione, di cui abbiamo parlato prima. L’occasione da cogliere è quella di colmare vistosi ritardi della nostra economia rispetto agli altri paesi avanzati indirizzando lo sviluppo in nuove direzione, più improntate a fattori quali la ‘conoscenza’ e la sostenibilità.
Ora, la complessità dei problemi da fronteggiare richiederebbe di inserire gli interventi richiesti – pur rimanendo ben all’interno di una logica di mercato –  in un disegno complessivo unitario di politica economica ed industriale, dall’orizzonte pluriennale in grado di assicurare coerenza interna e efficacia a lungo termine di tali interventi.  Uno sforzo che è reso ancor più necessario dalla scarsità delle risorse finanziarie pubbliche disponibili. E’ proprio questa visione d’insieme e di medio periodo dei problemi da affrontare, tuttavia, che è sempre mancata nell’azione degli ultimi Governi in questi ultimi due anni e mezzo e che continua a destare anche oggi le maggiori preoccupazioni visto il perdurare dei fattori di crisi.
D. A  fronte della crisi e delle difficoltà nella costruzione dell’Unione europea – a parte i distruttori dell’Unione – molti si rivolgono verso ipotesi di una maggiore integrazione,  incominciando dalla politica finanziaria, dalle politiche per l’occupazione, da una ancora incerta interpretazione della flessibilità dei vincoli di bilancio.
Ma in linea generale le difficoltà dell’Unione stanno anche e in buon misura nei divari economici e sociali esistenti tra paesi che traducono storie molto diverse. Una  maggiore ampiezza delle politiche comunitari attraverso la sola flessibilità, se non prevede e non indica esplicitamente il superamento di questi divari, potrebbe non avere alcun effetto positivo, ma potrebbe, invece, riprodurre e, forse, accrescere quelle divergenze. L’esperienza del nostro Mezzogiorno dovrebbe farci riflettere. Se poi quegli obiettivi del superamento dei divari nello dello sviluppo non vengono nemmeno espressi, sembra difficile indicare quali strumenti e quali riforme dovrebbero portare a quello sviluppo che, a parole, sembra che nessuno intenda negare. Secondo te è in questo senso che occorre interpretare le parole del nostro Primo Ministro quando afferma che le riforme le dobbiamo fare noi e non perché ce le domanda l’Unione? E quali riforme rispondono maggiormente a questo obiettivo?
R. Se tornare a crescere rende necessario per l’Italia un percorso di riforme unite a una nuova strategia di politiche industriali  attraverso uno sforzo che deve durare nel tempo – come si è detto prima -, è altrettanto evidente che fare bene i ‘compiti a casa’ non sarà sufficiente. L’interazione con l’Europa e l’area dell’Euro, in particolare, è fondamentale perché l’Italia possa ritrovare un sentiero di crescita sostenuta e duratura. Un’Europa, tuttavia, diversa, da quella manifestatasi in questi ultimi anni: un’area in profonda crisi e sempre più divisa fra paesi creditori e debitori, e che ha visto aumentare disoccupazione, disuguaglianze e povertà.
La crisi dell’euro – com’è noto – è parte di una crisi finanziaria globale, ma è soprattutto il risultato dell’applicazione di una terapia di stretta ortodossia neoclassica – le politiche restrittive cosiddette di austerità –  legata a una diagnosi altrettanto tradizionale, in cui la causa scatenante la crisi è rinvenuta nell’eccesso di debiti pubblici, frutto delle irresponsabilità fiscali dei singoli paesi più indebitati. Ma non era così – com’ è poi stato riconosciuto da molti – dal momento che le vere cause furono la crisi del sistema bancario europeo e l’eccesso di indebitamento privato, resi ingestibili dalle debolezze istituzionali e di sistema dell’Unione monetaria.
La diagnosi inadeguata ha portato a prescrivere alla maggioranza dei paesi dell’euro politiche restrittive all’insegna dell’austerità che li hanno spinti in un circolo vizioso, in cui aumenti di tasse e riduzioni di spesa pubblica – un po’ ovunque nei paesi della periferia – hanno depresso il reddito prodotto e fatto salire il rapporto Debito/PIL. Se dovesse continuare la cura ortodossa –  e a breve non si profilano ricette alternative – la prospettiva oggi più realistica è un prolungato ristagno deflazionistico per molti paesi europei, stile Giappone anni ‘90, con tassi di crescita di poco superiori allo zero e elevatissima disoccupazione.
Uno scenario macroeconomico così preoccupante verrebbe accompagnato da un ampliamento della distanza che separa oggi i paesi forti (Germania, Austria e Olanda in primo luogo) da quelli deboli (economie dell’area meridionale, inclusa quella italiana). Sono aspetti che si intrecciano tra loro. Bisogna tener conto, infatti, che il ristagno è anche il riflesso di un modello di crescita che in molti paesi – innanzitutto in Germania – è trainato per lo più dall’export e dalla domanda esterna. È un modello che, necessariamente, assume le connotazioni di un gioco a somma zero: alcune economie dell’area euro ne traggono beneficio (in testa la Germania) mentre altre vengono penalizzate (soprattutto i paesi della periferia dell’eurozona).
Per uscire da questa trappola del ristagno e della deflazione, un’alternativa, in realtà, esiste. Il sostegno alla crescita europea è oggi un problema di supporto alla domanda e allo stesso tempo di necessaria ristrutturazione dell’offerta. Un nuovo ciclo di sviluppo sostenibile nell’area europea richiede a medio termine significativi incrementi della produttività, che a loro volta richiedono una forza lavoro più istruita e competente, un contesto produttivo più favorevole all’innovazione tecnologica e alle energie rinnovabili, riduzione delle disuguaglianze e rinnovata equità nella distribuzione del reddito, infrastrutture materiali e immateriali più efficienti.  Per realizzarle servono in Europa sostegni alla domanda – come abbiamo già detto – attraverso investimenti a medio e lungo termine, pubblici e privati, in tutta una serie di comparti (istruzione, ricerca, scienze della vita, digitalizzazione, mobilità sostenibile, e altre) che unite a riforme strutturali nei singoli paesi possono trasformarsi in nuovi motori della crescita sostenibile.
Allo stesso tempo tra gli strumenti chiave d’intervento devono figurare in primo piano meccanismi a livello europeo che sappiano ripartire più simmetricamente di quanto avvenuto fin qui gli oneri di aggiustamento tra paesi in deficit e paesi in surplus; e, poi, servono investimenti europei in infrastrutture e settori a rete, che si possono finanziare sia attraverso il bilancio comunitario, nel nuovo quadro finanziario pluriennale, sia attraverso la Banca Europea per gli investimenti (Bei) e i project bond.
Uno scenario alternativo è dunque configurabile, ma si deve imperniare su un mix di politiche più equilibrato e in grado di rilanciare la crescita e l’integrazione delle economie europee. Solo in questo modo si può pensare di colmare l’esistente gap tra Nord e Sud in Europa. Il che comporta più Europa, dunque, che significa più integrazione economica e, a medio-lungo termine, unione politica. Va in effetti riconosciuto che in Europa gli Stati nazione non hanno più gli strumenti per fronteggiare la crisi e governare le loro economie, perché sono troppo piccoli nella nuova economia-mondo. E salvaguardare e rilanciare il modello sociale e democratico europeo sarà possibile solo in un’ottica europea. Per questo è importante – oltre alle misure economiche – un rafforzamento anche dei meccanismi democratici e rappresentativi.
D. L’ultima domanda si riferisce alla questione delle risorse finanziarie. Credo che su un aspetto quantitativo si è tutti d’accordo e cioè sul fatto che non avrebbe senso programmare una politica keynesiana dosandola con il contagocce. Investimenti calibrati in dosi omeopatiche equivarrebbero non ad un fallimento ma ad un fallimenti ed ad uno spreco insieme. Detto questo come e dove reperire le risorse necessarie ….?  
R. E’ certamente vero che una strategia di investimenti a medio e lungo termine a livello europeo e nazionale, come delineata fin qui, necessita di risorse finanziarie ingenti.  Ma non credo sia questo il vero ostacolo, perché tali risorse esistono e si possono trovare, volendolo.
A livello europeo, ad esempio, è possibile reperire nuove ingenti risorse sui mercati finanziari mediante un’ampia gamma di scelte, che vanno da emissioni obbligazionarie come gli euro-bond e gli euro-project ai fondi gestiti dalla Banca europea degli investimenti. Non dimentichiamo che il livello di indebitamento dell’Unione europea è pressoché zero e c’è una potenziale forte domanda di titoli in euro sui mercati internazionali.
Anche modifiche di regolamentazioni finanziarie europee, oggi vessatorie degli investimenti a medio e lungo termine e incentivanti la vista corta della speculazione finanziaria, potrebbero fornire significativi nuovi spazi finanziari. Tanto più che siamo in una fase di enorme liquidità e denaro a costi estremamente bassi o addirittura azzerati, e quindi estremamente favorevole per chi vuole indebitarsi per investire. Per realizzare tutto ciò serve naturalmente una volontà politica e un senso di condivisione di una prospettiva comune tra i paesi europei. Su entrambi i fronti l’Europa è oggi carente.
Anche a livello nazionale si potrebbero introdurre forme di golden rule negli accordi europei sulle politiche di consolidamento fiscale da realizzare, come il fiscal compact, così da concedere spazi di finanziamento per investimenti nazionali di tipo strategico e favorevoli al rilancio della crescita. Sono altresì realizzabili politiche di ricomposizione dei bilanci pubblici dei singoli paesi attraverso ristrutturazione della spesa pubblica (spending review) così da ridurre la spesa corrente in favore di più spese in conto capitale.
Nel caso specifico del nostro paese il finanziamento delle infrastrutture ha subito, a causa di risorse pubbliche scarse, un forte rallentamento tanto che nell’ultimo decennio la spesa per questo tipo di lavori è diminuita del 35%. Dal momento che la scarsità di risorse continuerà a caratterizzare con molta probabilità anche i prossimi anni, si possono  sperimentare e mettere in campo nuovi modelli per il finanziamento delle infrastrutture, in grado di attirare il risparmio ed i capitali privati di lungo periodo, come fondi pensione e assicurazioni vita.
Insomma, il problema del perché non si fanno gli investimenti necessari non deriva da una carenza di risorse finanziarie, che come ho ricordato si possono reperire in vari modi. Il problema ha natura politica. L’attuale contesto politico in Europa e nel nostro paese non è favorevole, per una molteplicità di ragioni, a forti incrementi di questo tipo di spese a lungo termine, sia pubbliche che private. Gruppi di interesse potenti e ben organizzati ostacolano la formulazione di tali misure e la loro realizzazione. Come aggirarli meriterebbe certamente ulteriori approfondite considerazioni ma mi fermo qui perché altrimenti questa intervista diventa davvero troppo lunga.

L’impero del consumo —  Eduardo Galeano

L’impero del consumo

Società dei consumi. La bocca è una delle porte dell’anima, dicevano gli antichi. Ma se da lì passa solo cibo spazzatura, la vita è ridotta a un insieme infinito di acquisti di merci usa e getta. E lo struscio domenicale nel centro delle città è sostituito dal pellegrinaggio negli shopping mall che accerchiano le periferie
Performance contro il consumismo a Natal, capitale del Rio Grande do Norte in Brasile
L’esplosione del con­sumo nel mondo di oggi fa più rumore della guerra e più bac­cano del car­ne­vale. Come dice un antico pro­ver­bio turco, chi beve a cre­dito si ubriaca due volte. La bisboc­cia ottunde e obnu­bila lo sguardo; e quest’enorme sbronza uni­ver­sale sem­bra non cono­scere limiti di spa­zio e di tempo. Ma la cul­tura del con­sumo risuona molto, come il tam­buro, per­ché è vuota; all’ora della verità, quando gli stre­piti si cal­mano e la festa fini­sce, l’ubriaco di sve­glia solo, con l’unica com­pa­gnia della sua ombra e dei piatti rotti che dovrà pagare. L’espandersi della domanda cozza con i limiti impo­sti dallo stesso sistema che la genera. Il sistema ha biso­gno di mer­cati sem­pre più aperti e ampi, come i pol­moni hanno biso­gno dell’aria, e al tempo stesso ha biso­gno che si ridu­cano sem­pre più, come in effetti accade, i prezzi delle mate­rie prime e il costo della forza lavoro umana. Il sistema parla in nome di tutti, a tutti dà l’imperioso ordine di con­su­mare, fra tutti dif­fonde la feb­bre degli acqui­sti; ma niente da fare: per quasi tutti quest’avventura ini­zia e fini­sce davanti allo schermo del tele­vi­sore. La mag­gio­ranza, che fa debiti per otte­nere delle cose, fini­sce per avere solo più debiti, con­tratti per pagare debiti che ne pro­du­cono altri, e si limita a con­su­mare fan­ta­sie che tal­volta poi diven­tano realtà con il ricorso ad atti­vità delittuose.
Il diritto allo spreco, pri­vi­le­gio di pochi, pro­clama di essere la libertà per tutti. Dimmi quanto con­sumi e ti dirò quando vali. Que­sta civiltà non lascia dor­mire i fiori, le gal­line, la gente. Nelle serre, i fiori sono sot­to­po­sti a illu­mi­na­zione con­ti­nua, per­ché cre­scano più velo­ce­mente. E la notte è proi­bita anche alle gal­line, nelle fab­bri­che di uova.
È un modo di vivere che non è buono per le per­sone, ma è ottimo per l’industria far­ma­ceu­tica. Gli Stati Uniti con­su­mano la metà dei seda­tivi, degli ansio­li­tici e delle altre dro­ghe chi­mi­che ven­dute legal­mente nel mondo, e oltre la metà delle dro­ghe proi­bite, quelle ven­dute ille­gal­mente. Non è cosa di poco conto, visto che gli sta­tu­ni­tensi sono appena il 5% della popo­la­zione mondiale.
«Gente infe­lice, che vive in com­pe­ti­zione», dice una donna nel bar­rio del Buceo, a Mon­te­vi­deo. Il dolore di non essere, un tempo can­tato nel tango, ha ceduto il posto alla ver­go­gna di non avere. Un uomo povero è un pover’uomo. «quando non hai niente pensi di non valere niente», dice un tipo nel bar­rio Villa Fio­rito, a Bue­nos Aires. Con­fer­mano altri, nella città domi­ni­cana di San Fran­ci­sco de Maco­rís: «I miei fra­telli lavo­rano per le mar­che. Vivono com­prando cose fir­mate, e but­tano san­gue per pagare le rate».
Invi­si­bile vio­lenza del mer­cato: la diver­sità è nemica del pro­fitto, e l’uniformità comanda. La pro­du­zione in serie, su scala gigan­te­sca, impone ovun­que i pro­pri obbli­ga­tori modelli di con­sumo. La dit­ta­tura dell’uniformizzazione è più deva­stante di qua­lun­que dit­ta­tura del par­tito unico: impone, nel mondo intero, un modo di vita che fa degli esseri umani foto­co­pie del con­su­ma­tore esemplare.

18 consumismo Eduardo_galeano

La dit­ta­tura del sapore unico

Il con­su­ma­tore esem­plare è l’uomo tran­quillo. Que­sta civiltà, che con­fonde la quan­tità con la qua­lità, con­fonde la gras­sezza con la buona ali­men­ta­zione. Secondo la rivi­sta scien­ti­fica «The Lan­cet», negli ultimi dieci anni l’«obesità severa» è cre­sciuta di quasi il 30% fra la popo­la­zione gio­vane dei paesi più svi­lup­pati. Fra i bam­bini nor­da­me­ri­cani, negli ultimi 16 anni l’obesità è cre­sciuta del 40%, secondo uno stu­dio recente del Cen­tro scienze della salute presso l’università di Colo­rado. Il paese che ha inven­tato i cibi e le bevande light, il diet food e gli ali­menti fat free, ha la mag­gior quan­tità di grassi del mondo. Il con­su­ma­tore esem­plare scende dall’automobile solo per lavo­rare e guar­dare la tivù. Quat­tro ore al giorno le passa davanti allo schermo, divo­rando cibi di plastica.
Trionfa la spaz­za­tura tra­ve­stita da cibo: quest’industria sta con­qui­stando i palati del mondo e fa a pezzi le tra­di­zioni culi­na­rie locali. Le buone anti­che abi­tu­dini a tavola, che si sono raf­fi­nate e diver­si­fi­cate magari in migliaia di anni, sono un patri­mo­nio col­let­tivo acces­si­bile a tutti e non solo alle mense dei ric­chi. Que­ste tra­di­zioni, que­sti segni di iden­tità cul­tu­rale, que­ste feste della vita, ven­gono schiac­ciate dall’imposizione del sapere chi­mico e unico: la glo­ba­liz­za­zione degli ham­bur­ger, la dit­ta­tura del fast-food. La pla­sti­fi­ca­zione del cibo su scala mon­diale, opera di McDonald’s, Bur­ger King e altre catene, viola con suc­cesso il diritto all’autodeterminazione dei popoli in cucina: un diritto sacro, per­ché la bocca è una delle porte dell’anima.
Il cam­pio­nato mon­diale di cal­cio del 1998 ci ha con­fer­mato, fra l’altro, che la Master­Card toni­fica i muscoli, la Coca-Cola porta l’eterna gio­vi­nezza e che il menù di McDonald’s non può man­care nella pan­cia di un buon atleta. L’immenso eser­cito di McDonald’s spara ham­bur­ger nella bocca di bam­bini e adulti del mondo intero. Il dop­pio arco di que­sta M è ser­vito da stan­dard, nella recente con­qui­sta dei paesi dell’Europa dell’Est. Le code davanti alla McDonald’s di Mosca, inau­gu­rata in pompa magna nel 1990, hanno sim­bo­leg­giato la vit­to­ria dell’Occidente con altret­tanta elo­quenza della demo­li­zione del Muro di Ber­lino. Segno dei tempi: quest’azienda, che incarna le virtù del mondo libero, nega ai suoi dipen­denti la libertà di orga­niz­zarsi in sin­da­cato. McDonald’s viola in tal modo un diritto legal­mente rico­no­sciuto nei molti paesi nei quali opera. Nel 1997, alcuni suoi lavo­ra­tori, mem­bri di quella che l’azienda chiama la Mac­fa­mi­glia, cer­ca­rono di sin­da­ca­liz­zarsi in un risto­rante di Mon­treal in Canada: il risto­rante chiuse. Ma nel 1998, altri dipen­denti di McDonald’s in una pic­cola città presso Van­cou­ver, riu­sci­rono nell’impresa, degna del Guin­ness dei primati.

Gli uni­ver­sali della pubblicità

Le masse con­su­ma­trici rice­vono ordini in un lin­guag­gio uni­ver­sale: la pub­bli­cità è riu­scita là dove l’esperanto ha fal­lito. Tutti capi­scono, ovun­que, i mes­saggi tra­smessi dalla tivù. Nell’ultimo quarto di secolo, gra­zie al fatto che nel mondo le spese per la pub­bli­cità si sono decu­pli­cate, i bam­bini poveri bevono sem­pre più Coca-Cola e sem­pre meno latte, e il tempo prima dedi­cato all’ozio sta diven­tando tempo di con­sumo obbli­ga­to­rio. Tempo libero, tempo pri­gio­niero: le case molto povere non hanno letti, ma hanno il tele­vi­sore, ed è que­sto a det­tar legge. Com­prato a rate, que­sto pic­colo ani­male prova la voca­zione demo­cra­tica del pro­gresso: non ascolta nes­suno, ma parla per tutti. Poveri e ric­chi cono­scono, in tal modo, le virtù dell’ultimo modello di auto­mo­bili, e poveri e ric­chi si infor­mano sui van­tag­giosi tassi di inte­ressi offerti da que­sta o quella banca.
Gli esperti sanno con­ver­tire le merci in stru­menti magici con­tro la soli­tu­dine. Le cose hanno attri­buti umani: acca­rez­zano, accom­pa­gnano, capi­scono, aiu­tano, il pro­fumo ti bacia e l’auto è un amico che non tra­di­sce mai. La cul­tura del con­sumo ha fatto della soli­tu­dine il più lucroso dei mer­cati. Le ferite del cuore si risa­nano riem­pien­dole di cose, o sognando di farlo. E le cose non pos­sono solo abbrac­ciare: pos­sono anche essere sim­boli di ascesa sociale, sal­va­con­dotti per attra­ver­sare le dogane della società clas­si­sta, chiavi che aprono le porte proibite.
Quanto più sono esclu­sive, tanto meglio è: le cose esclu­sive ti scel­gono e ti sal­vano dall’anonimato della folla. La pub­bli­cità non ci informa sul pro­dotto che vende, o lo fa poche volte. Quello è il meno. La sua fun­zione prin­ci­pale con­si­ste nel com­pen­sare fru­stra­zioni e ali­men­tare fan­ta­sie: in chi ti vuoi tra­sfor­mare com­prando que­sta crema da barba?
Il cri­mi­no­logo Anthony Platt ha osser­vato che i delitti nelle strade non sono solo frutto della povertà estrema, ma anche dell’etica indi­vi­dua­li­sta. L’ossessione sociale del suc­cesso, dice Platt, incide in modo deci­sivo sull’appropriazione ille­gale delle cose altrui. Ho sem­pre sen­tito dire che il denaro non fa la feli­cità; ma qua­lun­que tele­di­pen­dente ha motivo di cre­dere che il denaro pro­duca qual­cosa di tanto simile alla feli­cità, che fare la dif­fe­renza è cosa da spe­cia­li­sti.
Secondo lo sto­rico Eric Hob­sbawm, il XX secolo ha messo fine a set­te­mila anni di vita umana cen­trata sull’agricoltura , da quando nel paleo­li­tico appar­vero le prime forme di col­ti­va­zione. La popo­la­zione mon­diale si con­cen­tra nelle città, i con­ta­dini diven­tano cit­ta­dini. In Ame­rica latina abbiamo campi senza per­sone ed enormi for­mi­cai umani urbani: le più grandi città del mondo, e le più ingiu­ste. Espulsi dalla moderna agri­col­tura per l’export, e dal degrado dei suoli, i con­ta­dini inva­dono le peri­fe­rie. Cre­dono che Dio sia ovun­que, ma per espe­rienza sanno che abita nei grandi cen­tri. Le città pro­met­tono lavoro, pro­spe­rità, un avve­nire per i loro figli. Nei campi, si guarda la vita pas­sare e si muore sba­di­gliando; nelle città la vita scorre, e chiama. Poi, la prima cosa che i nuovi arri­vati sco­prono, ammuc­chiati nelle cata­pec­chie, è che manca il lavoro e le brac­cia sono troppe, che niente è gra­tis e che gli arti­coli di lusso più cari sono l’aria e il silenzio.
Agli inizi del secolo XIV, frate Gior­dano da Rivalta pro­nun­ciò a Firenze un elo­gio delle città. Disse che cre­sce­vano «per­ché le per­sone amano stare insieme». Stare insieme, incon­trarsi. Ma adesso, chi si incon­tra con chi? E la spe­ranza, si incon­tra con la realtà? Il desi­de­rio, si incon­tra con il mondo? E la gente, si incon­tra con la gente? Se i rap­porti umani si sono ridotti a rap­porti fra le cose, quanta gente si incon­tra con le cose?

La mino­ranza compradora

Il mondo intero tende a diven­tare un grande schermo tele­vi­sivo, dal quale le cose si guar­dano ma non si toc­cano. Le mer­can­zie in offerta inva­dono e pri­va­tiz­zano gli spazi pub­blici. Le sta­zioni di pull­man e treni, che fino a poco tempo fa erano spazi di incon­tro fra le per­sone, si stanno tra­sfor­mando in spazi commerciali.
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Lo shop­ping cen­ter, o shop­ping mall, vetrina di tutte le vetrine, impone la sua abba­gliante pre­senza. Le masse accor­rono, in pel­le­gri­nag­gio, a que­sto grande tem­pio della messa del con­sumo. La mag­gio­ranza dei devoti con­tem­pla, in estasi, oggetti che il por­ta­fo­glio non può pagare, men­tre la mino­ranza com­pra­dora risponde al bom­bar­da­mento inces­sante ed este­nuante dell’offerta. La folla che sale e scende dalle scale mobili viag­gia nel mondo: i mani­chini sono vestiti come a Milano o Parigi e le auto­mo­bili hanno lo stesso suono che a Chi­cago, e per vedere e ascol­tare non occorre pagare il biglietto. I turi­sti che ven­gono dai vil­laggi dell’interno, o dalle città che non hanno ancora meri­tato que­ste bene­di­zioni della moderna feli­cità, posano per una foto, davanti alle mar­che inter­na­zio­nali più famose, come un tempo posa­vano ai piedi della sta­tua a cavallo nella piazza. Bea­triz Solano ha osser­vato che gli abi­tanti delle peri­fe­rie vanno allo shop­ping cen­ter come prima anda­vano in cen­tro. Il tra­di­zio­nale stru­scio di fine set­ti­mana al cen­tro della città tende a essere sosti­tuito dalle escur­sioni a que­sti cen­tri. Lavati e pet­ti­nati, con indosso gli abiti migliori, i visi­ta­tori ven­gono a una festa dove non sono invi­tati, ma dove pos­sono essere spet­ta­tori. Intere fami­glie fanno il viag­gio nella navi­cella spa­ziale che per­corre l’universo del con­sumo, nel quale l’estetica del mer­cato ha dise­gnato un pae­sag­gio allu­ci­nante di modelli, mar­che ed etichette.
La cul­tura del con­sumo, cul­tura dell’effimero, con­danna tutto alla desue­tu­dine media­tica. Tutto cam­bia al ritmo ver­ti­gi­noso della moda, messa al ser­vi­zio della neces­sità di ven­dere. Le cose invec­chiano in un baleno, per essere sosti­tuite da altre che avranno una vita altret­tanto fugace. L’unica cosa che per­mane è l’insicurezza; le merci, fab­bri­cate per­ché durino poco, sono vola­tili quanto il capi­tale che le finan­zia e il lavoro che le pro­duce. Il denaro vola alla velo­cità della luce; ieri era là, adesso è qua, domani chissà, e ogni lavo­ra­tore è un poten­ziale disoc­cu­pato. Para­dos­sal­mente, gli shop­ping cen­ters, sovrani della fuga­cità, offrono l’illusione di sicu­rezza più effi­cace. Resi­stono infatti fuori dal tempo, senza età né radici, senza notte né giorno né memo­ria, ed esi­stono fuori dallo spa­zio, al di là delle tur­bo­lenze della peri­gliosa realtà del mondo.

I nuovi idoli

I padroni del mondo lo usano come se fosse un usa e getta: una merce dalla vita effi­mera, che si esau­ri­sce come si esau­ri­scono, quasi appena nate, le imma­gini spa­rate dalla mitra­glia­trice della tivù e le mode e gli idoli che la pub­bli­cità lan­cia inces­san­te­mente sul mer­cato. Ma in quale altro mondo potremmo andare? Siamo tutti obbli­gati a cre­dere che Dio abbia ven­duto il pia­neta a un certo numero di imprese, per­ché essendo di cat­tivo umano ha deciso di pri­va­tiz­zare l’universo?
La società dei con­sumi è una trap­pola esplo­siva. Chi ne ha le redini fa finta di igno­rarlo, ma chiun­que abbia gli occhi può vedere che la grande mag­gio­ranza delle per­sone con­suma poco, poco o niente neces­sa­ria­mente, così da garan­tire l’esistenza della poca natura che ci rimane. L’ingiustizia sociale non è con­si­de­rata un errore da cor­reg­gere, né un difetto da supe­rare: è una neces­sità essen­ziale. Non c’è natura capace di ali­men­tare uno shop­ping cen­ter delle dimen­sioni del pianeta.
* Tratto dal sito www​.apor​rea​.org
Trad. di Mari­nella Correggia

giovedì 2 aprile 2015

Coscienza e responsabilità di G. Zagrebelsky ( Presidente Libertà e Giustizia )

Coscienza e responsabilità

25 febbraio 2015 
Gustavo Zagrebelsky
Zag
 (tempo esecutivo) Viviamo un tempo esecutivo. “L’esecutivo” vorrebbe tutto. “Il legislativo” e “il giudiziario” dovrebbero essere nulla. Se vogliono contare qualcosa, sono d’impiccio. Il loro dovere è di adeguarsi, di allinearsi, di mettersi in riga. L’esecutivo deve “tirare diritto” alla meta, cioè deve “fare”, deve “lavorare” (e più non domandare). Il legislativo e il giudiziario, se non “si adeguano”, costringono a rallentamenti, deviazioni, ripensamenti, fermate: cose che sarebbero normali e necessarie, nel tempo degli equilibri costituzionali; che sono invece anomalie dannose, nel tempo esecutivo.

(tempo non politico) Il tempo esecutivo è anche, e innanzitutto, un tempo in cui la politica è messa in disparte. Chi parla di politica è sospettato d’ideologia. La politica è innanzitutto discussione e scelta dei fini in comune. Detto diversamente, è l’attività sociale che riguarda la visione e la progettazione ideale della vita collettiva cui segue l’azione per realizzarla. Il tempo esecutivo annulla il discorso sui fini e si concentra sui soli mezzi. Concentrarsi sui soli mezzi significa assumere come dato indiscutibile ciò che c’è, l’esistente, il presente. Il fine unico del momento esecutivo è la necessità che obbliga.

Le parole seduttive e di per sé vuote come “innovazione”, “riforme”, “modernizzazione”, “crescita” sono parole non di libertà, ma di necessità, necessità che non lascia spazio alla scelta del perché, ma solo del percome. Gli esecutivi del tempo attuale dove dominano gli interessi finanziari, nelle posizioni-chiave sono occupati da uomini d’affari e di finanza perché essi, con tutti i mezzi, anche con i più amari per i cittadini e per le loro condizioni di vita, devono essere garanti di assetti ed equilibri che s’impongono perentoriamente come se fossero fatalità. Sono anch’essi, a modo loro, vittime della necessità. Le varianti consentite sono nei dettagli marginali, con riguardo cioè ai modi più efficaci per garantire gli assetti e, quando occorre, per determinare chi siano le vittime preferenziali  di questa fatalità.

(tempo tecnico) Il tempo esecutivo e non  politico è anche tempo della tecnica che soppianta la politica. Gli esecutivi “tecnici” che, in forma più o meno esplicita, hanno preso piede negli ultimi decenni non sono anomalie, ma conseguenze funzionali a questo stato di cose che è il mantenimento dello status quo o, come anche è stato detto, la dittatura del presente che si autoriproduce e aspira a crescere sempre di più su se stessa.

La tecnica è in sé, per sua natura, conservatrice. Essa è riparatrice o, eventualmente, amplificatrice dell’esistente, ma non modificatrice o trasformatrice. Quando si richiede l’intervento di un tecnico su un manufatto, ciò è per ripararlo in caso di guasto o per potenziarne le possibilità, non certo per cambiarlo. La stessa cosa è per la tecnica che prende il posto della politica. Infatti, i governi tecnici (e quelli che, in mancanza di discorsi sui fini, dietro le apparenze si riducono a essere tali) sono quelli che affrontano i problemi del reggimento della società con lo sguardo rivolto ai guasti e alle difficoltà che si determinano nei rapporti sociali, agli inceppamenti nei meccanismi, agli scompensi che minano la stabilità del sistema sociale.

Se si pongono questioni di giustizia, non è in vista di riforme sociali, come quelle programmaticamente indicate dalla Costituzione, ma è solo per dare sfogo alla pressione delle ingiustizie quando diventano pericolose per la stabilità degli equilibri che devono essere preservati. Si può facilmente constatare la connessione che naturalmente si crea tra i governi tecnici e l’occultamento della politica. C’è una coerenza, ma una coerenza inquietante.

(nichilismo politico) Lo schiacciamento sulla perpetuazione del presente coincide con l’assenza di discorsi sui fini, condannati a priori come irresponsabili o, nella migliore delle ipotesi, come vaneggiamenti impossibili. Una delle espressioni più in uso e più violentatrici della politica è “non ci sono alternative”. Non ci si accorge che chi soggiace alla forza intimidatrice di quest’espressione si fa sostenitore di nichilismo politico, la forma più perfetta di anti-politica conservatrice: dittatura del presente, cioè conservazione non per adesione a un valore scelto a preferenza di altri, ma per subalternità al fatto stesso dell’esistere. Del nichilismo politico, il corollario è la tecnocrazia: i tecnocrati rifuggono da ogni discorso sui fini che bollano come “ideologia”, come se il loro realismo cinico non sia esso stesso un (altra) ideologia.

(banalità) Il nichilismo è il regno del nulla. Poiché la vita pubblica si alimenta con la “comunicazione”, si comunica il nulla. O, meglio: si comunicano le misure tecniche, e con molta enfasi. Ma le idee politiche svaniscono entro un linguaggio allusivo che non ha nulla di politico, un linguaggio che fa sembrare tutto semplice, sol che i fautori del fare siano lasciati liberi di agire “avanti tutta”, con il turbo, per cambiare verso, per cogliere la volta buona di “fare la propria parte”. Così, in assenza di discorsi effettivamente politici, i contrasti vengono ridotti alla contrapposizione tra il voler fare e il volere impedire di fare, il che è un modo efficace per chiudere l’ingresso nella discussione pubblica della questione dei fini, cioè delle idee propriamente politiche. Il tempo tecnico è il tempo delle banalità politiche e, parallelamente, dei “politici” banali.

(antidemocrazia) La politica, per gli Antichi, era l’arte del buon governo: il buon politico era colui che conosceva le regole pratiche della sua azione, come il buon flautista conosce le regole della musica; il medico, della medicina; il tessitore, della tessitura; il timoniere, della navigazione. La politica, per i Moderni, è un’altra cosa: è innanzitutto confronto e competizione tra visioni diverse della società, cui segue – segue per conseguenza – l’azione tecnico-esecutiva.

Solo questa concezione della politica è compatibile con la visione costituzionale della democrazia, cioè con il pluralismo delle idee e il libero dibattito tra chi se ne fa portatore, l’organizzazione delle opinioni in partiti e movimenti politici, il rispetto dei diritti di tutti e specialmente delle minoranze, le libere elezioni, il confronto tra maggioranza e opposizione, la possibilità riconosciuta all’opposizione di diventare maggioranza secondo regole elettorali imparziali. Questi elementi minimi, costitutivi della democrazia, si svuotano di significato, quando il governo delle società è conservazione attraverso misure tecniche.

Le forme della democrazia possono anche non essere eliminate ma, allora, la sostanza si restringe e rinsecchisce, come un guscio svuotato. Le idee generali e i progetti si inaridiscono; i partiti si cristallizzano attorno alle loro oligarchie interessate principalmente a insediarsi nel potere senza sapere a quale scopo diverso da potere stesso, in ciò assomigliandosi sempre di più; il conformismo politico alimenta il cosiddetto pensiero unico e il pensiero unico alimenta a sua volta il conformismo politico; le alternative politiche diventano illusorie perché i governi operano a sovranità limitata e agiscono, come s’è detto, “col pilota automatico”. La competizione tra i partiti solo illusoriamente ha una posta politica. In realtà si trasforma in lotta per ottenere posti.

La capacità di rappresentare la società si riduce, mentre il distacco tra i cittadini e le loro condizioni di vita, da un lato, e le istituzioni dall’altro, aumentano. Il termometro di questa malattia della democrazia è il discredito che colpisce le forze politiche e il crescente astensionismo elettorale. Il difetto di rappresentanza alimenta un sordo rancore di cui si farebbe molto male a sottovalutare il potenziale antidemocratico.

(dittatura del presente) Quando si denuncia il deficit di democrazia si vuole riassumere il rattrappimento della vita pubblica sull’esistente, presentato come unica possibilità, cioè – per usare uno slogan – come “dittatura del presente”. Per usare un terribile linguaggio filosofico, l’ente viene presentato e imposto come se fosse l’essere, e l’essere è ciò che necessariamente è. Tutto il resto, tutto ciò che non vi rientra, nel caso migliore è bollato come futilità e, in quello peggiore, impedimento o sabotaggio.

Finché si resta nella futilità, chi governa nella dimensione dell’essere può limitarsi all’indifferenza o al dileggio nei confronti dei non allineati; ma, quando si trova di fronte a difficoltà, il dileggio si trasforma in misure repressive a intensità variabile: il dileggio si trasforma in annientamento delle opinioni nel dibattito pubblico, fino – extrema ratio che, come possibilità, si erge sempre minacciosa sullo sfondo – all’uso della forza contro i portatori del dissenso. Tutto questo significa “dittatura del presente”: un significato oggettivo, che prescinde dalla buona o cattiva volontà di chi occupa posti esecutivi. Nella dittatura del presente sono più numerose le passive e inconsapevoli comparse che non gli attivi e consapevoli protagonisti.

(livellamento e sincronizzazione) Il tempo esecutivo è incompatibile con il dissenso operante. I tecnici sono sicuri del fatto loro; gli altri, che tecnici non sono, sembra che non sappiano quello che vogliono. Per questo, nel governo esecutivo i diversi soggetti della vita pubblica devono progressivamente livellarsi e sincronizzarsi. In una parola: devono egualizzarsi e mettersi in linea, la “linea nazionale”. Sentiamo parlare di “partito della Nazione”, c’è la tentazione di voler essere il premier (non di un governo, d’una maggioranza, ma) della Nazione al di là di destra e sinistra, abbiamo la Tv della Nazione, avremo presto, forse, l’Editore nazionale, ecc.

Ma, il luogo istituzionale in cui consenso e dissenso politico e sociale dovrebbero esprimersi con compiutezza è un parlamento risultante da libere elezioni. Questo dovrebbe essere il punto di riferimento della democrazia, la sede che al massimo livello rappresenta – come dicevano i costituzionalisti d’un tempo – la coscienza civile della Nazione tutta intera, non però come un intero, ma come componenti di un “intero confronto” tra loro. Un tale parlamento sarebbe precisamente il primo ostacolo che incontra il governo esecutivo. Questa spiega perché lo si umilî spesso con procedure del tipo “prendere o lasciare” e perché coloro – deputati e senatori – che collaborano al progetto del governo esecutivo si umilino essi stessi accettando senza lamentarsi, o con deboli lamenti, la minaccia dello scioglimento che viene ventilata, come se fosse prerogativa del presidente del Consiglio e non del presidente della Repubblica. Sotto quest’aspetto dovrebbero principalmente valutarsi le riforme istituzionali: aumentano o diminuiscono la capacità rappresentativa del Parlamento?

(vincitore e vinti) Le espressioni verbali che usiamo sono spesso rivelatrici. Della legge elettorale si dice ch’essa deve consentire ai cittadini di conoscere il vincitore “la sera stessa”.  Ma la politica democratica non conosce vincitori e vinti. Dalle elezioni risulterà il partito che è più forte degli altri numericamente, ma non certo il partito che, per i successivi cinque anni della legislatura, “ha sempre ragione”. Non ci si rende conto di che cosa trascina con sé questa espressione, tanto disinvoltamente usata nel dibattito politico: implica disprezzo per i partiti minori che formano le opposizioni e l’insofferenza verso i poteri di controllo, la magistratura in primo luogo che, a causa dei poteri che in forza della legalità le sono attribuiti, costituisce un impaccio non tollerabile per “il vincitore”.

Nella democrazia costituzionale – l’opposto della tirannia della maggioranza – non c’è posto per strappi e “aventini”. Ma il partito che ha ottenuto il maggior successo nelle elezioni, proprio per questa ragione, ha un onere particolare: governare senza provocare fratture e strappi, onde chi risulta soccombente non abbia motivo di ritenersi vinto, annientato, e non debba considerare la sua presenza nelle istituzioni ormai superflua. Il Parlamento mezzo-vuoto dovrebbe rappresentare un grave problema democratico per tutti, a incominciare dalla maggioranza. Sotto questo profilo dovrebbero principalmente valutarsi la legge elettorale in gestazione e le procedure decisionali parlamentari che si stanno riscrivendo: aumentano la forza centripeta delle istituzioni o aumentano le tentazioni centrifughe?

(deriva autoritaria?) Quando si guardano i cambiamenti istituzionali in corso d’approvazione nel loro complesso – non questa o quest’altra disposizione presa a sé stante – è difficile non vedere, a meno di non voler vedere, il quadro: un sistema elettorale che, tramite il premio di maggioranza e, ancor di più, con il ballottaggio, comprime la rappresentanza e schiaccia le minoranze, nella logica vincitore-vinti; una sola camera con poteri politici pieni e con procedimenti dominati dall’esecutivo; un’attività legislativa in cui la deliberazione rischia in ogni momento di ridursi a interinazione veloce delle proposte governative; controllo maggioritario, rafforzato dal premio di maggioranza, delle nomine di garanzia (presidente della Repubblica, giudici costituzionali, membri del CSM, presidente della Camera, e successive decisioni a questi attribuite); minaccia di scioglimento della Camera in caso di dissenso dal Governo: tutte questioni in ballo nel processi di riforma in corso, che restano in piedi anche nelle nuove versioni dei testi in discussione, pur emendati rispetto agli originari.

Soprattutto, influisce sul giudizio della situazione il silenzio totale su due punti cruciali: la democrazia nei partiti e la vitalità dell’informazione. Qui sta la materia prima della democrazia e se la materia è corrotta, quale che sia il manufatto (cioè l’impalcatura istituzionale) il risultato non potrà non portare i segni della corruzione. Il guscio sarà svuotato della sostanza. Anzi, servirà a mascherare lo svuotamento.

(che cosa significa difendere la Costituzione?) Non si tratta di difendere un’astratta intoccabilità della Costituzione, la quale prevede la possibilità e le procedure per la propria stessa riforma. La Costituzione non è un totem. Nemmeno è “la costituzione più bella del mondo”. Semplicemente essa delinea una forma politica che si basa sulla democrazia di partecipazione, dove le decisioni collettive procedono attraverso contributi dal basso, cioè  dai bisogni sociali, dalle convinzioni della giustizia e della libertà che si formano nella società, si organizzano in forme associative e si esprimono negli organi rappresentativi e si sintetizzano e si traducono in pratica attraverso l’opera del governo.

Questa è la “piramide democratica” di cui già si parlava all’epoca dell’Assemblea costituente. Difendere la Costituzione è vigilare affinché la piramide non si rovesci e le decisioni collettive non procedano dall’alto e s’impongano non in base alla partecipazione e alla deliberazione conseguente ma, per esclusione e per autorità, su una società lobotomizzata, rassegnata, passiva. Detto in altri termini, difendere il nucleo della Costituzione è difendere la politica come materia nelle mani dei cittadini e delle loro libere manifestazioni sociali dall’espropriazione da parte delle oligarchie che facilmente e naturalmente si raccolgono attorno agli esecutivi. Onde, per facile deduzione, può dirsi che la difesa della Costituzione equivale alla difesa della democrazia contro le oligarchie. E, poiché le oligarchie odierne albergano soprattutto nell’economia finanziarizzata, difendere la Costituzione significa difendere la politica dalla soverchiante presenza degli interessi economici.

Infine: poiché l’economia al servizio della finanza ha dimensione globale, difendere la Costituzione significa anche difendere l’autonomia politica della collettività nazionale, senza la quale democrazia è parola vuota. In tal modo, il cerchio si chiude: dalla democrazia alla democrazia. Si dice, tuttavia: c’è pur bisogno di governo. Le democrazie muoiono per impotenza, quando non c’è governo. Rispondiamo: è così! Purché si tratti veramente di governo, ma il governo è politica e, finché prevale non la politica ma l’esecutivo, gonfiare l’esecutivo significa sgonfiare la politica. Per questo, occorre rinforzare le radici e non affidarsi alle frasche. Solo le radici rivitalizzate sono la condizione della politica e della democrazia.

(i compiti di libertà e di giustizia) La nostra associazione è nata tredici anni fa con il compito di vigilare sui comportamenti della “classe politica”, per custodirne i requisiti minimi d’integrità e di legalità, in una fase della nostra storia in cui il degrado sembrava, ed era, refrattario a ogni limite. Si trattava di difendere la dignità della politica, un compito che non può certo dirsi diventato inattuale. Questo compito è, dunque, ancora il nostro.

Ma, oggi, quando la politica entra in una zona d’ombra e con essa la democrazia, il compito si allarga e diventa più impegnativo. Si tratta di contribuire a elaborare idee, proposte e rivendicazioni propriamente politiche, cioè di tentare di liberarci dalla cappa che, sulla vita pubblica, stende la dittatura del presente, tramite uno strisciante conformismo che equivale a una loi du silence. Per questo, occorre lavorare con le forze culturali e sociali che, avendo le radici nelle condizioni di vita quotidiane dei più, sanno o cercano di sapere quali sono le domande che chiedono di esprimersi in politiche conseguenti. Questa è la base della Costituzione che deve essere difesa.

Questo è l’onere al quale non possono sfuggire coloro che credono nella democrazia. Questo, viceversa, è ciò che temono coloro che occupano il vertice della piramide e da lì guardano con sospetto ciò che pare sfuggire al proprio controllo. La società civile viene chiamata in causa: non i magnati che frequentano i cosiddetti salotti del potere, dove già s’incontrano senza difficoltà quanti dispongono del potere in tutte le sue forme: economico, culturale, statale. Costoro non hanno affatto bisogno d’incrementare la loro posizione nelle istituzioni. La “nostra” società civile è composta da singoli e associazioni che dedicano energie, tempo, capacità professionali e denari propri in tutti i luoghi della società che avrebbero bisogno di politiche: i luoghi della povertà e della disperazione, della mancanza di lavoro e di possibilità d’impresa, dell’emarginazione e della discriminazione, della malattia, dell’handicap, degli anziani senza sostegno, delle famiglie dove esistono malati di mente e sono lasciate a se stesse, del degrado ambientale.

Questa nostra società civile è ricca di energie e in questa ricchezza sta il serbatoio da cui attingere per la rianimazione della politica a partire dalle dimensioni locali, più sensibili alla concretezza dei problemi sociali, purché si riesca a coordinarle in movimenti capaci di convertire l’azione quotidiana dall’ambito limitato a quello generale, per il modellamento democratico della società. Programma impossibile? Può sembrare così, anche perché oggi le politiche nazionali si scontrano con i vincoli che vengono dalle istituzioni sovranazionali di cui facciamo parte, anch’esse essenzialmente non-politiche. Ancora una volta viene in aiuto la Costituzione. Essa ammette, sì, le limitazioni alla sovranità nazionale, ma solo in condizioni di parità con gli altri Stati e se servono ad assicurare la pace e la giustizia tra le Nazioni. Possiamo dire questo dell’Unione Europea, così com’essa si presenta nei suoi odierni sviluppi? Di fronte all’enormità del compito e prima di dare risposte rinunciatarie, si veda se è possibile realizzare un’unità d’intenti da spendere oltre la dimensione particolare delle formazioni sociali in cui ciascuno di noi separatamente opera, per prolungarla politicamente e diffonderne l’influenza.

(conclusione) Chi ha scritto queste considerazioni – che si sono volute esprimere nel modo più chiaro e categorico possibile, perché solo così l’onesta discussione è possibile –  e coloro che eventualmente ne condividono il contenuto sono perfettamente consapevoli di generare fastidio. La loro colpa è di essere Cassandre impenitenti, incontentabili pessimisti, conservatori vecchi e pregiudizialmente nemici del nuovo. Coloro che provano questo fastidio appartengono a generi diversi. Vi sono quelli che non credono nella democrazia, preferendo qualche forma di potere forte – a condizione però, sia chiaro – ch’esso sia dalla loro parte. A questi, che credono sia arrivata per loro “la volta buona”, non c’è nulla da dire. Poi, vi sono coloro che dicono d’essere dalla parte della democrazia, ma negano che sia in corso una deriva della democrazia e pensano che non c’è nulla per cui non stare tranquilli. A questi, si può dire ch’essi non vogliono vedere la semplice realtà che a noi appare evidente per se stessa. Vi sono poi coloro che ritengono che, per far uscire il nostro Paese dallo stallo in cui si trova e perfino per salvare la democrazia dal suicidio per impotenza, si debbano accettare rinunce, cioè riforme del tipo di quelle in cantiere. A questi, sommessamente vorremmo dire che la prima condizione per salvare la democrazia è la riforma degli attori politici, non la riforma delle istituzioni o, almeno la riforma degli uni e delle altre insieme. Occuparsi solo delle seconde è sospetto.

Le riforme ambite da quella che si chiama classe politica servono, infatti, agli adeguamenti alle sue esigenze. Non sono riforme, ma accomodamenti perseguiti con impazienza da una classe politica che avverte drammaticamente il proprio declino e cerca contraddittoriamente di sopravvivere insistendo sulle sue cause. Si parla (impropriamente) di “governabilità”, ma si tratta d’altro, di rafforzamento della presa sul potere. Noi vorremmo chiedere se non pensano d’essere proprio loro, in misura rilevante, la causa dei nostri problemi. Se è così, le riforme decisioniste – le “blindature” – aggravano, non risolvono. Noi, sommessamente ma tenacemente continuiamo a pensare, con i nostri Costituenti, che la buona politica richieda più, non meno, democrazia, cioè più partecipazione e meno oligarchia, più aperture e meno chiusure ai bisogni sociali: i bisogni di chi meno conta nella società e perciò più ha diritto di contare nelle istituzioni. Altro che rami alti: bisogna lavorare per rinforzare le radici.