venerdì 9 gennaio 2015

LETTERE CONTRO LA GUERRA - Tiziano Terzani

Tiziano Terzani – Lettere contro la guerra
“Ci sono giorni nella vita in cui non succede niente, giorni che passano senza nulla da ricordare, senza lasciare una traccia, quasi non fossero vissuti. A pensarci bene, i più sono giorni così, e solo quando il numero di quelli che ci restano si fa chiaramente più limitato, capita di chiedersi come sia stato possibile lasciarne passare, distrattamente, tantissimi. Ma siamo fatti così: solo dopo si apprezza il prima e solo quando qualcosa è nel passato ci si rende meglio conto di come sarebbe averlo nel presente. Ma non c’è più”.
E l’11 settembre 2001, con tutto il suo devastante orrore, per Tiziano Terzani poteva rappresentare una buona occasione per riflettere: “Tutto il mondo aveva visto. Tutto il mondo avrebbe capito. L’uomo avrebbe preso coscienza, si sarebbe svegliato per ripensare il tutto: i rapporti fra Stati, fra religioni, i rapporti con la natura, i rapporti stessi fra uomo e uomo”. Ma quello che successe dopo, la battaglia mediatica, quel dividere il mondo tra Bene e Male, Luce e Tenebre, i Giusti solo da una parte, ci stava portando lontano: “L’11 settembre era stata l’occasione di svegliare ed aizzare il cane che è in ognuno di noi. Il punto centrale della risposta della Oriana era non solo di negare le ragioni del nemico, ma di negargli la sua umanità, il che è il segreto della disumanità di tutte le guerre”.
Già dalle prime pagine di “Lettere contro la guerra” si comprende come Terzani abbia voluto rispondere all’intolleranza e all’ipocrisia che hanno seguito l’ecatombe di New York, rispondendo anche provocatoriamente a quanto scritto dalla Fallaci, ricordandole che il problema del terrorismo non si risolve uccidendo i terroristi, ma eliminando le ragioni che li rendono tali, perché niente nella storia umana è semplice da spiegare. E anche l’attacco alle Torri Gemelle è il risultato di tanti e complessi fatti antecedenti, non un semplicistico “attacco alla libertà e alla democrazia occidentale”.
Le lettere di Tiziano, da Orsigna, Firenze, Peshawar, Kabul, Delhi e dall’Himalaya, sono scritte da un cronista che ha viaggiato per tutta la vita, che ha sempre creduto nella non-violenza come unica possibile via d’uscita dall’odio; un libro che parla di pace e di ipocrisie storiche, che smuove i nostri pensieri con un viaggio che ci fa incontrare Einstein, Freud, Gandhi ma anche lo stesso preambolo della costituzione dell’UNESCO: “Le guerre cominciano nella mente degli uomini ed è nella mente degli uomini che bisogna costruire la difesa della pace”.
Chiudo il libro e ne osservo la copertina: la foto ritrae Terzani con la sua lunga barba bianca e i sandali ai piedi, mentre cammina tra le macerie di Kabul… Tiziano ci ha lasciato poco fa. Rileggere i suoi libri è un po’ come sentirlo ancora vicino, e io amo pensarlo di nuovo in viaggio, lui, spirito libero, lontano da ogni condizionamento, pellegrino di pace, anima nel mondo. Con i suoi libri, con le toccanti testimonianze che ci ha generosamente lasciato, e la sua grande personalità. Uno straordinario invito a riflettere sul nostro passato e sul nostro futuro.
“Ancor più che fuori, le cause della guerra sono dentro di noi. Sono in passioni come il desiderio, la paura, l’insicurezza, l’ingordigia, l’orgoglio, la vanità… Lentamente bisogna liberarcene. Dobbiamo cambiare atteggiamento. Cominciamo a prendere le decisioni che ci riguardano e che riguardano gli altri sulla base di più moralità e meno interesse. Facciamo più quello che è giusto, invece di quel che ci conviene. Educhiamo i figli ad essere onesti, non furbi. È il momento di uscire allo scoperto; è il momento d’impegnarsi per i valori in cui si crede. Una civiltà si rafforza con la sua determinazione morale molto più che con nuove armi. (…) Il mondo è cambiato. Dobbiamo cambiare noi. Fermiamoci, riflettiamo, prendiamo coscienza, facciamo ognuno qualcosa. Nessun altro può farlo per noi”.

Il pollo di Trilussa e la crisi europea di Andrea Baranes

Il pollo di Trilussa e la crisi europea
di Andrea Baranes
Sai ched’è la statistica? È ’na cosa
che serve pe’ fa’ un conto in generale
de la gente che nasce, che sta male,
che more, che va in carcere e che sposa.
Ma pe’ me la statistica curiosa
è dove c’entra la percentuale,
pe’ via che, lì, la media è sempre eguale
puro co’ la persona bisognosa.
Me spiego: da li conti che se fanno
secondo le statistiche d’adesso
risurta che te tocca un pollo all’anno:
e, se nun entra ne le spese tue,
t’entra ne la statistica lo stesso
perché c’è un antro che ne magna due.
Trilussa – La Statistica
Ci incamminiamo lungo il pendio di una collina. Poco a poco prendiamo velocità. L’unico modo per rimanere in piedi è iniziare a correre più veloce, e più corriamo veloce più dobbiamo accelerare. Se non vediamo la fine della discesa, prima ci buttiamo per terra e meno ci facciamo male.
Il PIL del mondo cresce del 2 – 3% l’anno. La finanza pretende profitti in doppia cifra. Abbiamo un problema. La cosa potrebbe essere accettabile se la finanza trascinasse con sé l’economia reale e la ricchezza di tutti. Potrebbe essere economicamente sostenibile se la finanza fosse di dimensioni limitate rispetto all’economia. Nessuna di queste due ipotesi è vera. Le possibilità per il sistema finanziario di garantire i tassi di profitto necessari al proprio sostentamento sono solamente due. Incrementare ulteriormente il trasferimento di risorse dall’economia reale, o creare delle gigantesche bolle speculative.
In entrambi i casi, continuare a correre sempre più veloce lungo una discesa sempre più ripida.
Allo scoppio della crisi, nel 2007, si sono succedute roboanti dichiarazioni sulla fine della finanza-casinò, su severe misure di regolamentazione da introdurre al più presto, sull’introduzione di controlli stringenti.
A distanza di più di quattro anni non è stato fatto praticamente nulla. Anzi. Il mercato dei derivati segna nuovi record, la speculazione viaggia a pieno ritmo, i paradisi fiscali fioriscono, i banchieri di Wall Street e della City si gratificano con bonus miliardari.
La mancata regolamentazione non è unicamente una questione di ingiustizia sociale. Di fatto una buona parte del mondo finanziario si trova oggi in una situazione simile a quella pre-crisi: stessi volumi (anzi, ancora maggiori) di titoli rischiosissimi, stessa assoluta mancanza di trasparenza, stessa corsa esasperata verso il massimo profitto fine a sé stesso a qualunque costo, stessa probabilità di un tracollo
Un dato per capire meglio. Diversi dei maggiori gruppi bancari del mondo continuano ancora oggi a lavorare con delle leve finanziarie anche di 40 o 50 a 1. Cosa significa una leva di 50 a 1? Significa che ho 1 solo euro mio, 49 li chiedo in prestito e i 50 così ottenuti me li vado a giocare al casinò, sperando di guadagnare abbastanza per restituire il prestito e i suoi interessi. Ma cosa succede se perdo anche solo 2 euro sui 50 che ho giocato? Succede che non solo finisco i miei soldi, ma non posso nemmeno restituire i
prestiti contratti. Succede da una parte che sono insolvente, dall’altra che il mio comportamento contagia e causa delle perdite anche chi mi ha prestato i 49 euro. Magari tra i creditori c’è anche un’altra banca che ha anche lei una leva finanziaria di 50 a 1, e che se non rientra di un prestito anche relativamente piccolo rischia di andare essa stessa in enormi difficoltà, e via con un effetto domino.
In un altro post pubblicato qui avevamo illustrato non uno ma dieci motivi che ci portavano a dire che quella che viene dipinta come una crisi dei debiti sovrani dei PIIGS europei sia in massima parte ancora una crisi bancaria e finanziaria. E che se nel 2007 alcune banche erano too big to fail, troppo grandi per essere lasciate fallire, oggi è il sistema finanziario nel suo insieme a essere too big to save, semplicemente troppo grande perché i governi – già in difficoltà – possano salvarlo.
Le banche si sono lanciate lungo il pendio della collina, correndo sempre più veloci. Nella corsa hanno travolto Stati, lavoratori e cittadini. Ora siamo noi a rotolare. Ma questo è stato appena sufficiente per rallentare per un momento la corsa del sistema finanziario, che ha ripreso più veloce di prima sopra le nostre teste. Tradotto, una montagna di debiti che vale decine di volte l’economia reale e che deve essere rifinanziata a tassi di interesse più alti del tasso di crescita della stessa economia. Una gigantesca bolla che tutti noi dobbiamo alimentare.
In ultima analisi, i tagli al welfare e alle spese sociali, la mercificazione dei beni comuni, l’austerità e gli interessi crescenti sul debito pubblico sono il nostro (inconsapevole e forzoso) tentativo di tenere in piedi questo sistema finanziario. Se la ricchezza totale è quella e qualcuno se la divora tutta continuando ad avere fame, qualcun altro deve digiunare. La media è di un pollo a testa, ma come insegna Trilussa qualcuno rimane a stomaco vuoto. E per non fare arrabbiare chi continua a mangiare entrambi i polli oggi ci chiedono anche di stringere la cinghia.
E’ questo il cuore del problema. Possiamo discutere dell’attuale assetto europeo, persino dei vantaggi e svantaggi di un’eventuale uscita dall’euro. Ma sarebbe come discutere se è meglio avere in tavola polli, tacchini o quaglie. Non cambia molto finché qualcuno continua a spazzolare tutto e ad avere sempre più fame.
Analogamente si possono contestare i piani di austerità e proporre misure keynesiane di intervento pubblico per rilanciare l’economia. Al di là di quale modello economico e quale sistema produttivo vogliamo mettere in piedi (interventi pubblici per i cacciabombardieri o per l’efficienza energetica?), interventi di stimolo dell’economia significano che in tavola avremo tre polli invece di due, la media sarà di 1,5 polli a testa, tutti e tre finiranno nelle fauci della speculazione e noi saremo più indebitati e affamati di prima.
Parlare di definanziarizzazione significa semplicemente pensare che è ora che la media di un pollo a testa corrisponda a un pollo a testa. Anzi, è ora che sia la finanza-casinò a stare un po’ a digiuno.

sabato 3 gennaio 2015

A PROPOSITO DEL TTIP

Ho atteso qualche tempo prima di affrontare il tema, sia per la necessità di informarmi con cognizione di causa e senza pregiudizi,sia per la concomitanza con le festività natalizie. Ho seguito con attenzione l’evolversi dello scambio di mail tra Gianni Marcatili che ha di fatto avviato la discussione, sia i contributi di Bianca Zanin, sia ovviamente quelli di Paolo Cova..

Non starò quindi qui a rifare la tiritera su cos’è il Ttip. Ora, e sottolineo ora , una serie di notizie sono finalmente giunte ai più, dopo che oggettivamente per oltre 1 anno e forse più tale tematica veniva discussa e valutata in “gran segreto” solo da uno sparuto gruppo di “tecnici” americani ed europei, lo dimostra il fatto incontestabile che il primo e forse unico documento sull’argomento diffuso dalla Commissione Europea su pressione di centinaia di associazioni ambientaliste, dei consumatori, dei sindacati a livello internazionale  sia americani che europei, sia da una sentenza della Corte di Giustizia Europea che richiamava ad una maggiore trasparenza, e da un articolo pubblicato da Le Monde Diplomatique, data il 9 ottobre 2014 quando la trattativa, sollecitata dalle multinazionali americane,  si è aperta ufficialmente nei primi mesi del 2013, ma è stata preceduta da una lunghissima preparazione diplomatica  durata almeno 10 anni.

Già questo pone dei seri dubbi sulle intenzioni “vere” dell’iniziativa, che viene “venduta ufficialmente” come “ accordo commerciale e per gli investimenti” con l’obiettivo dichiarato di “ aumentare gli scambi e gli investimenti tra l’UE e gli USA realizzando il potenziale inutilizzato di un mercato veramente transatlantico, generando nuove opportunità economiche di creazione di posti di lavoro e di crescita mediante un maggiore accesso al mercato e una migliore compatibilità normativa e ponendo le basi per norme globali”.

Messa così sembrerebbe la  ennesima grande indifferibile opportunità per uscire dalla crisi del capitalismo occidentale e creare le condizioni per una nuovo periodo di crescita globale e di benessere per tutti.

La realtà è lungi dall’essere così benemerita e sarebbe qui sufficiente segnalare ( cosa peraltro ben evidenziata da uno dei contributi inviatici da Bianca Zanin )  quanto scritto appunto su Le Monde Diplomatique da Lori Wallach  ( director of Public Citizen's Global Trade Watch. A Harvard-trained lawyer, Wallach has promoted the public interest regarding globalization and international commercial agreements in every forum: Congress and foreign parliaments, the courts, government agencies, and the media ):

Secondo il calendario ufficiale, i negoziati non dovrebbero concludersi che entro due anni ( ndr. entro il 2015 ). Il Ttip unisce aggravandoli gli elementi più nefasti degli accordi conclusi in passato. Se dovesse entrare in vigore, i privilegi delle multinazionali avrebbero forza di legge e legherebbero completamente le mani dei governanti. Impermeabile alle alternanze politiche e alle mobilitazioni popolari, esso si applicherebbe per amore o per forza poiché le sue disposizioni potrebbero essere emendate solo con il consenso unanime di tutti i paesi firmatari. Ciò riprodurrebbe in Europa lo spirito e le modalità del suo modello asiatico, l’Accordo di partenariato transpacifico (Trans-pacific partnership, Tpp), attualmente in corso di adozione in dodici paesi dopo essere stato fortemente promosso dagli ambienti d’affari.
Insieme, il Ttip e il Tpp formerebbero un impero economico capace di dettare le proprie condizioni al di fuori delle sue frontiere: qualunque paese cercasse di tessere relazioni commerciali con gli Stati uniti e l’Unione europea si troverebbe costretto ad adottare tali e quali le regole vigenti all’interno del loro mercato comune.”

E inoltre:

“Possiamo immaginare delle multinazionali trascinare in giudizio i governi i cui orientamenti politici avessero come effetto la diminuzione dei loro profitti? Si può concepire il fatto che queste possano reclamare – e ottenere! – una generosa compensazione per il mancato guadagno indotto da un diritto del lavoro troppo vincolante o da una legislazione ambientale troppo rigorosa? Per quanto inverosimile possa apparire, questo scenario non risale a ieri. Esso compariva già a chiare lettere nel progetto di accordo multilaterale sugli investimenti (Mai) negoziato segretamente tra il 1995 e il 1997 dai ventinove stati membri dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) “.

Ebbene, al di là della piccata “irritazione ed amara ironia” colta nelle mail dell’amico Paolo Cova che reputo francamente fuori luogo in quanto evidenziano un po’ di sindrome da assedio che coglie oggi una buona parte dei nostri  rappresentanti PD in  Parlamento ( ndr. la stessa cosa ho personalmente potuto sperimentare in altri incontri avuti anche su temi diversi da parte di altri senatori o deputati ) che li porta a valutare con meno serenità del necessario le critiche che vengono portate all’operato dell’attuale governo intravedendo in ciascuna di esse il segno del pregiudizio e dell’antipolitica. All’amico Paolo vorrei solo far notare che la sua news, che leggo sempre volentieri, la n° 81 del 23 novembre 2014  affermava :

“Dall’America meno contraffazioni

In settimana, alla Camera, abbiamo approvato le mozioni relative all’accordo di partenariato per il commercio e gli investimenti tra Unione europea e Stati Uniti d’America noto come Transatlantic trade and investment partnership (Ttip). Nei testi la Camera impegna il Governo ad agire, in particolare nella fase del semestre italiano di Presidenza del Consiglio dell’Unione europea, affinché siano concretamente valorizzate le previsioni delle Direttive di negoziato sul partenariato circa l’impegno della Commissione europea a sviluppare, nel corso della trattativa, un dialogo regolare con tutte le parti interessate della società civile per consentire un avanzamento dei rapporti rispetto all’impostazione del mandato originario. È un modo, un po’ burocratese, per dire che Europa e America devono migliorare l’accordo di scambio. E in che senso è presto detto: prima di tutto sul fronte della sicurezza alimentare.
Anzi, su quest’ultimo punto, il Ministro delle Politiche agricole, Maurizio Martina, in audizione alla Camera, ha assicurato che l’accordo non comporterà alcuna riduzione della sicurezza alimentare di cui godono oggi i cittadini europei per facilitare le imprese o favorire l’arricchimento delle multinazionali, in quanto tutte le garanzie verranno mantenute e semmai migliorate. Il mandato prevede espressamente il diritto delle parti di valutare e gestire il rischio. In sostanza, è sancito il diritto di precauzione, affinché nel mercato europeo non entrino prodotti a rischio, come, ad esempio, la carne con gli ormoni o il pollo trattato con la clorina.
 Nella mozione proposta dal Pd sul tema, il Governo viene impegnato a riaffermare la necessità per il settore alimentare del riconoscimento delle indicazioni geografiche e del contrasto dell’italian sounding, favorendo semmai le nostre piccole e medie imprese.”

Come si vede dei buoni propositi giunti alla “informativa pubblica” con 1 anno e mezzo di ritardo.  Ovviamente non per colpa di Paolo Cova e certamente neppure del Ministro Martina.

Resta il fatto però che seppure siano stati, io dico positivamente, approvati alcune “mozioni” relative a tale accordo, le dichiarazioni ufficiali del Presidente Renzi, e del rappresentante italiano alla trattativa il viceministro per lo Sviluppo Economico, Carlo Calenda vanno in tutt’altra direzione. Proprio negli stessi giorni dell’invio della neglette di Paolo Cova, e quindi successivamente alle mozioni di cui si accenna in quella neglette,
“apprendiamo dal Financial Times, attraverso un articolo che ha ottenuto un certo rilievo sul quotidiano (Oliver C., Donnan S., Europe-US trade talks delay upset Italy, www.ft.com, 23 novembre 2014), che l’Italia ha di recente suonato il campanello d’allarme sull’insufficiente ritmo delle trattative e che essa è piuttosto contrariata dai ritardi. Il rappresentante italiano, Carlo Calenda, tra l’altro anche sottosegretario per lo sviluppo economico del nostro governo, ha dichiarato, come riporta l’organo della City di qualche giorno fa, tutta la sua impazienza al riguardo ed il timore che anche la data del dicembre 2015 si presenti come un traguardo difficile da rispettare. Calenda paventa in particolare che, se si va avanti con le trattative oltre la fine di tale anno   l’opposizione da parte dei partiti “anticapitalistici ed antiamericani”, nonché di molte organizzazioni non-governative, diventino anche più forti. I suoi timori si estendono anche all’eventualità che poi si entri in periodo elettorale, almeno negli Stati Uniti, e che le discussioni si trascinino così sino al 2017 ed anche oltre. Naturalmente Calenda appare d’accordo, per quanto riguarda lui e il suo governo, nel lasciare il trattato sostanzialmente come è, comprese le clausole sulla risoluzione delle dispute, anche se riconosce, bontà sua, che qualche concessione al centro- sinistra tedesco bisognerà forse farla. La linea italiana appare così nella sostanza simile a quella manifestata anche di recente da David Cameron, peraltro in odore di uscita dall’UE”.

Ciò detto resta da capire se, quando e soprattutto come tale accordo verrà posto in essere.
Io credo come la quasi totalità dell’associazionismo, dei sindacati, dei movimenti dei consumatori ,sottolineo sia europei che americani , che occorra vera partecipazione, sia a livello di ascolto-trattativa e non di mera informativa come finora si pratichi concretamente, evitando di sentirci dire, dai pochi ed esclusivi negoziatori che “decidono e decideranno sulla nostra qualità della vita” che “dobbiamo solo fidarci” di loro, che sono bravi e che difenderanno al meglio i nostri interessi. In realtà Negli incontri preparatori in Commissione ristretta su 560 consultazioni del Dipartimento Commercio, 520 ( il 92% ) sono state fatte con le aziende e di questi ben 113 con l’industria agroalimentare, la più potente a Bruxelles. Solo 26 ( il 4% ) sono stati invece gli incontri con rappresentanti di interessi pubblici come i consumatori, e il restante 4% con singoli o istituzioni. I numeri come si vede non sono affatto confortanti.
Dall’ultimo numero del magazine ALTROCONSUMO autorevolissima rivista del consumo critico e di difesa dei consumatori che consiglio a tutti di acquistare e leggere con attenzione, traggo un elenco sul CIBO SICURO e sulle cose che per esso occorre che non si ceda affatto alle spinte oltranziste e mercatiste:
-          non deve essere scalfito il PRINCIPIO DI PRECAUZIONE;
-          massima severità sulla FILIERA delle carni e dei prodotti da essa derivati;
-          MENO POTERE ALLE IMPRESE;
-          NIENTE ORMONI NELLE CARNI;
-          MENO ANTIBIOTICI negli allevamenti;
-          Vietare l’igienizzazione dei polli con la CLORINA;
-          NO  a latte e carni dai figli degli animali CLONATI;
-          NO agli OGM senza etichettatura;
-          Mantenimento e valorizzazione elle indicazioni DOCG, DOC, DOP e IGP;
-          Mantenimento delle denominazioni dell’ORIGINE DEI PRODOTTI;
-          NO all’abbassamento della qualità dei prodotti come sono spesso quelli di produzione americana rispetto a quelli italiani ed europei;
-          le leggi non le devono fare le Imprese, e i governi devono tutelare i cittadini soprattutto.

Ecco quindi su cosa dovremmo informarci, essere informati e tenerci tutti informati.


Fraterni saluti, Vitaliano Serra ( 03.01.2015 )